Quarant’anni dopo la prima edizione, il poeta ripubblica rielaborata e arricchita la sua versione del classico latino
di Oddone Camerana
Uno spagnolo a Roma. Questi era Marco Valerio Marziale. Un immigrato, dunque, proveniente da Bilbili nel Terraconese, provincia romana, un migrante che visse nella capitale dell’Impero sotto Tito, Domiziano, Nerva e Traiano essendoci arrivato a vent’anni, nel 64 della nostra era. Sennonché, invece di intraprendere la carriera di avvocato sfruttando gli studi compiuti, smanioso com’era di accontentare la sua curiosità per lo spettacolo offerto dalla capitale, si adattò a fare il mestiere del «cliente» dei signori del tempo, posizione subordinata, ma libera e senza responsabilità in virtù della quale, in cambio di cibo e denari, il cliente offriva compagnia e piccoli servizi, nel suo caso epigrammi e poesie d’occasione. Una vita trascorsa per strada, frequentando anticamere affollate, cronista di una umanità senza maschere, tra splendori e miserie, arguzie e lodi, gelosie, eros, adulazioni, feste, stanchezza e corruzioni.
Ma dopo quarant’anni di questa esistenza al centro della città imperiale, anni durante i quali aveva portato alla perfezione l’arte della sua drammaturgia minima, il format dell’epigramma nel quale aveva ridotto il tumulto del gran mondo, Marziale torna a casa, stanco e vecchio, per accontentare finalmente la sua voglia di dormire. Non senza nostalgia della vita passata. «Poiché - come ha osservato Concetto Marchesi - se è vero che la visione e l’alito della ricchezza fanno inquieta la povertà e ansiosa di mutamento o di rovina, è pure innegabile che nessuna umana condizione può come lo splendore delle grandi fortune eccitare il gusto e la fantasia dell’artista». L’edizione einaudiana dei 14 libri di questo autore, più volte ristampata nella versione integrale con testo a fronte di Guido Ceronetti, torna ora in libreria per La Finestra editrice, corredata da alcuni testi di commento, tra cui uno di Carlo Carena e un altro dello stesso Ceronetti. Il quale, oltre a riandare all’eccitazione e al piacere provati nei lontani anni Sessanta, anni impegnati nell’opera di «riscrittura» di Marziale, ricordati nella posizione di un «inginocchiato sulla pietra dura dei linguaggi morti», raccomanda al lettore di imparare il latino. Così, «invece di Ceronetti - ammonisce il medesimo - leggerai Marziale».
La fama di Ceronetti traduttore non ha bisogno di essere ricordata. Il suo lavoro in questo campo, uno dei tanti in cui si è cimentato con successo, è senza dubbio centrale. Riguardando autori latini come Giovenale, Catullo e Marziale e grandi testi biblici come Giobbe, i Salmi e Qohélet, detto lavoro ha la particolarità di unire in un arco voci lontane del mondo pagano antico e voci della tradizione ebraica. La lunga pratica di tradurre autori sia del passato che del presente come quelli contenuti in Come un talismano (Adelphi, 1986) ha inoltre liberato Ceronetti dall’angustia e dai limiti di avere un linguaggio. Ceronetti infatti non usa i termini di un sapere specifico. Confrontandosi con i suoi autori, egli usa parole, le parole della vita, e ogni volta che si misura con un testo nuovo è costretto a partire per il mare aperto. Così accade che, invece di scrivere di Giobbe, Ceronetti imprechi come Giobbe. Lo stesso succede con Marziale. Questo non esclude che egli abbia preferenze e ha ragione Carena quando dice che «è da credere che si sia più divertito a tradurre Marziale che Giovenale» obbedendo a «una impavida dettatura interiore, che più che rispettare compie effrazioni del testo».
Gli orizzonti che impegnano il traduttore di Marziale sono orizzonti vasti, brulicanti, densi di oriente, di superstizioni e di magia. Sotto il suo sforzo, uno alla volta gli scrigni bloccati nella fissità del latino vengono riaperti. Torna alla luce un mondo sterminato, rumoroso, affannato: i banchetti, le mense, gli spettacoli e i circhi, ove i boati, gli orrori e i prodigi, le risse, le fatiche delle orge, le taverne, l’ingolfarsi del traffico, tutto riprende vita nella parola, come i riti, i raggiri, le truffe, le malattie, le perversioni dell’amore, gli incanti delle confidenze, le angosce del sesso, gli affanni dell’età. Come Marziale, Ceronetti è o è stato un pedone di città. «Senza la città - dice - l’uomo di Marziale non esisterebbe. Da questo si può capire che lo invidio, perché sono anch’io un pedone e la città mi manca». Ed è curioso come, a poche settimane dalla rinnovata uscita del suo Marziale, Ceronetti abbia pubblicato sulla Stampa del 4 aprile una specie di epigramma che elenca le tante cose che non ci sono più, cose per lo più di città di ieri e di oggi, simbolicamente collocate in una delle metropoli del nostro tempo, la Parigi tra il 1930 e il 1950.
Non va poi dimenticato come l’avvicinarsi dei suoi ottant’anni gli abbia suggerito, da grande comunicatore della sua protesta e delle sue nostalgie, di pubblicare, sempre sulla Stampa, questa volta il 16 maggio, una deliziosa letterina in cui nega, affermandola però, l’opportunità di festeggiare «l’anniversario di una vecchiaia avanzata». Il fatto è che, dopo l’incontro al torinesissimo Massimo per ricordare il «suo» cinema, dopo l’intervista in simultanea con l’altro neo-ottantenne torinese Carlo Fruttero, dopo la lettura dei suoi versi in una gelida sala condizionata della Fiera del Libro dove è comparso incappottato come un novello Cardarelli, dopo il Marziale di cui in questo articolo, c’è da aspettarsi altre sorprese. Non è da tutti, infatti, come sa fare Ceronetti, di saper divertire il prossimo rimanendo se stesso.
Ma dopo quarant’anni di questa esistenza al centro della città imperiale, anni durante i quali aveva portato alla perfezione l’arte della sua drammaturgia minima, il format dell’epigramma nel quale aveva ridotto il tumulto del gran mondo, Marziale torna a casa, stanco e vecchio, per accontentare finalmente la sua voglia di dormire. Non senza nostalgia della vita passata. «Poiché - come ha osservato Concetto Marchesi - se è vero che la visione e l’alito della ricchezza fanno inquieta la povertà e ansiosa di mutamento o di rovina, è pure innegabile che nessuna umana condizione può come lo splendore delle grandi fortune eccitare il gusto e la fantasia dell’artista». L’edizione einaudiana dei 14 libri di questo autore, più volte ristampata nella versione integrale con testo a fronte di Guido Ceronetti, torna ora in libreria per La Finestra editrice, corredata da alcuni testi di commento, tra cui uno di Carlo Carena e un altro dello stesso Ceronetti. Il quale, oltre a riandare all’eccitazione e al piacere provati nei lontani anni Sessanta, anni impegnati nell’opera di «riscrittura» di Marziale, ricordati nella posizione di un «inginocchiato sulla pietra dura dei linguaggi morti», raccomanda al lettore di imparare il latino. Così, «invece di Ceronetti - ammonisce il medesimo - leggerai Marziale».
La fama di Ceronetti traduttore non ha bisogno di essere ricordata. Il suo lavoro in questo campo, uno dei tanti in cui si è cimentato con successo, è senza dubbio centrale. Riguardando autori latini come Giovenale, Catullo e Marziale e grandi testi biblici come Giobbe, i Salmi e Qohélet, detto lavoro ha la particolarità di unire in un arco voci lontane del mondo pagano antico e voci della tradizione ebraica. La lunga pratica di tradurre autori sia del passato che del presente come quelli contenuti in Come un talismano (Adelphi, 1986) ha inoltre liberato Ceronetti dall’angustia e dai limiti di avere un linguaggio. Ceronetti infatti non usa i termini di un sapere specifico. Confrontandosi con i suoi autori, egli usa parole, le parole della vita, e ogni volta che si misura con un testo nuovo è costretto a partire per il mare aperto. Così accade che, invece di scrivere di Giobbe, Ceronetti imprechi come Giobbe. Lo stesso succede con Marziale. Questo non esclude che egli abbia preferenze e ha ragione Carena quando dice che «è da credere che si sia più divertito a tradurre Marziale che Giovenale» obbedendo a «una impavida dettatura interiore, che più che rispettare compie effrazioni del testo».
Gli orizzonti che impegnano il traduttore di Marziale sono orizzonti vasti, brulicanti, densi di oriente, di superstizioni e di magia. Sotto il suo sforzo, uno alla volta gli scrigni bloccati nella fissità del latino vengono riaperti. Torna alla luce un mondo sterminato, rumoroso, affannato: i banchetti, le mense, gli spettacoli e i circhi, ove i boati, gli orrori e i prodigi, le risse, le fatiche delle orge, le taverne, l’ingolfarsi del traffico, tutto riprende vita nella parola, come i riti, i raggiri, le truffe, le malattie, le perversioni dell’amore, gli incanti delle confidenze, le angosce del sesso, gli affanni dell’età. Come Marziale, Ceronetti è o è stato un pedone di città. «Senza la città - dice - l’uomo di Marziale non esisterebbe. Da questo si può capire che lo invidio, perché sono anch’io un pedone e la città mi manca». Ed è curioso come, a poche settimane dalla rinnovata uscita del suo Marziale, Ceronetti abbia pubblicato sulla Stampa del 4 aprile una specie di epigramma che elenca le tante cose che non ci sono più, cose per lo più di città di ieri e di oggi, simbolicamente collocate in una delle metropoli del nostro tempo, la Parigi tra il 1930 e il 1950.
Non va poi dimenticato come l’avvicinarsi dei suoi ottant’anni gli abbia suggerito, da grande comunicatore della sua protesta e delle sue nostalgie, di pubblicare, sempre sulla Stampa, questa volta il 16 maggio, una deliziosa letterina in cui nega, affermandola però, l’opportunità di festeggiare «l’anniversario di una vecchiaia avanzata». Il fatto è che, dopo l’incontro al torinesissimo Massimo per ricordare il «suo» cinema, dopo l’intervista in simultanea con l’altro neo-ottantenne torinese Carlo Fruttero, dopo la lettura dei suoi versi in una gelida sala condizionata della Fiera del Libro dove è comparso incappottato come un novello Cardarelli, dopo il Marziale di cui in questo articolo, c’è da aspettarsi altre sorprese. Non è da tutti, infatti, come sa fare Ceronetti, di saper divertire il prossimo rimanendo se stesso.
«La Stampa» del 24 maggio 2007
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