05 luglio 2007

Riusciamo a far meglio della 194?

Una legge da applicare meglio e in parte da superare
di Eugenia Roccella
Sono passati più di due mesi dalla morte del piccolo Tommaso all'ospedale Careggi di Firenze. I medici gli avevano diagnosticato un'atresia dell'esofago, malformazione rivelatasi poi inesistente, ma che comunque avrebbe potuto essere operata alla nascita con alte probabilità di successo. Dopo un'odissea infinita di indagini, ecografie e pareri tecnici, senza che nessun medico realmente prendesse in carico le angosce e i dubbi dei genitori, la coppia aveva ceduto all'idea dell'aborto, nonostante la gravidanza fosse ormai alla 23esima settimana. Il bimbo però era nato vivo, come accade spesso negli aborti tardivi; e anche se è durata solo pochi giorni, la sua semplice, fisica esistenza, ha rappresentato uno scandalo. Se Tommaso fosse morto subito, come era previsto, o se la malformazione ci fosse stata, il caso non sarebbe nemmeno finito sui giornali. Ma la sua breve lotta per sopravvivere è stata un potente atto d'accusa contro l'uso dell'aborto come setaccio, rozzo ma efficace, per selezionare il figlio sano. Il presidente del Comitato nazionale di bioetica francese, Didier Sicard, ha spiegato in un'intervista a Le Monde come le diagnosi prenatali servano a identificare e scartare il prodotto difettato, il bimbo che magari soffre di un problema modesto o correggibile, per esempio una malformazione del palato o del piede. Accade così che desideriamo costruire una cultura dell'accoglienza e poi accettiamo l'eliminazione sistematica dei bimbi "imperfetti"; o che leggiamo compiaciuti articoli sui Down intitolati «La prima cura: abbattere i pregiudizi» (Repubblica del 16 maggio), senza ricordare che i bimbi Down vengono ormai quasi sempre abortiti. Basta osservare con un po' di attenzione che cosa accade in tanti ospedali italiani per verificare che la legge 194 sull'interruzione di gravidanza, la stessa che tutti si affannano a difendere e a dichiarare intoccabile, è un vero colabrodo: in parte ancora inattuata, in parte male applicata, in parte violata. I primi due ar ticoli della legge, che riguardano la prevenzione, in particolare gli aiuti per le donne che vorrebbero tenere il figlio, sono da sempre lettera morta. In tutti questi anni solo l'ostinazione generosa dei volontari del Centri di aiuto alla vita ha permesso a tante donne di esercitare la libertà di essere madri anche in condizioni di difficoltà. L'articolo 6, che consente l'aborto oltre i tre mesi solo in presenza di «rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna», viene interpretato con larghezza, mentre l'articolo 7, che vieta l'aborto quando esista una possibilità di sopravvivenza del feto (a meno che non ci sia pericolo di vita per la madre), è spesso disatteso. Inoltre, in sette regioni italiane si usa illegalmente la pillola abortiva Ru486, senza le più elementari garanzie per la salute delle donne, con protocolli fai-da-te, e ignorando l'invito del Consiglio superiore di sanità a ricoverare le pazienti fino a completamento dell'aborto. Di fronte a tutto questo, dobbiamo continuare a far finta di niente? Trent'anni sono molti, per una legge come la 194: sono cambiate le donne, sono cambiati i motivi per cui si interrompe una gravidanza, sono cambiate le tecniche e l'approccio dei medici al problema. Ci vorrebbe uno sforzo comune, aldilà delle antiche divisioni, per non svuotare di senso le tutele offerte dalla 194, e magari stilare linee guida che tengano conto delle nuove realtà. Ministro Turco, che ne pensa?
«Avvenire» del 23 mahhio 2007

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