di Marcello Veneziani
Con Epicuro è il pensatore che ha scritto i "long seller" di maggior successo. La sua lettera sulla felicità proposta ai liceali insegna ad accettare il destino
Non ho fatto in tempo, ieri sul Giornale, a invocare Seneca agli esami di stato che nella stessa mattinata sono stato accontentato. A Seneca, a Lucilio e alle sue lettere sulla felicità ho dedicato l’ultimo mio libro uscito poche settimane fa. E una lettera di Seneca a Lucilio in tema di felicità è stata ieri la seconda prova di maturità per i liceali.
Sono contento, e non per puro piacere personale. Seneca è uno di quei pochi filosofi che non insegna solo teorie ma pratiche di vita, che fa filosofia ad altezza d’uomo e mira non solo a esercitare l’intelligenza ma a trasformare la vita e penetrare dentro l’anima del suo lettore, anche per la bellezza del suo stile.
Seneca è cordialmente detestato da molti per tante ragioni. Innanzitutto perché si studia a scuola e spesso è da tradurre dal latino, anziché gustare come filosofo. Poi perché predicava bene e razzolava male, in amore e denaro, in potere e in possesso, dai tempi di Claudio ai tempi di Nerone, di cui fu consigliere, un po’ complice e infine vittima. Quindi perché predicava troppo, era un po’ troppo grillo parlante ed estenuava i poveri malcapitati che voleva consolare, esortare, ammaestrare. Ma era un vero educatore, e della sua vita in fin dei conti ci interessa poco, perché quel che resta di lui sono i suoi scritti e i suoi pensieri. Che dopo duemila anni riscuotono ancora tanto successo; non dico a scuola, ma in libreria. Con Epicuro, Seneca è il filosofo autore di long seller di maggior successo nel presente. Perché parla di vita e di felicità, perché è chiaro e comprensibile. In un ipotetico Giornale dell’Impero sarebbe stato l’elzevirista principe. In fondo è l’unico coetaneo di Cristo che merita di starGli al passo, seppure a devota distanza.
In tema di felicità, si capisce da lontano che Seneca ne è un portatore sano, perché lui è un melanconico. Predilige la felicità del saggio, come assenza di passioni; ma quella non è felicità, si chiama serenità, o al grado estremo beatitudine. Ci sono in realtà due tipi di felicità. Una è la felicità come perdersi nella vita, l’euforia di abbandonarsi ai flussi e alle passioni vitali. Una felicità dionisiaca, bacchica a Roma dove Dioniso era chiamato Liber Pater. L’altra, invece, è la felicità come armonia, senso del bello e della misura; è la felicità apollinea, ed è quella che più somiglia alla felicità virtuosa del saggio, a cui si riferisce Seneca.
Ma qual è il senso e il culmine di quella felicità a cui allude Seneca nella lettera n. 74 che è stata data in pasto ai maturandi? È la felicità come amor fati, come accettazione serena del destino, della realtà, dei nostri limiti e del nostro tramontare.
È lì che nasce per lo stoico, come Seneca, la padronanza di sé, la libertà dalle passioni e dalle dipendenze materiali. Il saggio non ha bisogno di nulla, e non perché possieda già tutto ma perché tutto ciò che a lui veramente importa è dentro di sé, nella sua perfezione interiore. Nella virtù risiede il saper vivere, secondo Seneca, e se la felicità volta le spalle alla virtù decade il sentimento religioso, la lealtà e generosità verso gli altri, la gratitudine e la fierezza del lavoro; tutto si vanifica, perde senso e valore. E nasce quello stato d’animo descritto da Seneca che si riferisce al suo tempo ma che sembra alludere al nostro: quell’odio verso la vita unito al timore della morte. Tanto più disprezziamo la vita quanto più morbosamente ci attacchiamo a lei. Perché in realtà vivere non basta, ho sostenuto nel testo senechiano, la vita non può essere scopo di se stessa, una vita non va solo vissuta, potenziata e prolungata, ma anche pensata, plasmata e dedicata.
Infine il dubbio antico: ma chi era e cosa rispondeva questo Lucilio? Il poco che sappiamo di lui, in un alone di incertezza sulla sua stessa esistenza, è che fu un allievo di poco più giovane di Seneca, fu un funzionario dell’impero, per un periodo in Sicilia; era di origine meridionale, forse pompeiana, ed aveva propensione poetico-letteraria. Ma non si sono mai trovate le sue lettere a Seneca, anche se il filosofo iberico vi fa spesso riferimento. Da qui la mia idea di vestire i panni di Lucilio e di scrivere al maestro, di dialogare con lui e di confutarlo rispettosamente in certi casi. Lettere che sarebbero state ritrovate a Pompei nel recente crollo della casa del moralista (un lettore-docente ha realmente creduto a questa invenzione letteraria e in una mail ha benedetto il crollo per il prezioso ritrovamento).
Grande lezione, quella di Seneca, e poco importa fargli i conti della serva e notare qualche vistosa incoerenza tra quel che scrisse e quel che visse: in fondo la sua vita riguarda solo lui e i pochi intimi, il suo pensiero riguarda tutti noi. Ma sulla felicità Seneca ci insegna soprattutto una cosa: che sulla felicità c’è poco da insegnare, perché la felicità si vive e non si prescrive. La felicità è nell’oblio, appena ti ridesti vola via. E questo Seneca, magari quando s’innamorò di Giulia Livilla e finì in esilio per nove anni, lo sapeva. Ma lo volle dimenticare. Perché la felicità riguarda ciò che vola, la saggezza concerne ciò che resta.
Sono contento, e non per puro piacere personale. Seneca è uno di quei pochi filosofi che non insegna solo teorie ma pratiche di vita, che fa filosofia ad altezza d’uomo e mira non solo a esercitare l’intelligenza ma a trasformare la vita e penetrare dentro l’anima del suo lettore, anche per la bellezza del suo stile.
Seneca è cordialmente detestato da molti per tante ragioni. Innanzitutto perché si studia a scuola e spesso è da tradurre dal latino, anziché gustare come filosofo. Poi perché predicava bene e razzolava male, in amore e denaro, in potere e in possesso, dai tempi di Claudio ai tempi di Nerone, di cui fu consigliere, un po’ complice e infine vittima. Quindi perché predicava troppo, era un po’ troppo grillo parlante ed estenuava i poveri malcapitati che voleva consolare, esortare, ammaestrare. Ma era un vero educatore, e della sua vita in fin dei conti ci interessa poco, perché quel che resta di lui sono i suoi scritti e i suoi pensieri. Che dopo duemila anni riscuotono ancora tanto successo; non dico a scuola, ma in libreria. Con Epicuro, Seneca è il filosofo autore di long seller di maggior successo nel presente. Perché parla di vita e di felicità, perché è chiaro e comprensibile. In un ipotetico Giornale dell’Impero sarebbe stato l’elzevirista principe. In fondo è l’unico coetaneo di Cristo che merita di starGli al passo, seppure a devota distanza.
In tema di felicità, si capisce da lontano che Seneca ne è un portatore sano, perché lui è un melanconico. Predilige la felicità del saggio, come assenza di passioni; ma quella non è felicità, si chiama serenità, o al grado estremo beatitudine. Ci sono in realtà due tipi di felicità. Una è la felicità come perdersi nella vita, l’euforia di abbandonarsi ai flussi e alle passioni vitali. Una felicità dionisiaca, bacchica a Roma dove Dioniso era chiamato Liber Pater. L’altra, invece, è la felicità come armonia, senso del bello e della misura; è la felicità apollinea, ed è quella che più somiglia alla felicità virtuosa del saggio, a cui si riferisce Seneca.
Ma qual è il senso e il culmine di quella felicità a cui allude Seneca nella lettera n. 74 che è stata data in pasto ai maturandi? È la felicità come amor fati, come accettazione serena del destino, della realtà, dei nostri limiti e del nostro tramontare.
È lì che nasce per lo stoico, come Seneca, la padronanza di sé, la libertà dalle passioni e dalle dipendenze materiali. Il saggio non ha bisogno di nulla, e non perché possieda già tutto ma perché tutto ciò che a lui veramente importa è dentro di sé, nella sua perfezione interiore. Nella virtù risiede il saper vivere, secondo Seneca, e se la felicità volta le spalle alla virtù decade il sentimento religioso, la lealtà e generosità verso gli altri, la gratitudine e la fierezza del lavoro; tutto si vanifica, perde senso e valore. E nasce quello stato d’animo descritto da Seneca che si riferisce al suo tempo ma che sembra alludere al nostro: quell’odio verso la vita unito al timore della morte. Tanto più disprezziamo la vita quanto più morbosamente ci attacchiamo a lei. Perché in realtà vivere non basta, ho sostenuto nel testo senechiano, la vita non può essere scopo di se stessa, una vita non va solo vissuta, potenziata e prolungata, ma anche pensata, plasmata e dedicata.
Infine il dubbio antico: ma chi era e cosa rispondeva questo Lucilio? Il poco che sappiamo di lui, in un alone di incertezza sulla sua stessa esistenza, è che fu un allievo di poco più giovane di Seneca, fu un funzionario dell’impero, per un periodo in Sicilia; era di origine meridionale, forse pompeiana, ed aveva propensione poetico-letteraria. Ma non si sono mai trovate le sue lettere a Seneca, anche se il filosofo iberico vi fa spesso riferimento. Da qui la mia idea di vestire i panni di Lucilio e di scrivere al maestro, di dialogare con lui e di confutarlo rispettosamente in certi casi. Lettere che sarebbero state ritrovate a Pompei nel recente crollo della casa del moralista (un lettore-docente ha realmente creduto a questa invenzione letteraria e in una mail ha benedetto il crollo per il prezioso ritrovamento).
Grande lezione, quella di Seneca, e poco importa fargli i conti della serva e notare qualche vistosa incoerenza tra quel che scrisse e quel che visse: in fondo la sua vita riguarda solo lui e i pochi intimi, il suo pensiero riguarda tutti noi. Ma sulla felicità Seneca ci insegna soprattutto una cosa: che sulla felicità c’è poco da insegnare, perché la felicità si vive e non si prescrive. La felicità è nell’oblio, appena ti ridesti vola via. E questo Seneca, magari quando s’innamorò di Giulia Livilla e finì in esilio per nove anni, lo sapeva. Ma lo volle dimenticare. Perché la felicità riguarda ciò che vola, la saggezza concerne ciò che resta.
«Il Giornale» del 24 giugno 2011