27 ottobre 2007

Omosessualità, genetica e propaganda

Che colpa ne ha se è nato così? Domanda sbagliata e anche pericolosa di Giuliano Ferrara
L'intenzione dell'amministrazione toscana che ha diffuso un manifesto in cui è raffigurato un neonato con la scritta "homosexual" sul braccio probabilmente era buona. Gli ideatori del messaggio intendevano dire che un omosessuale "che colpa ne ha se è nato così?" con l'obiettivo di contrastare tendenze omofobiche. Spesso, però, le buone intenzioni fanno la fine che si sa.
Il manifesto allude, neppure troppo subliminalmente, a un carattere innato e quindi sostanzialmente genetico dell'omosessualità, che peraltro non è affatto dimostrato scientificamente.
Il determinismo genetico, che non è un effetto della scienza ma una sua estrapolazione indebita, è una pericolosa tendenza che si sta diffondendo a macchia d'olio, e in particolare quando è applicato a interi aggregati umani, può produrre effetti devastanti.
Che si tratti di ebrei, definiti magari "più intelligenti", o di africani considerati nel modo opposto, si finisce con l'esprimere considerazioni di tipo razzista, con l'autorità riflessa da verità scientifiche che in realtà non c'entrano niente.
Nel caso specifico dell'omosessualità, come in molti altri, si interferisce con la sfera del giudizio etico, che in nessun caso spetta alla scienza. Far intendere che l'omosessualità è da tollerare perché genetica significa anche alludere a una sua inaccettabilità nel caso fosse invece conseguenza di scelte comportamentali.
Naturalmente nessuno è oggi in grado di determinare le cause dell'orientamento sessuale delle persone, e così viene quasi naturale, di fronte a questioni irrisolvibili, ricorrere alla facile e illusoria semplificazione del determinismo genetico. Anche chi lo fa con "buone" intenzioni dovrebbe pensare alle conseguenze.
Che cosa capiterebbe se ci si convincesse per esempio che la pedofilia ha origini genetiche? Dal determinismo alla selezione il passo è tremendamente breve.
Applicarlo a intere categorie, poi, può sfociare nella discriminazione, nel razzismo e nella persecuzione. E' già capitato, come sappiamo, e anche il razzismo aveva la pretesa di appoggiarsi su basi scientifiche e genetiche.
«Il Foglio» del 25 ottobre 2007

Mastrocola e la ragazzina che voleva fare il trovatore

di Fulvio Panzeri
Paola Mastrocola ha il dono raro di pensare la propria narrativa come una variazione continua sul 'romanzo di formazione', creando ad ogni sua nuova prova una storia avvincente, sospesa tra insofferenza del quotidiano e forza vitale dell’utopia. Accade anche in questa sua nuova storia che è 'controcorrente' in tutti i sensi, come del resto la narratrice ha sempre dimostrato nelle opere precedenti, con una ostinata (e salutare) impossibilità ad allinearsi a quelle che sono le convenzioni 'culturali' della società italiana. In Più lontana dalla luna il primo 'strappo alla regola' avviene nella lettura del 'passato prossimo' che fa da sfondo alla vicenda, vale a dire gli anni settanta, quelli che sono passati come gli anni della 'contestazione', delle assemblee, dei movimenti di sinistra: la Mastrocola non si allinea a questa lettura e ci presenta una ragazzina di famiglia povera, che vive in una cascina a Stupinigi, l’ex scuderia della Palazzina di caccia dei Savoia e non vuole sentir parlare né di manifestazioni, né di impegno politico, nonostante i cambiamenti evidenti della sua amica che da un giorno all’altro compare con jeans e maglioni pelosi in stile sudamericano.
Attraverso la sua esperienza ci racconta gli anni Settanta e i sogni di quella maggioranza silenziosa di giovani, un po’ bistrattati dagli arroganti 'impegnati' e violenti. Lei invece ha altre aspettative, quelle che possono in qualche modo salvare il grigiore di un’esistenza piccolo-borghese con un padre che lavora alla Fiat, orgoglioso e fiero del suo lavoro di operaio e di una madre che ha un banco di frutta e verdura al mercato e che lei andrà ad aiutare.
Non hanno un’automobile, ma un cavallo, Pino che diventerà il compagno di quella che sarà la metafora dell’inseguimento della sua utopia, quella di trovare «un amore da lontano», un pensiero che si porta in testa da quando, giocando con l’enciclopedia che le hanno regalato i suoi genitori, pagandola a rate, ha scoperto la storia di Bernart de Ventadorn, trovatore provenzale, colui che l’avvicina alla poesia: «Leggevo sempre poesie. Mi era rimasto quel chiodo pazzesco di riempirmi la testa di parole strane, che poi chissà se lo capivo che cosa volevano dire, ma andava bene lo stesso, mi facevano salire l’anima, mi portavano in alto…».
E si incontrano tante poesie e tanti poeti in questo romanzo, che lo attraversano come nuvole passeggere, Dante e Petrarca, Saba e Prevert, ma anche quelle dei cantautori da Sergio Endrigo a Lucio Dalla. Perché paradossalmente questa ragazza secca e mingherlina decide di salire in groppa al suo cavallo e di partire perché vuole fare il trovatore. Ne esce un viaggio in Italia, inconsueto e agrodolce, che si si interroga sulla natura dell’amore da lontano, un amore fatto di innocenza e di castità, di quelle cose leggere e vaganti che sono proprie della poesie di Saba. C’è però, all’interno di questa stravaganza narrativa che la Mastrocola sa restituire con grande equilibrio, una forma di moralità per il nostro presente, la chiave di volta che regge questa sua nuova variazione sul tema della 'formazione'. Infatti questa volta punta l’attenzione su un concetto vitale, desueto e dimenticato, la necessità di 'innalzare la vita', di non arrendersi alla sua banalità e ai suoi conformismi, di avere il coraggio di essere sempre fedeli alle proprie personali utopie e non alle ragioni del tempo in cui si vive, che non sono 'ragioni', ma solo accomodamenti.
La ragazza di questo romanzo nella poesia provenzale trova una ragione di più che vuole per lei, per la sua vita, per avere uno sguardo in cui sia possibile che il mondo non stia più addosso, ma possa essere guardato in tutta la sua interezza.

Paola Mastrocola, Più lontana della luna, Guanda, pp. 300, € 16
Avvenire del 27 ottobre 2007

25 ottobre 2007

"Guerra e Pace" in tv storia per analfabeti

Così la Rai trasforma in soap-opera il capolavoro epico di Tolstoj
Di Antonio Scurati
L’Italia è un Paese culturalmente arretrato. Qualsiasi valutazione su Guerra e pace, la fiction che prometteva di riportare la grande letteratura in prima serata su Rai Uno, deve partire da questa constatazione.

Nessun giudizio di valore ne può prescindere: si tratta del prodotto culturale di punta di un Paese culturalmente arretrato. L'assunto di partenza, per quanto spiacevole, è purtroppo incontestabile. Tutti i dati statistici e i parametri sociologici lo confermano. Al giro del millennio, in Italia aveva il diploma appena il 42 per cento della popolazione adulta compresa tra i 25 e i 64 anni contro la media europea del 59 per cento; solo il 9 per cento degli italiani adulti possedeva una laurea contro una media europea del 21 per cento. In Italia si producono poco più di 750 brevetti l'anno, mentre la Spagna ne deposita circa 2000 (la Germania 15000). Nel 2002 in Italia si sono vendute 102 copie di quotidiani ogni mille abitanti contro una media europea, comprendente anche l'Italia, di 270. I dati relativi al numero di libri acquistati e letti disegnano, anno dopo anno, uno sconfortante scenario di deserto della lettura pubblica. Ne citerò uno solo: quasi il 70 per cento di commercianti, professionisti e imprenditori dichiara di non leggere nemmeno un libro all'anno. Ma la cosa più grave è che non li leggono perché molti di loro non sanno più leggere: secondo un'indagine condotta dal Cede - come scrive Tullio De Mauro in La cultura degli italiani, un libricino che tutti gli italiani dovrebbero leggere se sapessero ancora farlo - più di 2 milioni di adulti sono analfabeti completi, quasi quindici milioni sono semianalfabeti, altri quindici milioni sono a rischio di ripiombare in tale condizione.
La fiction prodotta dalla Lux Vide assieme alla Rai è stata trasmessa in un Paese nel quale il 66 per cento della popolazione manifesta un'insufficiente competenza alfabetica e aritmetica funzionale. Il che significa, tradotto in soldoni, che buona parte dei milioni di italiani che domenica e lunedì hanno assistito alla prime due puntate di Guerra e pace non sarebbero in grado di leggere il romanzo da cui proviene. Non ne hanno mai avuta la capacità linguistica o non ce l'hanno più. Sembra inverosimile che nell'ottobre del 2007, dopo sessant'anni di pace e crescente benessere, la situazione culturale italiana sia ancora quella di un eterno, interminabile dopoguerra. Ma tant'è. Con questa strisciante selvatichezza dobbiamo fare i conti. E, allora, salutiamo con favore il tentativo di trasmissione dell'eredità culturale via etere, rallegriamoci per i sei milioni e mezzo di telespettatori che lo hanno scelto e poi facciamo questi conti. E i conti si fanno chiedendosi non che cosa la fiction di Guerra e pace restituisca al genio letterario di Tolstoj ma che cosa restituisca a noi del suo capolavoro, non quanti debiti saldi con lo strepitoso romanzo cui s'ispira ma quanto del lascito di quella formidabile eredità culturale giunga fino ai telespettatori odierni e quanto si disperda. Così si fanno i conti con la tradizione: non stabilendo quanto le dobbiamo ma quanto ci prendiamo, o ci perdiamo, della sua forza immane.
Molto, purtroppo, va perduto. Soltanto due esempi. Innanzitutto va perduto il meraviglioso respiro epico del racconto tolstojano, quella qualità che scaturisce dal procedere lento e maestoso del passo narrativo di un romanzo grandioso. Nel libro, al principio di quel cammino, la realtà è soltanto una frantumaglia di allusioni orecchiate in un pettegolezzo da salotto ma alla fine quell'incedere inesorabile e magnanimo consente al lettore di abbracciare con un solo sguardo un intero mondo, un'intera epoca e, attraverso di essa, l'umanità tutta. Nella versione tv, invece, una girandola di situazioni consumate in fretta conduce precocemente all'epifania del divino sul campo di battaglia di Austerlitz e lo svilisce al semplice svenimento di un personaggio (il principe Andrej) che ancora non esiste. Lo s'imputerà alla dittatura del telecomando, ma questo può valere per la mediocrità di una serata qualunque trascorsa a fare zapping non per la straordinaria occasione di televisione festiva offerta da Guerra e Pace. Altrimenti meglio non scomodare Tolstoj.
L'altra cosa che va perduta è una delle più grandi invenzioni dovute al genio narrativo di Tolstoj: la capacità di raccontare le vicende individuali sullo sfondo di quelle collettive, di mettere il mondo umano - la pace - a contrasto con il mondo storico - la guerra. Andrej, Natasa, Pierre, sono - come notava Leone Ginzburg - «personaggi umani che amano, soffrono, sbagliano, si ricredono, cioè, in un parola, vivono»; ma sono simultaneamente personaggi storici condannati a recitare una parte che non è stata scritta né da loro né per loro, anche se loro immaginano d'improvvisarla. La versione tv, invece, elimina quasi completamente la dimensione storica, riducendo le scene di massa a momenti quasi grotteschi, le guerre napoleoniche e l'insurrezione del popolo russo a un rumore di fondo, l'intreccio troppo spesso a un piccolo dramma sentimentale da camera in odore di soap-opera. In questo modo si smarrisce proprio il dono che dall'arte narrativa di Tolstoj giunge fino alle narrazioni televisive seriali dei nostri tempi. Le migliori serie tv hanno, infatti, cominciato fin dagli anni '80 a far uso di strutture narrative complesse grazie alle quali l'evoluzione cronologica delle vicende legate alla vita privata dei personaggi scorre parallelamente a quella di una vicenda collettiva con la quale si incastra ripetutamente. In questo modo, il racconto delle piccole vicende sentimentali di individui simili a noi entra in risonanza con l'eco più vasta della vicenda collettiva, che può essere la cronaca di un reparto ospedaliero di medicina d'urgenza, quella di un distretto di polizia, o la storia d'Europa, come nel caso di Tolstoj. Insomma, da questo punto di vista, c'è più Tolstoj in ER o in NYPD che non nel Guerra e pace visto su Rai Uno.
Ma la strada da percorrere è questa. L'Ottocento di Tolstoj, il secolo in cui fiorì la grande civiltà del romanzo, è nostro contemporaneo più di quanto non si creda. Bisogna solo abbandonare l'idea del divorzio tra la cultura tradizionale di matrice letteraria e la cultura visuale oggi imperante. Dobbiamo propiziare, invece, il matrimonio tra le punte più avanzate della narrazione televisiva e i secoli di grande letteratura che ci siamo lasciati alle spalle. Potrebbe scaturirne uno sposalizio salvifico anche per un Paese culturalmente arretrato. Non siamo noi che dobbiamo salvare il nostro grande passato. E' lui che verrà in nostro soccorso.
«La Stampa» del 24 ottobre 2007

23 ottobre 2007

Per i professori italiani gli esami non cominciano mai

di Attilio Oliva (Presidente Associazione TreeLLLE)
È stato appena siglato il contratto scuola. Per la quarta volta in 15 anni è stata rinviata la possibilità di collegare la progressione della remunerazione alla qualità del lavoro. A perdere sono soprattutto gli insegnanti che costantemente si sentono investiti da nuovi compiti e nuovi problemi da risolvere con un contratto per troppi aspetti assimilabile a quello di un qualsiasi dipendente pubblico di modesta qualifica. Caso unico in Europa, gli insegnanti italiani non subiscono nessun tipo di valutazione (positiva o negativa che sia) né dai «pari», né dalla gerarchia (i presidi), né dall’esterno (gli ispettori ministeriali). Così il lavoro dell’insegnante è diventato invisibile sia all’esterno sia all’interno, agli insegnanti stessi: vale solo la buona reputazione. Tutto deriva da una grave anomalia di sistema: la pretesa insostenibile di gestire centralmente e secondo modelli organizzativi uniformi oltre 800.000 insegnanti. Un sistema simile è in rotta di collisione con le buone regole per la gestione di sistemi complessi che impongono decentramento, flessibilità e responsabilizzazione degli attori sui risultati all’insegna del principio di sussidiarietà. Si continua invece ad affrontare la complessità negandola, cioè considerando tutti eguali. La scelta di trattare tutti gli insegnanti allo stesso modo, a prescindere dai meriti individuali, ha dei costi pesantissimi: mortifica i migliori e scoraggia i più giovani; induce un atteggiamento impiegatizio; impedisce la crescita di una cultura della valutazione; impedisce all’opinione pubblica di formarsi un’idea su come funziona la scuola. Si alimenta così un pericoloso cortocircuito: è difficile che docenti insoddisfatti riescano a trasmettere ai giovani un messaggio positivo. I nodi che contrattualmente non si riescono a risolvere (a prescindere da quello delle risorse finanziarie) sono principalmente due: «che cosa» si deve valutare e «chi» può e deve valutare. Coriacee sono le resistenze sindacali perché in effetti tutti gli insegnanti fanno lo stesso lavoro. Ma non è vero (e neppure onesto fingere che lo sia) che tutti lo facciano allo stesso modo e con gli stessi risultati. Molti fanno bene: ancor più numerosi sono quelli che potrebbero fare meglio in presenza di qualche incentivo in presenza di un sistema pregnante. Che cosa si deve valutare? Saperi e abilità diversificate: sapere la materia, saper insegnare, sapersi rapportare con i colleghi e le famiglie, saper motivare gli studenti, saperli valutare correttamente, etc. Queste qualità sono difficilmente misurabili con indicatori oggettivi. L’apprezzamento sintetico della professionalità di un insegnante è costoso e problematico se realizzato da parte di soggetti lontani ed esterni rispetto al contesto della singola scuola mentre sarebbe più semplice ed efficace se esercitato all’interno delle singole scuole. Chi può e deve valutare? Certamente il dirigente della scuola, ma anche una selezione dei «pari» (i colleghi) e soprattutto l’utenza, cioè gli studenti maggiorenni usciti dalla scuola. Anche i test nazionali sugli apprendimenti degli studenti (e in particolare sui loro progressi) sarebbero una base utile per una valutazione integrata. Un riconoscimento professionale ottenuto attraverso il concorso di competenze e punti di vista così diversi consentirebbe un bilanciamento dei pareri e una valutazione difficilmente discutibile. L’obiettivo allora è individuare procedure trasparenti per far emergere quello che già esiste ed è ben noto a tutti in ogni ambiente scolastico. È quello che ha proposto l’Associazione TreeLLLe denominandolo metodo della «reputazione documentata». Solo la rottura del sistema centralistico e il dispiegarsi pieno dell’autonomia scolastica possono consentire le condizioni essenziali per attivare compiute metodologie valutative sul personale. Va anche rimarcato che, in prospettiva, è alle singole scuole che dovrebbe essere affidato il potere di scegliere e valorizzare il personale, come già da anni fanno Regno Unito, Irlanda, Danimarca, Paesi Bassi, Svezia, Norvegia, e altri.
«Corriere della sera» del 22 ottobre 2007

«La storia? Maestra di carriera»

Il numero uno di Alleanza: è fondamentale per entrare nel mondo del lavoro
Di Umberto Torelli
I Manager Italiani spiegano Vantaggi e Rischi della propria Laurea
Nell’accezione comune, una laurea in Lettere viene recepita come sinonimo di insegnamento. Di professore in cattedra. Oppure, nei casi più negativi, di chi si accontenta di lavori di serie B. Di fatto dei sotto-occupati. Ma non è detto. «Anche una facoltà umanistica può diventare il passe-partout per entrare in azienda. Con mansioni manageriali. E poi i ricorsi storici, studiati sui banchi universitari, aiutano a comprendere e superare le crisi che investono periodicamente ogni impresa». A parlare è Ugo Ruffolo, 58 anni, amministratore delegato di Alleanza Assicurazioni. Prima, due brillanti carriere in Imi e Fideuram. Quando fece parte del ristretto gruppo di manager che lanciarono a metà anni ‘80 la figura professionale del promotore finanziario. Dottore in Lettere con 110 e lode. Un piano di studi di venti esami, diciotto dei quali superati con valutazione 30/30. Allora lo studente Ugo Ruffolo era uno sgobbone? «Si e no. Perché all’inizio della carriera universitaria sono rimasto fermo per un anno. Ero indeciso sulla via da seguire, poi ho costruito un piano di studi incentrato in maggioranza su esami di storia. A questo punto sono andato spedito per gli altri quattro anni, con una tesi sulla "Politica economica anti inflazionistica del secondo dopoguerra" di Luigi Einaudi». Con una laurea umanistica, un giovane ha le carte in regola per guidare aziende nel settore bancario e assicurativo? «Certo. Anche se bisogna fare un distinguo. Nel mio caso, e lo consiglio a un giovane neolaureato che voglia intraprendere questa carriera, non si è trattato di lettere classiche o antiche, bensì un indirizzo con una solida base di storia economica. Per guidare compagnie di assicurazioni e banche serve un percorso di studi capace di fornire criteri di valutazione. Il background storico è risultato fondamentale per l’ingresso nel mondo del lavoro. Così sui banchi dell’università ho portato avanti due linee guida, utili poi per operare in azienda». Possiamo indicarle ai futuri laureati? «Primo. Affrontare le situazioni aziendali con consapevolezza storica. Si trovano profonde similitudini sui meccanismi di crisi e crescita, secondo i corsi e ricorsi dettati da Giambattista Vico. Ad esempio nei momenti in cui inizia un fenomeno di boom o crisi economica di un’impresa, lo spirito convenzionale del gruppo reagisce in tempi lunghi. E’qui che un manager con curriculum umanistico deve confrontare quanto sta accadendo con situazioni precedenti. E trarne una lezione per ragionare con la propria testa». Il secondo punto riguarda i rapporti interpersonali. Che cosa ha imparato in università, utile poi in azienda? «È l’elemento che fa naufragare o meno chi ha poteri decisionali. Anche in questo caso la storia mi è venuta in aiuto. Ritenere che un’azienda sia una macchina da guidare seguendo solo regole e procedure predefinite, induce in errore. Le persone con cui ci relazioniamo, vanno messe al centro. Chi è al comando deve esercitare l’autorità tenendo in considerazione la variabile "uomo". Da Cesare a Napoleone, casualità e fattore umano sono stati la chiave di successi e insuccessi». Quale può essere un punto a sfavore per chi prende una laurea in Lettere e vuole diventare manager? «Il principale "contro" di questi studi è la diffidenza quando il candidato si presenta ai primi colloqui di lavoro. Il responsabile delle risorse umane lo vede con sospetto. Un Dottore in Lettere viene recepito come soggetto poco concreto, portatore di una laurea poco spendibile. Ma devo smentire, per esperienza, questo luogo comune. Un letterato e uno storico riescono a inquadrare in modo sistematico i fenomeni economici e sociali. Misurando quello che accade ora, con quanto avvenuto in precedenza. Quindi un approccio umanistico diventa sinonimo di concretezza». Un ultimo consiglio per chi sceglie Lettere? «Il segreto per riuscire è la passione per lo studio. La fatica deve essere equilibrata da interesse e curiosità. E poi consiglio sempre il confronto critico, con professori e studenti. In università devono emergere le nostre contraddizioni, paure e debolezze. È la palestra dove si può cadere, ma bisogna imparare a rialzarsi. Presto e senza timori. Nel mondo del lavoro questo capiterà spesso. Guai a non esercitarsi prima».
Identikit
Ugo Ruffolo, classe 1949, si è laureato in Lettere all’università di Roma nel 1974. Inizia la carriera alla segreteria Studi dell’Imi, per poi passare al Servizio Finanza. Nel 1988 entra in Fideuram, in qualità di vice direttore generale area marketing, dove lancia la figura del promotore finanziario. Dall’ottobre del 2004 è amministratore delegato del gruppo Alleanza Assicurazioni. Ha fatto parte dei consigli di amministrazione delle principali società del gruppo Imi e Fideuram.
«Corriere della sera» del 19 ottobre 2007

Lessing, quando l’impegno non spegne l’ispirazione

Gli scrittori divisi fra ideologia, politica e riconoscimento letterario
di Christopher Hitchens
Da comunista a mistica, una parabola che non intacca il valore del Nobel
È emozionante constatare che, una volta tanto, il Comitato del Nobel ha raggiunto una decisione encomiabile e onorevole, come se il lungo e uggioso regno di tutto ciò che è trascurabile, mediocre e sinistro fosse stato all’improvviso spazzato via dal lampo di un talento luminoso. E per di più il lampo di un talento ottuagenario, quasi che gli scandinavi si siano ricordati, con un certo senso di colpa, di aver lasciato scomparire scrittori del calibro di Nabokov e Borges mentre distribuivano tanti riconoscimenti letterari a personalità sbiadite o di secondo rango. Se avessero fatto questo scherzo anche a Doris Lessing, insignita del Nobel l’11 ottobre, i membri della giuria si sarebbero meritati eterna infamia. Harold Bloom, professore della Yale University e critico letterario, potrebbe aver ragione (anzi, a parer mio ha pienamente ragione) nell’affermare che la Lessing non ha scritto nulla di grande pregio negli ultimi quindici anni, ma questo non equivale a dire che non meritava gli allori del Nobel vent’anni fa, se non ancor prima. Fu Hemingway il primo a commentare acidamente che gli scrittori finiscono col ricevere il massimo riconoscimento troppo presto o troppo tardi. Nel suo caso, si paragonava a un nuotatore che raggiunge la riva con le sue forze e proprio allora viene tramortito dal lancio di un salvagente. Esaminare portata e profondità dell’opera della Lessing ci fa capire che esistono scrittori capaci di vivere veramente per amore della loro lingua e di essere pronti ad affrontare qualunque rischio. Ci fa inoltre capire che esiste un rapporto tra sete di verità e ricerca della parola giusta. Questa lotta potrebbe alla fin fine assumere contorni indefinibili e incerti, ma il lettore sa riconoscerla quando vi si imbatte. Ricordo con precisione cristallina il mio primo incontro con gli esordi narrativi della Lessing. Erano ambientati in Rhodesia (oggi Zimbabwe), sotto il regime coloniale dei bianchi, oltre trent’anni fa. Due suoi racconti - L’erba canta e Questa era la terra del vecchio capo - abbinano la tristezza sfocata di un ricordo malinconico alla consapevolezza che un’immensa ingiustizia era stata perpetrata nei confronti degli abitanti autoctoni del Paese nel quale la scrittrice si era trapiantata. Per gran parte della sua esistenza, Doris Lessing si è battuta contro l’apartheid e il colonialismo. Entrò nel partito comunista e sposò un esule comunista tedesco (fu assassinato mentre era inviato dalla Germania dell’Est presso l’odioso regime di Idi Amin in Uganda), e se volete sapere che cosa si provava a credere in un futuro comunista con tutto il cuore, i suoi romanzi di quel periodo ve lo descriveranno con toccante realismo. Successivamente, seguendo un percorso tanto comune che ormai lo diamo per scontato, la Lessing ripudiò la fede ideologica che l’aveva ispirata. Ma non senza parlarne nei suoi libri con maestria da mozzare il fiato. C’è un breve racconto, Il giorno della morte di Stalin, che merita d’essere riprodotto in tutte le antologie di prosa del XX secolo. Solo due volte nella vita ho provato che cosa significa leggere una storia talmente bella, e che sembrava anticipare con tale precisione tutti i miei pensieri, che avevo quasi paura di proseguire la lettura. La prima volta mi era capitato con Katherine Mansfield, e la seconda volta davanti al racconto della Lessing La tentazione di Jack Orkney, che tratta tra l’altro anche di una crisi religiosa. Vi esorto ad acquistare le raccolte che contengono queste storie: vi aiuteranno a capire in che cosa consiste l’eccellenza della narrativa moderna. Direi che nel caso della Lessing fu il rispetto per la lingua, più che un trauma politico, a spingerla ad abbandonare il partito comunista. Una volta mi confessò di aver fatto parte del cosiddetto «gruppo degli scrittori» del partito, che si riuniva per discutere i «problemi» degli scrittori «impegnati», prima di rendersi conto che il principale problema della scrittura stava innanzitutto nel partecipare a quel gruppo, per non parlare del partito. Il Comitato del Nobel, ligio come sempre all’obbligo di giustificare il riconoscimento, cita doverosamente l’elemento epico presente nel femminismo di frontiera della Lessing. Non c’è motivo di dissentire. Tuttavia, nel sottolineare i desideri e le ambizioni sepolte della donna, e nel costringere i lettori ad affrontare quello che in un certo senso già «sanno», Doris Lessing ribadisce che una donna vera vuole accanto a sé un vero uomo. L’aver insistito su questo punto tanto elementare le ha alienato le simpatie di molti ammiratori - ma gliene ha acquisiti altrettanti. Eppure, la scrittrice non poteva asservire le sue capacità letterarie ed emotive ai vili scopi della propaganda. Non voglio trasformarla in un vecchio saggio, né in una grande dame. Il suo libro più anticomunista, Il vento disperde le nostre parole, è il resoconto quasi troppo romantico della lotta dei ribelli contro l’Armata Rossa in Afghanistan. Non trovo la sua fantascienza particolarmente avvincente e sono rimasto piuttosto freddo quando ha cercato di stuzzicare il mio interesse per un ciarlatano mistico del Sufismo, tale Idries Shah. Quello che trovo ammirevole è la volontà della Lessing di sperimentare tante forme diverse di scrittura e persino accettare il rischio di sembrare fatua, piuttosto che lasciarsi imprigionare in uno stereotipo. Sono rimasto incuriosito e commosso nel vederla fotografata davanti alla casetta a schiera nel quartiere di Londra, piuttosto plebeo e caotico, dove abita da tanti anni. Avendo incarnato l’angelo vendicatore della sessualità in gioventù, la Lessing non si preoccupa affatto, sulla soglia dei novant’anni, di assomigliare un po’a una barbona o una gattara. (A dire il vero, ha scritto anche un gran bel libro sui gatti). La scena era permeata di serenità: il ritratto di una scrittrice insignita del Nobel, ma che non aveva bisogno di questo tipo di conferma.
Il Nobel vinto da Doris Lessing ha offerto l’occasione per aprire un dibattito su letteratura e politica Sono intervenuti sul «Corriere»: il 16 ottobre Orhan Pamuk, mercoledì 17 la stessa Lessing, il 19 ottobre Pierluigi Battista e ieri Claudio Magris Nei giorni 18 e 20 si sono espressi sul tema alcuni autori italiani interpellati da Ranieri Polese
«Corriere della sera» del 22 ottobre 2007

Italia senz’anima, smarrita negli outlet

Un reportage di Aldo Cazzullo racconta i paradossi e le volgarità di una mercificazione senza limiti
Di Gian Antonio Stella
Tra animali esotici e riti esoterici, le nuove piazze sono i «non luoghi» del consumo
Avete mai fatto un regalo di Natale al cane? Se la domanda vi appare insensata e forse un po’idiota, non conoscete l’Italia di oggi. C’è un sacco di gente, infatti, che fa regali di Natale al cane. Per l’esattezza, il 57 per cento. Per non dire di quanti, aboliti i vecchi nomi come Bobi o Fido e scartati via via quelli suggeriti dai siti Internet specializzati (ce n’è uno che si vanta di poterne suggerire oltre 10 mila, da Aaron a Zoemi), hanno chiamato la loro amatissima bestiola Mario, Roberta, Giovanni o Emma. Sono o non sono come figli? «Gigliola: a cuccia!». Intendiamoci, questo rapporto con gli animali non è una assoluta novità. Resta indimenticabile, anni fa, una lettera alla Stampa di un certo Cesare Pierbattisti che, a prezioso cesello di una progressiva deriva che vedeva i connazionali acquistare creature sempre più esotiche, dall’anaconda alla tarantola, lanciava un appello alle anime buone: «Chi vuole il mio caimano?» Il suo Ippolito, diceva, aveva un carattere che lo amareggiava: «Fra l’altro non è neanche di compagnia». «E perché mai un coccodrillo dovrebbe essere di compagnia?», gli chiesero. E lui: «Tutti gli animali possono diventarlo. Tutti si affezionano al padrone o a chi dà loro da mangiare. Ippolito no. Lui è una specie di macchina primitiva. Concepita esclusivamente per divorare. Mi viene incontro soltanto quando capisce che è ora di pranzo». Non è il solo, a badare soprattutto alla pancia. Anzi, a leggere il nuovo libro di Aldo Cazzullo, Outlet Italia. Viaggio nel paese in svendita, da domani nelle librerie per Mondadori, viene in mente un aneddoto che racconta Giancarlo Ligabue, grande imprenditore del catering, insaziabile divoratore di cultura e protagonista di decine e decine di spedizioni in giro per il mondo, per conto di varie università del pianeta e del National Geographic. Un giorno, mentre si inoltrava nella jungla amazzonica coi suoi collaboratori e un gruppo di portatori indios, questi ultimi si fermarono di colpo. «Cosa c’è?», chiese al capo, «Qualcuno si è fatto male? Siete stanchi? Volete più soldi?». «No, señor», gli rispose l’indio, «ma camminavamo troppo veloci e le nostre anime non riuscivano a starci dietro». Ecco, l’Italia che descrive Cazzullo è questa. Un Paese che, arricchito troppo in fretta dopo secoli di povertà, pare avere perso per strada l’anima. «Compratevene una nuova», risponderebbero certi protagonisti del reportage dell’inviato del Corriere. E declamerebbero le meraviglie dello scaffale traboccante di nuove religioni, nuovi profeti, nuove sette: «L’Enciclopedia delle religioni in Italia, pubblicata nel 2001 da Elledici, ha tentato un catalogo dei culti e delle sette, ed è arrivata alla considerevole cifra di tredicimila». Roba buona e a buon mercato, direbbe la pubblicità. Così che ognuno possa scegliersi un dio, un messia, una regola su misura. Non gli piacciono più? Butta via tutto e ne prova altri. L’immagine che esce dal libro è quella di un Paese sempre più incapace di riconoscere se stesso e sempre più ruotante intorno alle nuove, impersonali ed enormi agorà: gli outlet. Vale a dire i centri commerciali riverniciati da un nuovo nome, che «suona straniero, quindi accattivante». «L’outlet rappresenta la forma perfetta del "non luogo" teorizzato da Marc Augé: uno spazio né identitario né sociale né storico, perché non vi si costituiscono identità, non si stringono relazioni, non si sedimenta storia; l’uomo si ritrova solo ed è spinto al passaggio veloce, al provvisorio, all’effimero». Un luogo «di consumo del presente» dove passare le giornate e dove trovare tutto, dal braccio meccanico al grasso di foca, meno gli orologi. Meglio: quelli in vendita ci sono, ma non quelli alle pareti ad uso dei clienti: all’outlet «il tempo è sospeso». «La svendita di beni immateriali», dalla cultura alle tradizioni, dal pudore al rispetto di se stessi, scrive l’autore, «rende l’intera Italia un immenso outlet, dove di tutto si fa commercio e nulla conserva il valore che aveva». «Non luoghi» sterminati di decine di ettari e centinaia di negozi e finte piazze di paese e finte fontane e finte case antiche. Dove abbandonare i bambini che una volta si abbandonavano alle porte dei conventi. Dove lasciarsi abbindolare dalla necessità assoluta di bere beveroni propagandati da slogan demenziali: «Sorge l’energia, tramonta lo stress». Dove rubare: spariscono ogni anno merci per due miliardi e 618 milioni di euro e vengono beccati centomila ladri, dal magazziniere napoletano, che metodicamente sottraeva una bottiglia al giorno di Dom Perignon millesimato, alle suorine che cercavano di andarsene con decine di lamette da barba: «Ma che ve ne fate?», «Sono per i carcerati». Outlet della danza, come la più grande discoteca del pianeta, alle porte di Roma, che sventola un nome cacofonico («Palacavicchi»), ma offre nei suoi sette hangar musica per tutti i gusti. Outlet della salute, dove resistono le «vecchie terme, pensione completa e anziani in fila con il bicchiere in mano alla fonte dell’acqua curativa», ma per adeguarsi al mercato «anche i centri termali più antichi hanno dovuto intercettare la moda new age e riconvertirsi in centri benessere» e cioè in Spa: non Società per azioni ma «Salus per aquam». Posti dove forse il vero obiettivo «non è godere ma leopardianamente smettere di soffrire. Sottoporre il proprio corpo a ogni sorta di pressione, frizione, trattamento, unzione fino a non sentirlo più, a sospendere ogni tensione vitale, e precipitare in uno stato di atarassia, di vuoto, di torpore, di penombra. Quasi una condizione prenatale». Il tutto grazie a «Shiatsu Stretching. Thai. Reiky. Dipu. Tokui-do. E ancora: Netra, antica tecnica indiana per eliminare il grigiore del viso. Shintai, trattamento cinese per sciogliere la tensione muscolare. Riflessologia plantare nelle due varianti Pada e Zu». E poi outlet della politica, della fede popolare dove si svende tutto, delle metropoli alla deriva, delle piccole patrie smarrite, della televisione demente, dei treni dove capita di essere morsi da una zecca e perfino da uno scorpione. E outlet del rogo estivo e della resa all’illegalità di massa dimostrata dal fatto che a proposito della patente a punti «su 8.157 comuni ben 4.340 non hanno mai comunicato al ministero una sola sanzione». La mancanza di gusto in quello che racconta a se stesso di essere il Paese del buon gusto: ecco la sintesi del reportage. Che diverte, con le sue carrellate di assurdità e di contraddizioni, almeno quanto spaventa.
S’intitola «Outlet Italia. Viaggio nel paese in svendita» (pagine 289, 16) il nuovo libro di Aldo Cazzullo, edito da Mondadori, in uscita domani L’autore, nato ad Alba nel 1966, è inviato del «Corriere della Sera» e ha scritto diversi volumi Tra le opere precedenti di Cazzullo: «I ragazzi di via Po» (Mondadori), «I ragazzi che volevano fare la rivoluzione» (Sperling & Kupfer), «I torinesi» (Laterza), «Italia-Germania 2 a 0» (Fazi).
«Corriere della sera» del 22 ottobre 2007

Il romanzo è questione di stile, non di impegno

Autori e critici intervengono sul tema letteratura e ideologia sollevato da Pamuk e dalla Lessing
Di Ranieri Polese
Asor Rosa: «I narratori sono indifferenti. E i politici scrivono di evasione»
Due scrittori premi Nobel, Orhan Pamuk e Doris Lessing, con un significativo ma non concordato tempismo, mettono in guardia contro lo stesso pericolo: quello, per la letteratura, di mettersi al servizio della politica, di ideologie, di farsi insomma portatrice di messaggi. «Non ho mai pensato che un romanzo dovesse essere un manifesto politico» dice la Lessing. E Pamuk incalza: l’impegno «distrugge il bello della letteratura». Insomma, il connubio assai stretto che nei due secoli passati legò scrittori e politica, oggi viene additato come un errore, qualcosa che fa male alla letteratura. Basta, insomma, e per sempre, con la figura dello scrittore impegnato, quello che usa la sua arte per il trionfo di un’idea, che si sente investito di un compito etico, civile ma soprattutto politico. Di educatore delle masse, di portabandiera di eventuali rivoluzioni, di testimone di un ideale. Missione che, in fondo, accomunava gli opposti estremi (il Novecento è stato generoso in materia: D’Annunzio, Pound, Juenger per la destra, Sartre, Aragon, Pratolini e tanti altri ancora per la sinistra) e li legava a giuramenti e fedeltà che stavano prima del loro lavoro di costruttori di romanzi. Insomma, impegno addio. «Espresso da due autori che hanno anche scritto romanzi politici - per Pamuk, Neve, per la Lessing c’è Il taccuino d’oro, bibbia del femminismo, e ci sono i libri contro il colonialismo - è un giudizio che mi sembra inutilmente autolimitativo» commenta il romanziere e critico Franco Cordelli. «Forse mentono sapendo di mentire. Certo assumono una posizione estrema. Così come estrema, nell’altro senso, è la posizione un po’ricattatoria del giovane Roberto Saviano, bestseller internazionale con il suo Gomorra: Saviano dice, in sintesi, che o si occupa di camorra, o la letteratura non è niente. Il punto, in realtà, è un altro. È lo stile. È quello che mostra quali sono i rapporti umani vigenti in un dato momento storico. Uno scrittore è politico non solo e non tanto perché fa dichiarazioni a favore di un’ideologia. Ma per come racconta il mondo. Un esempio? Harold Pinter per come scrive, senza bisogno di indicazioni segnaletiche, di messaggi: la durezza della sua scrittura rivela la durezza dei rapporti umani». «Ovvio che la letteratura non è propaganda, manifesto eccetera» dice lo storico Alberto Asor Rosa. «È vero che in nome dell’ideologia si sono prodotte tante immondizie. Ma io non vorrei che l’idea che l’impegno fa male alla letteratura porti alla conseguenza che la letteratura non può parlare di politica. Prova ne sia il fatto che Pamuk e Lessing hanno scritto anche libri fortemente politici. Se le idee politiche diventano personaggi, storie, invenzioni, ben vengano. Forse, in Europa, oggi c’è poca politica in letteratura. Pamuk e Lessing, non a caso, attingono in gran parte a esperienze non europee». Anche lo scrittore Eraldo Affinati (Compagni segreti, Campo del sangue, Bandiera bianca) pone l’accento sullo stile. «Io credo che la responsabilità di uno scrittore sia innanzitutto stilistica. Ma lo stile non è carta. È carattere, quindi valori spirituali, morali e civili trasmessi con intensità unica ed irripetibile. In questo senso possiamo dire che tutti i grandi romanzi sono anche politici. I capolavori italiani, dalla Divina Commedia ai Promessi Sposi, lo confermano. Se, ad esempio, vuoi comprendere cos’è stato il Risorgimento, devi leggere anche la novella Libertà di Giovanni Verga. La guerra civile spagnola sta tutta dentro Omaggio alla Catalogna di George Orwell. Se vuoi capire la nostra Resistenza, non puoi fare a meno del Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio». Già, ma nell’Italia di oggi? In un mondo dove sono ormai caduti i muri e le ideologie, che senso ha ancora parlare d’impegno? «Scrittori impegnati, fedeli al giuramento come nell’Italia del dopoguerra fino agli anni ‘70, non ci saranno più» dice Cordelli. «L’universo della comunicazione è troppo espanso, non permette il crearsi di gruppi in contrasto. Tutti possono parlare, ed è un bene. Del resto, la lotta di classe non c’è più. La logica degli schieramenti è superata». Ha un po’di nostalgia per la Guerra fredda Aldo Nove, classe 1967. «La Guerra fredda è stato un periodo molto stimolante. La situazione dei due mondi contrapposti, entrambi in qualche modo legittimati (uno, quello sovietico, sempre meno, fino a scomparire), dava materia alla letteratura. Anche alla fantascienza. L’Altro, il nemico, era un’immagine definita. Oggi l’Altro ha assunto la forma imprendibile, astratta del terrorismo. Finita la contrapposizione fra i due blocchi, è stata pure cancellata l’utopia. Oggi non vedo impegno nei romanzi italiani. C’è un’attenzione sociologica nell’ultimo Ammaniti, Come Dio comanda, per la vita delle periferie. Ma non è politica. L’ecologia? Ma ai fini della rappresentazione è molto più forte l’immagine della guerra fra uomini. Oggi c’è la letteratura del precariato giovanile, ma si esprime soprattutto a livello di disagio individuale». Ad Asor Rosa, da molti anni studioso dei rapporti fra politica e letteratura (Scrittori e popolo è del 1965) la conclusione. «Credo che una tematica politica, non dico impegno, sia pressoché assente in Italia. I romanzi hanno per oggetto la vita nella sua dimensione di cronaca, lo scorrere silente delle occasioni più ovvie. E tutto questo ha preso il sopravvento sul filone che assorbe i succhi dei conflitti politici. Del resto oggi i politici se li scrivono da soli i romanzi. Oggi la situazione è questa: gli scrittori non scrivono più romanzi politici; e i politici scrivono romanzi di evasione. Ecco, allora la vera domanda da farsi: perché i politici scrivono romanzi d’evasione? Forse per far vedere che non sono politici?».
Due Nobel contro i «manifesti». Qualcosa deve essersi spezzato nel legame tra politica e letteratura, se a ripudiarlo sono proprio autori discussi per le loro prese di posizione. In un’intervista uscita sul «Corriere» martedì scorso, il Premio Nobel turco Orhan Pamuk, coinvolto in una vicenda giudiziaria (poi finita nel nulla) per aver ricordato il genocidio degli armeni, ha criticato con toni forti i romanzi impegnati: a suo avviso «mettersi al servizio di una causa distrugge la bellezza della letteratura». E Doris Lessing, appena insignita del Nobel e a lungo considerata una scrittrice femminista, ha espresso un’opinione analoga in un’intervista apparsa sul «Corriere» di ieri: «Non ho mai pensato che un romanzo dovesse essere un manifesto politico».
«Corriere della sera» del 18 ottobre 2007

Pamuk l’antipolitico

Il Premio Nobel racconta il suo rapporto con la scrittura, il potere e l’Europa
di Paul Holdengraber
«Non ho voluto io la polemica sugli armeni L’impegno distrugge il bello della letteratura»
Può apparire singolare l’interpretazione di Memorie dal sottosuolo di Fëdor Dostoevskij proposta da Orhan Pamuk nella sua introduzione a un’edizione turca di quest’opera, prendendo di mira non l’alienazione dell’individuo, bensì il rapporto tra il centro e il margine. Il Premio Nobel scrive che «il vero soggetto di quel libro è la gelosia, la rabbia e l’orgoglio di un uomo che non riesce a trasformarsi in un europeo». Questo, ovviamente, ha una certa risonanza oggi nella situazione turca nei confronti dell’Europa. «Sì - conferma Pamuk - Dostoevskij è un autore con cui mi identifico spesso. Ho imparato molto da lui. Nelle sue Memorie dal sottosuolo, Dostoevskij dichiarava guerra agli occidentalisti superficiali, quegli scrittori didattici che esaltavano incessantemente le meraviglie dell’Occidente. Dostoevskij stesso, è ovvio, si era formato all’occidentale. Aveva frequentato un’accademia militare, ma aveva studiato l’ingegneria così com’era insegnata in Occidente. In gioventù, era stato un sostenitore acceso dell’Occidente anche se, verso la cinquantina, si convertì a un panslavismo di stampo conservatore. Ma proprio in quel periodo, quando stava sviluppando le idee per la sua opera, essere a favore dell’Occidente, adottare la prospettiva positivista della scienza occidentale era un atteggiamento molto ammirato dai giovani russi. E Dostoevskij detestava tutto ciò. Non solo detestava questa ammirazione per l’Occidente, ma si sforzava di contraddire le idee fondamentali della civiltà occidentale del tempo, come quella che tutti gli esseri umani sono razionali e che le loro azioni egocentriche e razionali sarebbero vantaggiose per loro stessi e per la società. Dostoevskij scriveva, molto prima di Freud, che gli esseri umani non sono creature razionali, ma seguono istinti a loro stessi incomprensibili. Si sforzava di penetrare questo lato oscuro dell’animo umano. Chiaramente, si avverte anche una certa gelosia. In quanto russo, era consapevole che la cultura del suo Paese era considerata in Occidente come barbara e sottosviluppata. E questo lo turbava. E reagiva con rabbia contro l’Occidente e gli occidentali per il disprezzo che manifestavano verso il suo popolo». Qui emerge l’analogia con Pamuk: «Per venire al mio caso, io sono turco. Vengo da Istanbul. Sono pienamente calato nella mia cultura. Ma la cultura e la lingua turche non sono mai state al centro del mondo. Così, come Dostoevskij, anch’io nutro una certa qual rabbia e risentimento verso il centro». Naipaul è un altro premio Nobel che scrive sempre su questo tema del centro e del margine. Si identifica in qualche modo con lui? «Le racconterò un aneddoto su Naipaul che non ho mai raccontato a nessuno. A maggio, eravamo tutti e due nello stesso albergo in Italia. Ci siamo incrociati nel salone brevemente e mi ha detto: "Piacere di conoscerla", e se n’è andato. Mentre stavo lasciando l’albergo, il concierge mi si è avvicinato e mi ha detto: "Lo sa, il signor Naipaul l’ammira tantissimo, ha detto tante belle cose su di lei!" Naipaul queste cose non le ha dette a me personalmente, bensì al concierge. Che ironia! Due scrittori non occidentali che comunicano tramite un portiere d’albergo europeo!» Al di là dell’aneddoto, la stima è reciproca: «Oggi - dice Pamuk - quando si fa il nome di Naipaul, tutti si affrettano immediatamente a condannare i suoi commenti politicamente scorretti. Ma questo non è il punto essenziale. Il punto essenziale degli scrittori non sta nei loro fallimenti, ma in quello che riescono a realizzare. Pochi autori sono sempre geniali. Talvolta scrivono qualcosa di straordinario, ed è questo che dovrebbe contare. È a questo che dovremmo fare attenzione. I loro insuccessi, le loro osservazioni insulse in qualche intervista non interessano a nessuno. Resta il fatto che Naipaul è stato il primo scrittore a prestare attenzione a quelle che oggi definiamo le "società postcoloniali" non occidentali, dove, quando i cattivi imperialisti se ne sono andati - ed erano davvero cattivi - una nuova generazione di leader nazionali è salita al potere. A causa dei sensi di colpa, in Occidente vi è stata la tendenza a elogiare queste società postcoloniali senza capire che cosa stava avvenendo al loro interno. Per la prima volta, Naipaul ha saputo osservare con attenzione gli orrori che si andavano perpetrando nel Paese a cui apparteneva, da cui proveniva». Nel frontespizio del romanzo Neve, lei cita Stendhal: «La politica in un’opera letteraria è un colpo di pistola nel bel mezzo di un concerto, un gesto rozzo ma che è impossibile ignorare. Come a dire, stiamo per affrontare un soggetto molto sgradevole». Albert Camus ha detto qualcosa di simile, che la storia politica perfetta ritrae la politica non come qualcosa che abbiamo volutamente ricercato, bensì come «un incidente spiacevole che siamo costretti ad accettare.» Queste idee trovano riscontro nella sua concezione del romanzo e della politica? «Se mette insieme le due cose, trova il mio punto di vista: un incidente spiacevole può capitare a tutti noi, e ci ritroveremo a guardare in faccia cose assai sgradevoli. È certamente quello che mi è capitato in Turchia». Infatti nel 2005 lo scrittore è stato messo sotto accusa per aver parlato apertamente del genocidio degli armeni compiuto dai suoi compatrioti durante la prima guerra mondiale: «Io non mi sono messo a fare politica, non ho mai avuto finalità di questo genere, ma mi sono ritrovato in una situazione politica. Nella mia esperienza, se ripenso ai miei vent’anni, quando tutti erano politicizzati in Turchia, posso dire che mettersi al servizio di una causa distrugge la bellezza della letteratura. Ho visto spesso ottimi autori sperperare il loro talento a causa della politica. Se si considera il romanzo nel suo complesso, la politica non costituisce il soggetto più avvincente. I soggetti affascinanti sono l’amore, la felicità, la vita borghese, il senso della vita, sogni e desideri che sfociano nella delusione». Insomma, Pamuk non ama l’engagement: «La letteratura che tratta di politica è imbevuta di moralismo dozzinale. Anch’io ho scritto un romanzo politico, Neve, ma mi sono sforzato di non emettere giudizi morali su nessuno dei miei personaggi. Il problema del romanzo politico è che il lettore si aspetta il giudizio dell’autore sui personaggi. La vera forza del romanzo sta nell’identificazione dell’autore con il personaggio da lui creato, un’identificazione talmente intensa che gli impedisce di pronunciare giudizi morali. L’arte del romanzo si fonda sulla capacità unica degli esseri umani di identificarsi con l’Altro, con il quale non abbiamo alcun interesse in comune. Mentalmente, mi sforzo di capire quello che questo individuo pensa e prova dentro di sé - un individuo che non è come me, ma appartiene a razza, genere, cultura e classe diverse, che possono anche essere strane o perverse. Si chiama empatia. Certo, non intendo dire che gli esseri umani sono sempre così. Siamo capaci di ammazzare 200 mila iracheni e non ce ne importa più niente, continuiamo ad ascoltare quello che dice George Bush. Siamo capaci di questo, ma anche di pensare e sentire quello che pensano e sentono gli altri. L’arte del romanzo è fondata sulla capacità umana di immedesimazione. Il romanzo funziona se l’autore riesce a identificarsi con i suoi personaggi. Questo significa mettersi nei panni degli altri, non giudicarli».
© Global Viewpoint distribuito da Tribune Media Services (traduzione di Rita Baldassarre)

Su quel genocidio negato ha sfidato la verità ufficiale Il genocidio degli armeni avvenuto sotto l’impero ottomano durante il primo conflitto mondiale (nella foto Ap armeni massacrati dall’esercito turco ad Aleppo) rimane un peso sulla coscienza della Turchia: le vittime furono oltre un milione, ma le autorità di Ankara continuano a sminuire la gravità dell’accaduto Nel 1915, di fronte all’avanzata dell’esercito russo, il governo turco decise di deportare in massa gli armeni, considerati una nazionalità poco affidabile, verso zone desertiche: il risultato fu una strage di enormi proporzioni Per aver parlato della vicenda su una rivista svizzera, Pamuk è stato accusato nel 2005 di atteggiamento «ostile alla Turchia», anche se poi il procedimento contro di lui si è concluso con un nulla di fatto nel gennaio del 2006
«Corriere della sera» del 19 ottobre 2007

Pamuk e Lessing: una lezione

Gli intellettuali alla corte dei politici
di Pierluigi Battista
Da una parte due premi Nobel, Orhan Pamuk e Doris Lessing, che auspicano la liberazione della letteratura dalle pretese asfissianti della politica e dell’ideologia. Dall’altra, in Italia, la folla debordante di scrittori, attori, artisti della penna e del pennello che nel nome di una effimera rivendicazione alla visibilità si accalcano alle porte dei partiti vecchi e nuovi: senza risparmio di imbarazzanti encomi al Capo, peraltro. Pamuk afferma che «mettersi al servizio di una causa distrugge la bellezza della letteratura», e Doris Lessing che «i manifesti uccidono gli scrittori». Ma c’è da scommettere che, tranne lodevoli eccezioni, l’esortazione di Pamuk e Lessing non riscuoterà molti consensi. Qui i «manifesti» proliferano, ultimo quello dei registi che si mettono in fila alla Festa romana del cinema per incrementare le già cospicue erogazioni statali per i loro film. E c’è sempre una buona Causa cui consacrare impegno e pubbliche relazioni. E’tramontato già da tempo il sole dell’«intellettuale organico», ma è come se per scrittori e artisti la solitudine, l’irregolarità, la non appartenenza frutto di una condizione eccentrica e «disorganica» fossero un prezzo troppo salato, una condizione esistenzialmente troppo onerosa e inappagante. Pamuk e Doris Lessing forse avvertono quanto appaia artificiosa e inautentica la mimesi parodistica dell’engagement inscenata da alcuni loro predecessori al Nobel, in primis José Saramago ed Harold Pinter. E le loro parole sembrano indicare simultaneamente il bisogno culturale e letterario di una maggiore sobrietà, di uno stile più appartato, di un definitivo congedarsi dalla figura ieratica dell’intellettuale moderno che si atteggia a «funzionario dell’Umanità». Ma in Italia la fine di una stagione militante e ideologica che ha generato, oltre a ottusi dogmatismi e imperdonabili censure, anche una passione creativa ineguagliata nell’èra del disincanto, ha depositato qualcosa di più e di peggio: un’attitudine adulatoria nei confronti della politica che conferma una vocazione cortigiana forgiatasi nei secoli; un’inclinazione subalterna che, spogliata di ogni riferimento ideologico forte, si rivela soltanto come una forma di soggezione supplice verso il potere politico. Dimostrarsi sensibili all’appello di Orhan Pamuk e Doris Lessing comporterebbe per gli intellettuali italiani riconoscere che ciò che di meglio ha partorito la cultura dell’Italia repubblicana è cresciuto al di fuori degli apparati e degli uffici dove si dispensavano gli attestati di fedeltà ideologica: da Montale a Gadda, da Contini a Longhi, da Flaiano a Fellini, da Brancati a Elsa Morante. Non fuori della politica, la cui febbre travolgente e contagiosa ha anzi grandiosamente fecondato l’arte e la letteratura moderne. Ma nemmeno in un rapporto ancillare con la politica, con le estetiche di partito, con i manifesti, le dottrine, le candidature, i panegirici, con il moltiplicarsi delle buone Cause. Riconoscere questa eredità, l’unica a restare salda nelle macerie ideologiche del passato, permetterebbe di afferrare il divario stridente tra le parole accorate dei due Nobel e il modo con cui la cultura italiana si adopera per stringere rapporti pericolosi con la politica, con eccessi che mettono in imbarazzo gli stessi politici. Lontana dagli eroismi di un tempo lontano e succube del clamore dei media. Per un posto al sole che non è nemmeno più il sol dell’avvenire.
«Corriere della sera» del 19 ottobre 2007

Allo scrittore deve stare a cuore il mondo

«Nuovi Argomenti», al contrario di Lessing e Pamuk, invita a riscoprire l’impegno
di Ranieri Polese
Desiati e Arpaia: «Politica e battaglie civili sono letteratura»
Letteratura e impegno. Scrittori e politica. «Ma quando uno oggi prende posizione, si trova isolato; il minimo che gli può accadere è la presa in giro, spesso è il massacro». Chi parla è lo scrittore Mario Desiati, 30 anni (Vita precaria e amore eterno, Mondadori), che sette mesi fa - l’8 marzo - pubblicava su queste pagine una lettera aperta di «solidarietà arrabbiata» a Pietro Ichino - il docente di Diritto del lavoro alla Statale di Milano minacciato dalle nuove Br - in cui denunciava le reticenze degli scrittori, rimasti silenziosi, praticamente indifferenti. «Dopo quella lettera, di attacchi, accuse, insinuazioni (per alcuni era solo pubblicità per un libro in uscita, ndr) ne ho ricevute tante, potrei pure farci un libro. Oggi, forse, manca il coraggio. Ma soprattutto non c’è un vero senso di comunità tra gli scrittori». Ricorda tutto questo Desiati proprio mentre sta chiudendo il numero speciale di «Nuovi Argomenti» (la rivista fondata da Alberto Moravia e Alberto Carocci) in uscita a novembre e dedicata allo scrittore della Ciociara nel centenario della nascita. «Contiene, questo numero, un questionario moraviano, otto domande rivolte a sedici scrittori proprio come avveniva nelle prime annate della rivista. Il tema scelto è Letteratura e politica». E che risposte avete avuto? «Nella maggior parte dei casi si esprime l’esigenza di una nuova definizione di impegno. Quello vecchio tipo, anni ‘50-70, non ha più senso oggi. E a volte serviva pure a nascondere pecche letterarie dei testi. Saviano e soprattutto Scurati parlano di responsabilità dello scrittore. I più giovani, in generale, sono i più severi». Nata nel marzo del 1953, e finanziata da Adriano Olivetti, «Nuovi Argomenti» doveva essere, secondo le parole di Moravia, «Una rivista di sinistra come "Temps modernes" di Sartre», con una «attenzione per la realtà italiana di tipo oggettivo e non lirico». Il primo numero era dedicato all’Inchiesta su arte e comunismo. E dal ‘53 al ‘61, il tema del comunismo e del suo rapporto con scrittori e intellettuali sarebbe tornato più volte. In una linea di sinistra laica che condannava lo stalinismo, ma che non rinunciava alla critica della logica capitalistica. E in cui troveranno spazio gli interventi sul colonialismo, l’Algeria, la Cina, le due Germanie, nell’idea insomma di una impegnata responsabilità civile e politica dell’intellettuale. Certo, i tempi allora erano assai diversi. C’era la Guerra fredda, si scontravano ideologie solide e forti, lo scrittore era chiamato a prendere posizione, a testimoniare, a farsi «organico». Ad aiutare - si diceva così - la «presa di coscienza». Il crollo del Muro e delle ideologie ha spazzato via tutto questo. Del resto, anche i rapporti di lavoro non sono più gli stessi, come ben sa Desiati che proprio fra i giovani precari ambienta le sue narrazioni. E la lotta di classe - Franco Cordelli - non c’è più. Si ha l’impressione, insomma, che una stagione si sia per sempre chiusa, che un secolo, il Novecento, sia ormai finito negli archivi. «Nel corso del Novecento le occasioni per i letterati di fare politica attraverso le loro opere sono state moltissime: basti pensare al periodo delle guerre mondiali, della rivoluzione sovietica, del fascismo» dice Alberto Casadei, docente di Letteratura italiana all’Università di Pisa, che ha da poco pubblicato il saggio Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo (Il Mulino). «È vero però che, dopo la grande stagione dell’impegno, sino agli anni Settanta, ora si guarda con sospetto al politico e più in generale al "civile" in opere letterarie. La satira poi è diventata appannaggio dei comici televisivi. Ciò non toglie che, se si considera la politica in senso lato, le possibilità di intervento ci siano ancora. Penso ai grandi problemi etici su cui i politici sono chiamati a legiferare: la posizione dei letterati sarebbe spesso molto importante e dovrebbe emergere con maggior forza anche sui mass media. Opere come quelle di Eraldo Affinati sono già significative in questo senso. Ma penso anche alle prove "civili", sulla scorta di Pasolini e Sciascia, di Marco Paolini e Daniele Del Giudice su Ustica, oppure alla bella ricostruzione di un assassinio camorristico nell’Abusivo (Marsilio) di Antonio Franchini, oppure all’inaspettato bestseller Gomorra (Mondadori) di Roberto Saviano. Sono opere politiche e civili che non annullano il rapporto con la tradizione letteraria, lavorando originalmente sulle sue forme». Dell’indigestione politica degli anni Settanta parla il nuovo libro di Paola Mastrocola, Più lontana dalla luna in uscita da Guanda: è la storia di Lidia, figlia di una famiglia operaia, che agli slogan, ai cortei, ai collettivi operai-studenti preferisce la poesia. All’epoca chi non faceva politica era etichettato come qualunquista o fascista: «Forse i loro impegni erano parimenti degni» dice la scrittrice. Già, ma allora, è ancora possibile un rapporto letteratura e politica; e se sì, come? Bruno Arpaia parte da una citazione di Elsa Morante: «"Una delle possibili definizioni giuste di scrittore per me sarebbe addirittura la seguente: un uomo a cui sta a cuore tutto quanto accade, fuorché la letteratura". Poiché è chiaro e scontato che con la propaganda o l’impegno non si fa letteratura - dice Arpaia - diciamo che per me lo scrittore dovrebbe essere "coinvolto" nel mondo, nel senso che indicava la Morante. E tra le molte cose che dovrebbero stargli a cuore c’è sicuramente la politica: la sua passione, la sua necessità, e la necessità, comune al cittadino e allo scrittore, di uscire dall’Io in cui siamo rinchiusi e di andare verso il Noi. La letteratura è un modo di dire Noi, ed è dunque sempre, in qualche modo, parte della polis. Il problema sta nel fatto che "la politica è la grande generalizzatrice e la letteratura è la grande particolareggiatrice" (Philip Roth). La letteratura deve entrare nei particolari, nelle sfumature, nei dettagli; la politica deve tagliare, decidere, non tener conto delle sfumature. Per questo il loro rapporto è conflittuale, ma proprio per questo potrebbe essere vivacissimo e stimolante. Io ci provo e ci ho provato, soprattutto con Il passato davanti a noi (Guanda), romanzo sicuramente "politico", che però parla di personaggi complessi, racconta la loro storia e le loro passioni».
L’anniversario In occasione del centenario della nascita di Alberto Moravia (sopra nel ritratto di Renato Guttuso) Bompiani ha appena mandato in libreria l’inedito «I due amici» (pp.416, 19) romanzo politico incompiuto. Tra le altre iniziative editoriali Bompiani propone anche i «Cinque racconti romani» (pp.198, 9)

LA RIVISTA Autori e società, sedici risposte Otto domande per sedici scrittori. Si comincia da «A senso oggi parlare di impegno per uno scrittore?»; si procede con «Chi sono gli Indifferenti nella società e nella cultura?»; si finisce con «Che cosa succede se uno scrittore va al governo?». Il «questionario moraviano» che «Nuovi Argomenti» di novembre propone a Rossana Campo, Paola Capriolo, Furio Colombo, Angelo Ferracuti, Giuseppe Genna, Nicola Lagioia, Valerio Magrelli, Dacia Maraini, Melania G. Mazzucco, Valeria Parrella, Antonio Pascale, Claudio Piersanti, Elisabetta Rasy, Roberto Saviano, Antonio Scurati e Walter Siti, risponde, idealmente, alle riflessioni su letteratura e impegno che due Premi Nobel, Orhan Pamuk e Doris Lessing, hanno fatto sul «Corriere» (il 16 e il 17 ottobre scorsi) mettendo in guardia gli intellettuali dal pericolo di essere al servizio della politica o, peggio ancora, dei politici. Agli «intellettuali inutili» è dedicato un convegno che si chiude oggi all’università di Tor Vergata (Roma), a cui partecipano, tra gli altri, Mario Perniola, Dieter Lesage, William Marx.

«Corriere della sera» del 20 ottobre 2007

Il cuore freddo degli scrittori

Risposta a Pamuk su letteratura e impegno
di Claudio Magris
I poeti - anche e soprattutto i più grandi come Omero e i tragici, che egli stesso tanto amava - vengono esclusi da Platone, in un famoso capitolo della Repubblica, dal suo Stato ideale e dalla formazione spirituale dell’ideale cittadino di questo utopico Stato. Solo la poesia «dorica» viene ammessa, l’arte severa che chiama alla virtù e se necessario alla battaglia, che forgia la moralità e i valori patriottici, sociali e civili; con terminologia odierna, potremmo dire che è permessa solo la letteratura impegnata. Questa sentenza platonica è inaccettabile ed egli, autore fra l’altro anche di tragedie sia pur da lui distrutte, lo sapeva meglio di ogni altro, tanto da celebrare nello Jone la poesia quale divina mania, ispirazione che ha solo in se stessa, negli abissi e nei voli della fantasia e del sentimento, la propria sorgente e il proprio senso. Quell’espulsione platonica dei poeti dalla Repubblica è ovviamente inaccettabile, perché significherebbe totalitarismo, potere assoluto di uno Stato che non tollera espressioni difformi dal suo modello di valori e fa violenza all’individuo e al suo diritto alla diversità. Ma per respingere la condanna platonica è necessario fare i conti a fondo con essa e con la sua verità pur pericolosa e distorta, ignorando la quale è impossibile rendere giustizia alla letteratura, cogliere la sua seduzione e la sua ambiguità e dunque il significato che essa ha per la vita degli uomini, siano essi responsabili cittadini, randagi clandestini o naufraghi dell’esistenza in balia dei propri demoni e delle proprie follie. La letteratura - ha scritto qualche giorno fa Orhan Pamuk sul Corriere, polemizzando con la politicizzazione dell’arte - non è giudizio morale bensì identificazione con un personaggio, col suo modo di essere (generoso o malvagio), con la sua fede, la sua passione, la sua violenza o il suo delirio. La letteratura non giudica né dà voti di condotta alla vita, che scorre al di là o al di qua del bene e del male; se rappresenta una rosa, sa - come diceva un gesuita e grande poeta mistico tedesco del Seicento, Angelus Silesius - che la rosa non ha perché e fiorisce perché fiorisce. Ma identificarsi con la vita implica identificarsi con tutti i suoi aspetti e dunque non solo con la primavera in fiore ma anche con i terremoti e, per quel che riguarda gli uomini, non solo con i loro amori e i loro sogni, ma anche con il male che infliggono agli altri, le ingiustizie che commettono, le guerre che scatenano. Narrare l’esistenza di un trafficante di organi che li fa strappare ai bambini delle favelas comporta - per uno scrittore autentico, che non è un moralista - una certa identificazione, che a sua volta è sconcertante. Se l’arte è bellezza, quest’ultima non sempre è, come secondo Platone dovrebbe essere, l’apparizione del Bene e del Vero. Platone teme che l’arte, proprio perché deve prescindere da giudizi morali, possa rendersi complice dell’ingiustizia e delle violenze che regnano nel mondo; intuisce che l’individuo, dando voce ai propri sentimenti, finisce spesso per civettare col proprio egoismo, per mimare compiaciuto le miserie, le contraddizioni e talora la banalità del suo stato d’animo e per idolatrare la perfezione della sua opera a scapito dell’umano: se rappresenta commosso un incendio, un poeta rischia di commuoversi più per le mirabili rime in cui descrive le vittime tra le fiamme che per le sofferenze reali di quelle vittime.
I poeti esibiscono spesso grandi sentimenti, ma essi - dice un verso di Milosz, grande poeta - hanno spesso un cuore freddo, anche se danno ad intendere il contrario, in primo luogo a se stessi. La cosiddetta letteratura impegnata ritiene invece che il suo compito sia anche - per taluni soprattutto - quello di portar aiuto alle vittime di quell’incendio, di contribuire a cambiare il mondo e non solo di rappresentarlo. Un impegno morale e dunque inevitabilmente politico, in quanto la politica è (o dovrebbe essere) la necessaria capacità di vedere - e lenire - non solo il bisogno del singolo individuo che conosciamo e che ci è caro, ma pure quello di tanti altri individui, a noi personalmente ignoti, che si trovano in condizioni analoghe e che sono cari ad altri, né più né meno importanti di noi. Un’opera letteraria, anche se nasce da un’irripetibile situazione individuale, si rivolge a tutti e dunque, se ha un messaggio morale, quest’ultimo diviene pure politico, perché entra nella vita, nei pensieri, nei sentimenti della polis, della comunità. La democrazia, così schernita quale astrazione ideologica dal pensiero reazionario, è invece la capacità fantastica di capire e sentire che anche i milioni che non conosciamo - e per i quali ovviamente non possiamo provare personalmente affetto o passione - sono altrettanto reali e concreti, fatti di carne e di sangue come noi e i nostri amici. In questo senso ogni romanzo, a prescindere dall’ideologia professata dall’autore, è democratico, perché ci mette nei panni e nella pelle degli altri. Ma l’impegno non riguarda gli scrittori o gli artisti in quanto tali e tanto meno li riguarda più di altre categorie. Gli elementari doveri verso gli altri concernono ogni uomo; essere leali, soccorrevoli, sinceri, fedeli è un fondamento di ogni esistenza. Gli scrittori e gli artisti non sono un clero laico che amministri spiritualmente l’umanità né capiscono la vita e la politica necessariamente meglio di altri. Molti fra i più grandi scrittori del Novecento sono stati fascisti, nazisti, comunisti adoratori di Stalin; continuiamo ad amarli, a capire il tortuoso e spesso doloroso itinerario che li ha portati a identificarsi con la malattia scambiandola per una medicina e ad imparare da essi pure una profonda umanità che la loro aberrazione ideologica non è riuscita a soffocare, ma di politica essi capivano certo meno di milioni di loro sconosciuti contemporanei. La responsabilità verso il mondo riguarda ogni persona, nel suo rapporto con gli altri, e coinvolge la sua vita e il suo lavoro, poco importa se da avvocato, scrittore o barbiere. Il romanzo, ha detto di recente Doris Lessing, non dev’essere un manifesto politico; l’impegno politico, va aggiunto, non si esaurisce certo con la firma sotto manifesti che troppo spesso assomigliano alla lista degli iscritti a un club esclusivo. Il grande Ernesto Sábato non si è limitato a firmare proclami contro la dittatura dei generali argentini, ma ha sacrificato per un lungo periodo la sua attività di scrittore alla ricerca dei desaparecidos. «Mettersi al servizio di una causa, ha detto Pamuk, distrugge la bellezza della letteratura». Forse è invece il modo in cui ci si mette al servizio di una causa che distrugge, potenzia o addirittura stimola a creare la bellezza. Lo scrittore non è un responsabile padre di famiglia, ma è piuttosto un figlio ribelle che obbedisce al suo demone; la letteratura ama il gioco, la libertà di inventare la vita come il barone di Münchhausen, di rendere la realtà leggera come un palloncino colorato che scappa di mano e se ne va per conto suo. Piegare tutto questo a un’ideologia, a una causa, a un dovere uccide la letteratura. Ma se mettersi al servizio di una causa diventa passione, potenza fantastica che identifica - a torto o a ragione - quella causa con la vita, allora pure l’impegno può diventare poesia, estro, libertà immaginosa. Virgilio che canta l’impero romano, Kipling quello britannico e Brecht il comunismo fanno poesia; il cattolicesimo - vissuto, non predicato - di Bernanos è indissolubile dalla sua epica; lo sdegno morale e l’ideale imperiale o metafisico di Dante creano vette non inferiori alla partecipe pietà per Paolo e Francesca. Se in passato occorreva contestare la soffocante pressione politica e ideologica sulla letteratura, oggi - come hanno osservato Alberto Asor Rosa e Franco Cordelli - è piuttosto il volgare o sgomento rifiuto della politica a minacciare la visione del mondo e indirettamente pure la poesia, a spegnere quella che Pierluigi Battista, sul Corriere, ha chiamato «una passione creativa ineguagliata nell’era del disincanto» e dovuta alla «stagione militante e ideologica precedente». L’eclissi del sole dell’avvenire sta comportando il tramonto del senso del futuro, della speranza del mondo. I grandi fondatori di religioni, da Gesù a Buddha, hanno annunciato verità, ma per farle concretamente capire e sentire agli uomini hanno avuto bisogno della letteratura: hanno raccontato parabole, in cui la verità si incarna nella vita e diviene vita, e la dottrina diviene racconto. È questa l’autentica dimensione morale - e di conseguenza l’impegno politico - della letteratura, che non predica bensì mostra. Joseph Conrad non impartisce sermoni, ma leggendo le sue storie si capisce, si sente cosa vuol dire vivere nella lealtà o nella menzogna, nel coraggio o nella paura, nel buon combattimento o nella diserzione. In questo senso - ma solo in questo senso - la letteratura è un’educazione all’umano, efficace solo se non si propone di educare ma lo fa d’istinto, con la rappresentazione delle cose. Pure l’educazione in senso stretto, peraltro, è efficace solo se non predica, bensì mostra e fa sentire i valori. I miei genitori non mi hanno mai detto che non bisogna essere razzisti, ma non mi hanno mai nemmeno detto che non si pranza al gabinetto; semplicemente, il loro modo di vivere, lavorare, divertirsi rendeva impensabile che si potesse essere razzisti o mangiare gli spaghetti nella toilette. Se avessero dovuto dirmelo esplicitamente, sarebbe forse già stato troppo tardi. La rappresentazione letteraria è anche giudizio, ma implicito e sempre comprensivo della totalità: in Delitto e castigo Dostoevskij riesce a comunicarci l’umana desolazione che induce Raskolnikov al delitto e a farci partecipi del suo destino, ma ci fa anche capire - e dunque giudicare - la stupida banalità delle idee che lo spingono al delitto e l’orrore di quest’ultimo. La letteratura è un continuo viaggio fra la scrittura diurna, in cui un autore si batte per i propri valori e i propri dèi, e quella notturna, in cui uno scrittore ascolta e ripete ciò che dicono i suoi demoni, i sosia che abitano nel fondo del suo cuore, anche quando dicono cose che smentiscono i suoi valori. Sábato, che ha parlato di queste due scritture, dice, in un libro nobilmente impegnato, che le sue profonde verità non si trovano in quel libro bensì in altri suoi racconti tenebrosi - «verità anche orribili, che talora mi hanno tradito». Quando scende lì sotto, gli ho detto anni fa a Madrid, scopre che due più due fanno forse quattro, forse nove, e che è impossibile e insensato appurarlo con esattezza. Ma quando risale alla superficie non ne approfitta per imbrogliare il conto al ristorante.
«Corriere della sera» del 21 ottobre 2007

19 ottobre 2007

La rivolta di Safranski: non sparate sul Romanticismo

Lo scrittore atteso a Francoforte per presentare il suo libro, una storia dello spirito tedesco dal Settecento al nazismo
di Ranieri Polese
Si dice Sonderweg, via, percorso particolare. Ma sarebbe meglio tradurre «Eccezione tedesca». È il modo del tutto speciale con cui la Germania moderna riflette sul suo passato, cioè su come è e perché è stata quello che è stata, cultura musica scienza e guerre, nazismo, stermini compresi. Da sempre, per capire perché le cose sono andate così, i tedeschi ricorrono a questo tipo di spiegazione. Tirando in ballo molti avvenimenti del loro passato (le inquietudini del tardo Medioevo, la Guerra dei contadini, il Romanticismo eccetera), dando l’impressione - è un’osservazione fatta da Hannah Arendt durante il suo primo ritorno in Germania dopo la guerra - di voler risalire così indietro che alla fine tutto sembra dipendere «dagli avvenimenti che portarono alla cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre». Comunque, di eccezione tedesca si continua ancora oggi a parlare, tanto che le pagine culturali dei giornali (in Italia come in Francia, per esempio) sono piene in questi giorni di interviste a Günter Grass, di cui esce la traduzione dell’autobiografia Sbucciando la cipolla (Einaudi) - perché ha nascosto di essersi arruolato nelle SS-Waffen? -, di recensioni del romanzo Le benevole (Einaudi) di Jonathan Littell - racconto in prima persona di un volenteroso carnefice nazista -, di anticipazioni del nuovo volume di Norman Mailer The Castle in the Forest, ovvero l’infanzia di Hitler come luogo di origine della sua mostruosità. Insomma, si continua a interrogare la storia tedesca per capire come il Paese della più alta cultura possa essere diventato il regno del male. Nella recensione apparsa sullo «Spiegel» del bel saggio di Rüdiger Safranski Romantik. Eine deutsche Affaire (è uscito da pochi giorni da Hanser Verlag ed è già in classifica: in Italia lo pubblicherà Longanesi che già ha tradotto le sue biografie di Nietzsche e di Heidegger) si legge che questo libro è «la serena descrizione di un Sonderweg. È il romanzo dello spirito tedesco». Tanto da lasciarci credere che l’idea dell’autore sia quella di tracciare una traiettoria che dalla fine del Settecento ci porta diritti fino al nazismo. Insomma, da Novalis a Hitler, parafrasando il celebre studio sul cinema espressionista tedesco scritto da Siegfried Krakauer, Da Caligari a Hitler. «Non è così semplice» ci dice Safranski, atteso a Francoforte per parlare del suo libro. «Io non vedo nessuna stretta causalità fra il Romanticismo del primo ‘800 - Fichte, Novalis, Eichendorff, Schlegel, Hoffman - e Hitler. Certo, Hitler era un fervente wagneriano, e Wagner era un romantico dionisiaco, ragion per cui si può dire che un legame c’è stato. Ma se uno considera l’ideologia nazista nel suo complesso - razzismo, biologismo, antisemitismo - si vede come in essa abbiano giocato un ruolo decisivo dei concetti pseudo-scientifici della fine del secolo XIX. Basti pensare al darwinismo sociale. Il nazionalsocialismo è stato più una forma brutale di positivismo che non una variante imbarbarita del Romanticismo. Inoltre occorre non dimenticare che anche la resistenza contro Hitler, gli uomini dell’attentato del 20 luglio 1944, aveva radici romantiche. E questo vale soprattutto per Stauffenberg e quelli del George Kreis». Lei però usa un termine, Affaire, che in genere indica qualcosa di ambiguo, di scandaloso. L’affaire Dreyfus, per esempio; o una relazione d’amore fuori dal matrimonio. «Certo, c’è qualcosa di ambiguo, di pericoloso. Nel bene come nel male il Romanticismo ama i sentimenti e i pensieri estremi. È radicale, evita e disprezza il senso comune, la via di mezzo. Produce un senso di estraniamento, perde il contatto con il mondo terreno. Rincorre sogni e fantasie, e finisce per trovarsi a casa in un altrove sconosciuto ai comuni mortali. Tutto questo comporta un dispendio fortissimo di sentimenti. In fondo, in un tradimento, in un’avventura, c’è molto più amore e molta più passione che nel matrimonio. Ma proprio qui può nascere il pericolo». In che senso? «Nel senso che in questo modo la capacità di giudizio politico viene compromessa». E allora si finisce per diventare hitleriani fanatici. «No, le cose non sono così semplici. Il sillogismo: i tedeschi sono romantici; i tedeschi hanno aderito al nazismo; dunque il nazismo è romantico, non è corretto. Certo, la prontezza con cui il popolo tedesco seguì Hitler ha anche a che fare con l’estraniamento romantico, con la perdita di chiarezza politica. Ma se non vogliamo risalire ad Adamo ed Eva come diceva la Arendt, allora non bisogna dimenticare che i tedeschi non rincorrevano solo i loro sogni romantici. Si ripromettevano in realtà di conseguire consistenti vantaggi materiali dalla politica di violenza attuata dal nazionalsocialismo. Volevano trarre profitto dalla sottomissione e dallo sfruttamento degli altri Paesi. E volevano profittare della espropriazione e dell’eliminazione degli ebrei. Insomma, quello che desideravano più di tutto era uno stato assistenziale consegnato nelle mani di un dittatore. E questo non ha niente a che fare con il Romanticismo». Ma la fascinazione, la magia esercitata da Hitler forse sì. La figura del mago, dell’incantatore appartiene alla cultura romantica. «Hitler si era presentato nelle vesti di un salvatore, e in parte è stato percepito così. Ha tenuto i tedeschi sotto l’effetto di un incantesimo, li ha stregati. Se lasciarsi incantare da Hitler è romantico, allora sono romantici anche quegli italiani che si erano fatti ammaliare da Mussolini. Ma forse, in tutti e due i casi, il Romanticismo non c’entra niente; piuttosto si tratta della potenza dei mezzi di comunicazione di massa, che per la gente dell’epoca era un’assoluta novità». Certo, nel 1945 la sconfitta, la fame, le città ridotte a cumuli di macerie, la perdita di tutto costituirono per i tedeschi un brusco risveglio dall’incantesimo. Diventarono più sobri, lei scrive, più scettici, meno portati a credere ai sogni, a giustificare errori, colpe, tragedie con motivi ideali. Alcuni intellettuali, comunque, ci provarono ancora. Primo fra tutti, Thomas Mann: il suo romanzo Doktor Faustus rilegge la catastrofe tedesca come il frutto di un patto con il diavolo. Altri chiamano in causa il militarismo prussiano, altri ancora sull’esempio di Heidegger denunciano la scienza e la tecnologia. «Tutte le volte che si annulla la distinzione tra cultura e politica si provocano disastri. Se l’arte è fantastica, estrema, radicale, quello che invece chiediamo alla politica è la ricerca del consenso, del compromesso ai fini di un vantaggio generale. Quando non riusciamo a tener separate le due sfere, allora scatta il pericolo: cominciamo a cercare nella politica un’avventura che avremmo fatto meglio a cercare nella cultura. E viceversa, chiediamo alla cultura utilità e ragionevolezza che invece spettano alla politica. Insomma, il Romanticismo è grande e meraviglioso quando non cerca di prendere politicamente il potere. Invece il movimento del ‘68, di cui già si preparano le celebrazioni del quarantesimo anniversario, volle prendere il potere politico romanticamente. Allora si scrisse sui muri "L’immaginazione al potere!". Oggi posso dire che non fu proprio una bella idea».

L’autore: il filosofo Rüdiger Safranski è nato nel 1945 a Rottweil e vive a Berlino. È autore di numerose biografie filosofiche. Ha ottenuto vari premi, tra i quali l’Ernst Robert Curtius per la saggistica e il Friedrich Nietzsche del Land Sachsen-Anhalt. Tra le sue opere tradotte in italiano, si ricordano: Heidegger e il suo tempo (Tea), Schopenhauer e gli anni selvaggi della filosofia, Quanta globalizzazione possiamo sopportare? e Il male, editi da Longanesi che tradurrà anche Romantik. Eine deutsche Affaire.
«Corriere della sera» del 10 ottobre 2007

E Silicon Valley esporta la censura per Internet

I «filtri» tutelano i minori ma anche i regimi. Ed è polemica
di Massimo Gaggi
A chi l’accusa di fornire da anni alla dittatura birmana programmi e tecnologia per sottoporre a censura informazioni e opinioni che circolano via computer, Fortnet, un’azienda di Sunnyvale, nella Silicon Valley, risponde che non vende i suoi prodotti direttamente, ma attraverso società intermediarie. Non sa quindi molto dei clienti finali, anche se ritiene che siano essenzialmente aziende private che acquistano «filtri» da utilizzare, ad esempio, per impedire al loro personale di accedere a siti porno. Fortnet, però, non sa cosa replicare quando gli investigatori di Open Net Initiative, osservatorio creato dalle università di Harvard, Oxford, Cambridge e Toronto per monitorare lo «stato di salute» di Internet, obiettano che tempo fa il capo delle vendite della società è stato ripreso dalla tv birmana mentre incontrava il capo del governo del Paese asiatico. «No comment» anche da altre società californiane come Websense e Blue Coat System, la cui tecnologia è usata per censurare la rete in Paesi mediorientali come Yemen ed Emirati. Blue Coat, invece, ammette tranquillamente di lavorare per il governo dell’Arabia Saudita; anzi, sembra orgogliosa di assistere un alleato degli Usa, anche se il governo di Riad non è esattamente una democrazia. Per tenere sotto controllo il web, Singapore, altra dittatura che ha forti legami con l’Occidente, si affida invece a SurfControl, società a capitale britannico ma basata in California. Quanto all’Iran, non è chiaro quale tecnologia usi oggi: in passato ha sicuramente basato le sue censure sul sistema SmartFilter di SecureComputing, ma la società americana sostiene che Teheran l’ha usato illegalmente e non dispone degli ultimi aggiornamenti del programma. La rivoluzione digitale di Internet ha aperto nuove frontiere di libertà nella circolazione delle informazioni ma, com’era forse inevitabile, ha anche spinto molti governi autoritari a cercare di neutralizzare gli aspetti democratici della rivoluzione digitale. Chi pensava che imbrigliare uno strumento universale come la rete equivalesse a tentare di svuotare il mare con un secchio, chi era convinto che il regime comunista cinese non sarebbe sopravvissuto all’avvento della comunicazione a banda larga, sta rivedendo i suoi giudizi: a Pechino il Pcc rimane al potere, mentre Internet è soggetto a una severissima sorveglianza. E i giganti americani di Internet - Microsoft, Google, Yahoo! e Cisco Systems - sono stati ribattezzati dagli internauti «la banda dei quattro» per la collaborazione offerta alle autorità di Pechino nei loro interventi repressivi, nel tentativo di non perdere il ricco mercato cinese. Quello della Cina è il caso più macroscopico e discusso, ma la censura su Internet si sta sviluppando a macchia d’olio in mezzo mondo. Secondo Open Net Iniziative (Oni), alcune repubbliche dell’ex Urss - soprattutto Bielorussia, Tagikistan e Kirghizistan - hanno ripetutamente smantellato interi siti web o bloccato quelli controllati da forze di opposizione nei periodi che precedono le consultazioni elettorali. L’elenco degli altri Paesi che cercano in un modo o nell’altro di mettere la «museruola» a Internet è lungo e comprende, oltre a quelli già citati, Egitto, Cuba, Corea, Siria, Tunisia e Vietnam. Apparentemente, invece, Russia, Malesia, Israele e Venezuela non hanno programmi governativi di intervento nella rete. Quanto all’Europa, secondo l’organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione, ben 24 Paesi su 56 intervengono in qualche modo per limitare l’attività di Internet. Ma quali sono le tecniche d’intervento più comuni? C’è chi scatena attacchi di hacker contro i siti che danno più fastidio e chi, come la Cina, gioca d’anticipo e impone a chi vuole operare nel suo Paese di esercitare un’autocensura preventiva sui contenuti. L’Iran, oltre a censurare, ha bloccato i sistemi di comunicazione a banda larga in modo da limitare l’afflusso e la velocità di circolazione di testi e video. La misura più drastica l’ha adottata la giunta militare birmana che nei giorni della protesta ispirata dai monaci buddisti è arrivata addirittura a disattivare l’intera rete. Misure estreme che fanno notizia. Si parla meno dell’ordinaria censura, quella di routine, in genere attivata utilizzando programmi e tecnologie sviluppate da società americane di quella stessa Silicon Valley che ha regalato al mondo la libertà della comunicazione universale «a portata di clic». Gli studi fin qui condotti escludono i Paesi democratici dell’Occidente: si dà per scontato che qui i controlli, quando ci sono, servano a combattere il terrorismo o la pornografia, non a censurare la libertà di espressione. In realtà anche in Europa non tutto è scontato, come nel caso della Germania che blocca siti e messaggi filonazisti. Al Congresso di Washington è stato appena presentato il Global Online Freedom Act, un progetto di legge che punta a evitare che l’America continui a esportare software destinato a un uso politico repressivo. Non esistono soluzioni semplici sul piano tecnico (il software usato dai governi è abbastanza simile a quello sviluppato per combattere intrusioni nelle reti aziendali e anche nelle utenze domestiche), ma anche su quello politico il quadro non è del tutto nitido. Tanto più che nemmeno il Congresso si può considerare davvero indenne da tentazioni censorie. Prendiamo il caso Wikipedia: la recente indagine dalla quale è emerso che moltissime voci dell’enciclopedia «spontanea» sono state alterate dall’intervento di entità come la Cia, il partito repubblicano, la chiesa cattolica e quella anglicana, è stata avviata da alcuni neolaureati del California Institute of Technology dopo aver scoperto che numerosi parlamentari Usa avevano ripulito le loro scheda che compare su Wikipedia.
«Corriere della sera» del 12 ottobre 2007

Chi censura il Novecento

Il libro di Giampaolo Pansa
di Dino Messina
I sequestrati venivano portati in un casolare isolato, possibilmente abitato da un compagno o da contadini che avevano avuto un famigliare ucciso dai fascisti. A loro toccava di scavare la fossa e giurare, pena una feroce ritorsione, il più assoluto silenzio. A qualche rapito, invece, andò bene. Sborsando somme di danaro ingenti, il notaio, il possidente, l’industriale molto facoltoso avevano salva la vita. E nel paese si vedeva qualcuno diventare ricco di colpo. A qualcuno toccò invece di essere ucciso anche se aveva pagato, anzi se era stato un convinto sostenitore della Resistenza. È quanto accadde ad Alberto Morselli, quarantasettenne proprietario della Bassa modenese e a sua sorella Tina. Morselli aveva versato una notevole somma al Cln provinciale di Modena per una sincera convinzione antifascista. I guai arrivarono quando denunciò che parte dei soldi era rimasto nelle tasche dei partigiani locali. Alberto e Tina vennero uccisi. Tina, prima di essere finita, fu stuprata. Sono storie che leggiamo nel nuovo libro di Giampaolo Pansa, I gendarmi della memoria - Chi imprigiona la verità sulla guerra civile, appena uscito dalla Sperling & Kupfer (pagine 504, 19). Questi esempi, tuttavia, non traggano in inganno: benché alcuni racconti completino e siano il seguito di quelli contenuti negli altri bestseller del giornalista sulla guerra civile italiana, Il sangue dei vinti, Prigionieri del silenzio, Sconosciuto 1945, La grande bugia, Pansa questa volta ha scritto un saggio diverso dai precedenti, dove gli episodi sulla parte oscurata della guerra civile sono ancor più in secondo piano rispetto alla discussione sull’uso politico della memoria. L’autore racconta da straordinario cronista le aggressioni subite l’anno scorso quando uscì La grande bugia. Il 16 ottobre 2006 in una libreria di Reggio Emilia una dozzina di «Antifascisti militanti» inneggianti alla strage di Schio e «senza rimorso», come diceva un loro cartello, per i delitti del Triangolo Rosso, inaugurò una serie di aggressioni che costrinsero Pansa ad annullare quattordici presentazioni. Ma i contestatori furono anche beffati: fecero aumentare l’attenzione dei media sul libro che volevano censurare, contribuendo così a un successo straordinario. La discussione che si accese a sinistra, al di là della solidarietà subito espressa dal Presidente Giorgio Napolitano, hanno dato l’occasione a Pansa per riflettere su un fenomeno molto italiano. Esiste una parte della sinistra che senz’alcun titolo se non quello del pregiudizio ideologico si è arrogata il diritto di stabilire quel che si può raccontare e quel che va taciuto della nostra storia nazionale. Ancora oggi, a più di sessant’anni dai fatti. Cosicché se un giornalista e storico come Pansa, che ha sempre creduto nei valori della Resistenza, tanto da scrivere in anni lontani per Laterza un saggio importante come Guerra partigiana tra Genova e il Po, decide di raccontare l’altro lato della guerra civile, quella dei saloini, è accusato di revisionismo, addirittura di negazionismo. E c’è qualcuno che gli contesta anche l’apologia di fascismo. Così uno scrittore abituato a fare liberamente il suo mestiere si trova di colpo prigioniero dei «gendarmi della memoria». Fortunatamente Pansa ha la capacità di dipingere con ironia questa razza di nuovi censori e anima il suo saggio di una serie di figure che sembrano appena uscite dal suo Bestiario dell’Espresso. Accanto ai «Senzarimorso» di Reggio Emilia ecco comparire «L’Uomo di Cuneo» Giorgio Bocca, che aveva proposto sanzioni penali contro Pansa «apologeta di fascismo»; «Il Cosacco» Bruno Gravagnuolo, focoso polemista dell’Unità; «Il professor Basta» Angelo D’Orsi che aveva accusato Pansa di «rovescismo»; «Il Piotta» Paolo Cento che nell’88 aveva cercato di bloccare una lezione di Renzo De Felice all’Università di Roma e che diciott’anni dopo organizzava un convegno in suo onore. E poi ci sono «Kojak» Sandro Curzi e «Il Pelatone» europarlamentare comunista Marco Rizzo, «Il Parolaio Rosso» Fausto Bertinotti, presidente della Camera, e «L’esorcista» storico Nicola Tranfaglia. Un’ampia famiglia rossa, composita e pronta alla rissa. Anche con i parenti stretti. Ci sarebbe quasi da ridere se la discussione non riguardasse la mattanza che a guerra finita costò la vita a circa ventimila italiani che avevano aderito alla Rsi. Vittime della vendetta personale, dell’odio ideologico o dell’errore. E se da questa incapacità a guardare in maniera serena al nostro passato, a riconoscere i propri torti, come l’uccisione di 776 donne nel solo Piemonte, non derivasse l’impossibilità di affrontare i problemi del presente. Non è credibile, avverte Pansa, nessuna volontà di riforma dei tanti mali italiani se prima la sinistra «non rilegge con onestà l’intera storia» della sua parte politica nel Novecento.«Corriere della sera» del 7 ottobre 2007

La colpa della sinistra: non capire il liberalismo

Nel nuovo libro il filosofo francese mette sotto accusa i progressisti che rifiutano persino il Trattato europeo
Di Bernard Henri Lévy
Bernard-Henri Lévy: «Confonde il mercato con il demonio ed è conservatrice come la destra»
Non basta dire che la sinistra si è sbarazzata della sua prima tentazione totalitaria (comunista) solo per cadere in un’altra che ne prende il posto, occupa il vuoto lasciato e cresce come gramigna che si espande sulle sue rovine e sulle sue vestigia, ma occorre aggiungere questo: in virtù di una nuova astuzia, singolare ma nemmeno senza precedenti nella storia delle idee politiche, il tratto più caratteristico di questa seconda tentazione è che essa attinge la propria ispirazione non più alla sinistra, ma alla destra, se non all’estrema destra o addirittura, come vedremo, al magazzino di accessori della peggiore «ideologia francese». Sì, una sinistra di destra. Letteralmente di destra, in effetti. Una sinistra-ossimoro che dà il capogiro, una sinistra che, se le parole hanno un senso, talvolta è ben più a destra della destra stessa. È questa la situazione in cui oggi si trova chi pretende che le parole abbiano, appunto, un senso e lo conservino. In particolare, è la situazione dell’autore di questo libro: trent’anni dopo, voglio dire esattamente trent’anni dopo la «Barbarie dal volto umano» che già si apriva con un’apostrofe, piena di speranza, alla sinistra («È alla sinistra che mi rivolgo; è a lei che parlo perché è la mia famiglia, perché parlo la sua lingua e credo alla sua morale, in mancanza di una sua scienza»); è la stessa situazione, la stessa configurazione di allora: lo scenario si è capovolto ma la lotta continua. ( ) Il primissimo sintomo di tale capovolgimento, il primo caso flagrante in cui lo vediamo produrre i suoi perniciosi effetti è il singolare successo che ottiene, di questi tempi, la tematica antiliberale. Chiaramente, questa tematica non è appannaggio della sinistra ( ) Ma è della sinistra, innanzitutto, che ho scelto qui d’interessarmi. È dei suoi veleni che ho cominciato, prioritariamente, a redigere l’inventario. E poi sono costretto ad ammettere che, priorità o meno, il male, purtroppo e comunque, è più acuto nella sinistra. Sono obbligato a riconoscere che, fin dalla sua epoca marxista, la nostra sinistra ha gettato una sorta di fatwa sul termine di liberalismo e che, come accade con le fatwa, purtroppo non l’ha minimamente cambiata anche quando il marxismo si è spento: dai neocomunisti che fanno del liberalismo quasi un sinonimo di fascismo ai dirigenti di Attac che ci spiegano, nel più puro stile da angelo sterminatore, che il loro «obiettivo» è «di estirpare il virus liberale dalle menti affinché le menti possano ricominciare a funzionare normalmente»; dalla «sinistra socialista» che rifiuta il Trattato costituzionale europeo a causa della sua «ispirazione liberale» al Primo segretario del Partito, in linea di principio filoeuropeo, ma che conferma come «il liberalismo sia contraddittorio con lo spirito europeo stesso» c’è da credere che l’antiliberalismo abbia finito con l’imporsi, non solo come slogan, ma come comandamento, orizzonte, programma e sostituto di qualsiasi programma, come minimo comune denominatore di tutte le famiglie di sinistra, come crociata, come speranza. Siamo l’unico Paese al mondo dove, da Besancenot a Fabius, da Hollande a Badiou e agli eredi di Bourdieu, si usa il termine antiliberale come una volta si usava il termine anticapitalista Insomma, capisco bene che il liberalismo di cui ci parlano è supposto coincidere con il liberalismo «economico». So che è un liberalismo al cui proposito i leader socialisti precisano, ogni volta che le loro parole suscitano inquietudine, che non si tratta di liberalismo «in sé», ma soltanto di «neo» o «ultra» liberalismo. Soprattutto so che la maggior parte di loro sono sinceramente convinti di prendersela con il liberalismo allo stesso modo con cui gli altri, gli avversari, i sostenitori della mondializzazione felice, gli apostoli del profitto e della legge della giungla economica, i fautori del commercio che sarebbe al centro d’ogni cosa con le sue dolci mobilitazioni lo usano come uno stendardo. Ma, allo stesso tempo, chi si vuole prendere in giro? ( ) Dimentichiamo pure il problema di sapere se si possano, filosoficamente e tecnicamente, separare così le cose o se i due liberalismi, il politico e l’economico, quello di Constant e quello di Smith, in sostanza non siano legati, non siano il dritto e il rovescio dello stesso scenario, il duplice pistone della stessa macchina che raffredda l’ardore del Leviatano - non è un caso che la parola sia la stessa; la lingua veglia, un poco, sulla ragione degli uomini e sulla verità delle cose; è, come sappiamo, la tesi di Montesquieu nello Spirito delle leggi quando scrive: «Senza libertà economica, la libertà politica è in pericolo», e inversamente. Dimentichiamo quindi tutto questo. Il problema è l’ignoranza insensata della maggior parte di questi Signori quando ci spiegano che il liberalismo è il mercato, mentre in realtà è il contratto. È la stupidità grossolana che fa ripetere, fino all’ebbrezza, che il liberalismo è la giungla, lo stato di natura, l’umanità restituita al regno e alla collera delle cose, mentre per i teorici della scuola di Manchester, per Adam Smith, per Jeremy Bentham o, oggi, per Hayek è, al contrario, lo sforzo di frenare la legge della giungla, uscire dallo stato di natura, inventare norme e regole che permettano di sormontare la lotta di tutti contro tutti ( ) Esaminiamo ora seriamente l’altra grande idea di questa gente, l’idea alla quale sembra che tenga di più. Cioè che lo «Stato liberale» avrebbe due significati distinti e che sarebbe urgente tagliare il nodo dell’ambiguità facendovi passare il buon fendente della critica sociale: prendere il «buono», lasciare il «cattivo»; conservare la libertà, gettare via il liberalismo; conservare, se ci si tiene, il liberalismo, ma solo il suo nocciolo razionale, estratto dal suo involucro ultra; come dicono talvolta, nei loro momenti di lucidità, i più elaborati di questi personaggi: «Non lasciare il liberalismo agli antiliberali». Ebbene, neanche questo si fa. Perfino questo gesto, questo piccolo gesto, questa minuscola battaglia semantico-politica, la sinistra ne parla, ma non la fa. La sinistra che si dà tanto da fare per - le parole sono sue - non abbandonare alla destra la bandiera tricolore o Giovanna d’Arco, che ci stordisce da decenni affinché non si lasci a Le Pen il monopolio del patriottismo e della Nazione, la sinistra che, quando le fa comodo e con il rischio di perdere una parte della propria anima, non ha eguali nel condurre il lavoro di riappropriazione simbolica che le consente (continuo a citare) di disputare all’avversario il terreno dell’insicurezza, del dibattito sulla violenza, sulle periferie, eccetera, su questo terreno rimane muta e come colpita da stupore. Di fronte a un compito che, è il minimo che si possa dire, non è meno essenziale al suo destino e consisterebbe nel dare un senso leggermente più puro a questa parola - destino - che si addice a una tribù che non è più quella di un tempo, ma non è nemmeno, per quanto ne sappiamo, una tribù di guardiani di lager, la sinistra non trova, per la prima volta, nulla da dire A pensarci, si tratta di un fenomeno stupefacente. Di un lapsus, un vuoto di discorso, una distrazione teorica, un diniego - chiamiamolo come si voglia - di cui non si è misurata abbastanza l’enormità.
Traduzione di Daniela Maggioni

Trent’anni dopo i suoi esordi con «La barbarie dal volto umano», il filosofo Bernard-Henri Lévy torna a parlare della Sinistra e della Francia. Lo fa con un volume di 423 pagine, «Ce grand cadavre à la renverse», Grasset, 19,90; in tutte le librerie francesi dal prossimo 9 ottobre. Qui ne anticipiamo un brano.
«Corriere della sera» del 4 ottobre 2007