11 dicembre 2009

Il soldato riluttante

di Vittorio Zucconi
Sta nell'equivoco insidioso tra "pacifico" e "pacifista" la chiave per capire le perplessità e i sarcasmi che hanno accompagnato, in America come nel resto del mondo, la consegna del Nobel per la pace a Barack Obama.
Se il Presidente americano sembra avere tradito le speranze che lui stesso aveva suscitato e avere accettato un riconoscimento che stride con la escalation della guerra in Afghanistan, è perché si vuole ignorare la differenza fondamentale che esiste fra coloro che combattono guerre "per scelta" e coloro che le combattono "per necessità".
È la abissale distanza morale che separa le guerre di Roosevelt in Europa e nel Pacifico, dalle guerre di Johnson e Nixon in Asia, le divisioni di Wilson sacrificate sul fronte francese dalla aggressione nipponica a Pearl Harbor, e che Obama ha riassunto, nell'accettare il premio con modestia ai limiti dell'imbarazzo, in un altro aggettivo chiave: "giusta". Per la nobile sensibilità del pacifista, quella fra "giusta" e "ingiusta" è una distinzione senza una differenza, essendo ogni guerra per definizione il Male assoluto da respingere. Per la responsabilità dell'uomo pacifico e del guerriero riluttante, le armi sono invece l'ultimo ricorso, quando ogni altro tentativo, se fatto seriamente e non soltanto per predisporsi un alibi propagandistico, è fallito.
Nel confondere Obama con Bush, nel mescolare la tragica ideologia della "democrazia da esportare" laddove aggradi al più forte con la amarissima, sofferta scelta di insistere nell'operazione afghana, troppi osservatori dimenticano, forse in malafede, che l'invasione, l'occupazione e le operazioni di controguerriglia in Afghanistan ebbero, e ancora hanno, la piena e formale sanzione dell'Onu, che riconobbe nel regime Talebano e nella metastasi terroristica da esso ospitata, una minaccia per l'umanità, manifestata nell'ignominia delle Due Torri. Fu invece soltanto a cose fatte e decise, dopo la stravagante e inedita formula della "coalizione di chi era disposto a starci", costruita su un cumulo di false prove e di dottrine tagliate su misura, che l'Onu diede a malincuore una copertura agli Stati Uniti, quando invasero e occuparono una nazione governata da un regime abominevole, ma estraneo alle trame del fondamentalismo globale.
Qui si spalanca l'equivoco fra "pacifista" e "pacifico". Se la ideologia del pacifismo fosse accettabile, sarebbe Neville Chamberlain, il premier britannico che non osò fermare Hitler per non spezzare la pace formale in Europa, a meritare il Nobel, e sarebbe invece Winston Churchill, colui che utilizzando ogni arma in proprio possesso, rispose ferocemente all'aggressione tedesca, garantendo così due generazioni di pace e di libertà all'Europa occidentale. Il pacifismo, ben oltre il valore sempre assai discutibile di un premio come questo Nobel che ha coronato discutibili campioni della mitezza come Kissinger, il nordvietnamita Le Duc-Tho o Yasser Arafat, è un lusso che il primo responsabile di una nazione come gli Stati Uniti non si può concedere. Non quando dal sistema di sicurezza collettiva instaurato dopo il 1945, non per volontà americana ma per il risucchio del suicidio europeo, dipende, ieri nella Guerra Fredda, oggi nella guerra subdola e asimmetrica contro il fanatismo armato, la sopravvivenza di chi agli Usa si è affidato. Scoprendosi, come disse un incontestabile leader della sinistra mondiale, Enrico Berlinguer, "più sicuri" da questa parte.
La scelta di accrescere, e non di smobilitare, l'occupazione dell'Afghanistan, lo scontro contro i neo-Taleban risorti grazie al fallimento della strategia adottata da Bush che aveva sprecato consenso e uomini per abbattere Saddam mentre si ricostituiva al Qaeda, l'estensione delle missioni in territorio pakistano - come Obama aveva sempre annunciato di voler fare - potrà rivelarsi catastrofica o vincente, un nuovo Vietnam o almeno una Corea stabilizzata nella sua suddivisione. Ma Obama è sicuramente dentro la storia e la tradizione e la cultura americana, anche se i sondaggi per il momento lo castigano, nell'accettare la tragica necessità della guerra e nello sfuggire, come fecero Wilson, come Roosevelt, come Truman, alla tentazione dell'isolazionismo e dell'autoesclusione da un mondo che non è più separato da comodi oceani.
Obama è l'uomo tranquillo che non vorrebbe battersi, ma non può accettare la violenza, il sopruso e la minaccia alla nazione che gli si è affidata. È il leggendario "Sergente York" interpretato nel 1941 da Gary Cooper, strenuo obbiettore di coscienza e pacifista che, costretto in trincea, impara a uccidere e a sconfiggere il nemico. E sa che la strada per ogni pace, pur effimera, è sempre, nel calvario della storia umana, lastricata dalla guerra. Se quello sarà il risultato, questo Nobel sarà stato ben meritato.
«La Repubblica» dell'11 dicembre 2009

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