di Fiamma Nirenstein
Per parlare della decisione svizzera di bandire i minareti, innanzitutto avvertirò che nei miei anni come corrispondente da Gerusalemme ogni notte, alle 4, ben prima del gallo, dalla valle sotto casa mia ho dovuto subire il canto del muezzin da una vicina moschea, e non lontano da lui, l’eco di molte altre voci simili. Mai, tuttavia, ho pensato che quel muezzin dovesse star zitto. Nel suo villaggio non canta per farsi sentire anche da me, ma per chiamare i suoi alla preghiera. Questa è libertà religiosa, e Gerusalemme la dà a tutti.
Pensare che laggiù cercasse di affermare un messaggio politico oltre che religioso significherebbe andare oltre ciò che è legittimo per una persona democratica, liberale, rispettosa della cultura, della religione altrui. Di fatto l’islamofobia, salvo per alcuni casi patologici, è un’invenzione dell’Onu quando nel 2004 il segretario Kofi Annan la definì ufficialmente causa della frustrazione di molti musulmani, senza dedicare una parola alla jihad che allora impazzava e ad altri immensi problemi. Infatti nella sua maggioranza l’Islam ufficiale, nei suoi luoghi d’origine e all’estero, non ha accettato la dichiarazione universale dei diritti umani, contrapponendovisi con altre come la Dichiarazione del Cairo che afferma «ognuno ha diritto a sostenere ciò che è giusto, e a mettere in guardia contro ciò che è sbagliato e malvagio in conformità con la Sharia islamica».
Al fondo della problematica che ha condotto gli svizzeri a rispondere di no a nuovi minareti non c’è una scarso rispetto della libertà religiosa. Non c’è nemmeno la perdita di identità che ora ci fa correre, sbagliando, a chiedere di mettere una croce sulla bandiera. Non c’entra nulla. C’è una quantità di semplici ragioni di diffidenza che impediscono di desiderare l’allargamento dell’Islam. Né si deve immaginare che la scelta inviti i musulmani all’estremismo: ben altre ragioni guidano lo jihadismo, che è nutrito solo da sé stesso, dalla decisione indefettibile di convertire il mondo. Gli svizzeri vedono la TV e si preoccupano: la sharia porta alla pena di morte, all’impiccagione di omosessuali, alla lapidazione. In generale, nei paesi islamici, vige la dittatura, i dissidenti soffrono, muoiono. I cristiani sono perseguitati, gli ebrei poi non se ne parla nemmeno.
I gruppi e i Paesi che più forte gridano la loro fede sono anche i più evidenti, e certo sia l’Iran di Ahmadinejad che gli Hezbollah o Hamas o Al Qaida rappresentano modelli negativi, terroristi. Certo, non tutto l’Islam è così. Ma parliamone, esaminando i problemi senza censure con accuse di islamofobia; abbiamo un problema, che lo si risolva guardando negli occhi l’immigrazione islamica, o alla prima occasione la preoccupazione si trasformerà in rifiuto. E non vale a calmare la pubblica opinione l’idea che comunque il vero Islam è altrove rispetto alla jihad: sono pochi e minoritari gli episodi in cui una voce islamica valorosa si levi per garantirci il rispetto della democrazia, della sessualità altrui, dei convertiti, dei dissidenti. La negazione politically correct, quella sì che lascia fiorire la jihad: in Svizzera dopo l’arresto di otto persone sospettate di aver collaborato in alcuni attentati suicidi in Arabia Saudita la reazione del capo di un gruppo musulmano locale, fu che «il problema non è l’aumento dell’integralismo islamico ma l’intensificarsi dell’islamofobia». Anche negli Usa si è ripetuto lo stesso per l’episodio di Fort Hood.
È proibito ridere di vignette che parlano dell’Islam, è proibito occuparsi della terrificante oppressione delle donne, è abbietto notare che fra Islam e regimi autoritari sussiste un’evidente identificazione, è orrido sollevare il tema del delitto d’onore, della poligamia che ci trascinano decenni indietro, e soprattutto è generico parlare della jihad, e allora visto che tutto ciò che è concreto è vietato la reazione si concentra sui simboli dell’islam.
Esistono milioni di moschee senza minareto nei paesi islamici. Ma se si costruiscono vicino alle chiese, sono generalmente più alti, orgogliosi, potenti. La costruzione del luogo di culto islamico ha in sé una serie di espliciti significati secolari che sempre ribadiscono la santa competizione dell’Islam per conquistare il mondo. Molte moschee sorgono su antichi templi ebraici e cristiani. Una rivolta contro il politically correct sull’Islam può avvenire ovunque, e la molla non sarà l’intolleranza religiosa: non è nostra, né Svizzera, né europea.
Pensare che laggiù cercasse di affermare un messaggio politico oltre che religioso significherebbe andare oltre ciò che è legittimo per una persona democratica, liberale, rispettosa della cultura, della religione altrui. Di fatto l’islamofobia, salvo per alcuni casi patologici, è un’invenzione dell’Onu quando nel 2004 il segretario Kofi Annan la definì ufficialmente causa della frustrazione di molti musulmani, senza dedicare una parola alla jihad che allora impazzava e ad altri immensi problemi. Infatti nella sua maggioranza l’Islam ufficiale, nei suoi luoghi d’origine e all’estero, non ha accettato la dichiarazione universale dei diritti umani, contrapponendovisi con altre come la Dichiarazione del Cairo che afferma «ognuno ha diritto a sostenere ciò che è giusto, e a mettere in guardia contro ciò che è sbagliato e malvagio in conformità con la Sharia islamica».
Al fondo della problematica che ha condotto gli svizzeri a rispondere di no a nuovi minareti non c’è una scarso rispetto della libertà religiosa. Non c’è nemmeno la perdita di identità che ora ci fa correre, sbagliando, a chiedere di mettere una croce sulla bandiera. Non c’entra nulla. C’è una quantità di semplici ragioni di diffidenza che impediscono di desiderare l’allargamento dell’Islam. Né si deve immaginare che la scelta inviti i musulmani all’estremismo: ben altre ragioni guidano lo jihadismo, che è nutrito solo da sé stesso, dalla decisione indefettibile di convertire il mondo. Gli svizzeri vedono la TV e si preoccupano: la sharia porta alla pena di morte, all’impiccagione di omosessuali, alla lapidazione. In generale, nei paesi islamici, vige la dittatura, i dissidenti soffrono, muoiono. I cristiani sono perseguitati, gli ebrei poi non se ne parla nemmeno.
I gruppi e i Paesi che più forte gridano la loro fede sono anche i più evidenti, e certo sia l’Iran di Ahmadinejad che gli Hezbollah o Hamas o Al Qaida rappresentano modelli negativi, terroristi. Certo, non tutto l’Islam è così. Ma parliamone, esaminando i problemi senza censure con accuse di islamofobia; abbiamo un problema, che lo si risolva guardando negli occhi l’immigrazione islamica, o alla prima occasione la preoccupazione si trasformerà in rifiuto. E non vale a calmare la pubblica opinione l’idea che comunque il vero Islam è altrove rispetto alla jihad: sono pochi e minoritari gli episodi in cui una voce islamica valorosa si levi per garantirci il rispetto della democrazia, della sessualità altrui, dei convertiti, dei dissidenti. La negazione politically correct, quella sì che lascia fiorire la jihad: in Svizzera dopo l’arresto di otto persone sospettate di aver collaborato in alcuni attentati suicidi in Arabia Saudita la reazione del capo di un gruppo musulmano locale, fu che «il problema non è l’aumento dell’integralismo islamico ma l’intensificarsi dell’islamofobia». Anche negli Usa si è ripetuto lo stesso per l’episodio di Fort Hood.
È proibito ridere di vignette che parlano dell’Islam, è proibito occuparsi della terrificante oppressione delle donne, è abbietto notare che fra Islam e regimi autoritari sussiste un’evidente identificazione, è orrido sollevare il tema del delitto d’onore, della poligamia che ci trascinano decenni indietro, e soprattutto è generico parlare della jihad, e allora visto che tutto ciò che è concreto è vietato la reazione si concentra sui simboli dell’islam.
Esistono milioni di moschee senza minareto nei paesi islamici. Ma se si costruiscono vicino alle chiese, sono generalmente più alti, orgogliosi, potenti. La costruzione del luogo di culto islamico ha in sé una serie di espliciti significati secolari che sempre ribadiscono la santa competizione dell’Islam per conquistare il mondo. Molte moschee sorgono su antichi templi ebraici e cristiani. Una rivolta contro il politically correct sull’Islam può avvenire ovunque, e la molla non sarà l’intolleranza religiosa: non è nostra, né Svizzera, né europea.
«Il Giornale» del 3 dicembre 2009
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