04 luglio 2007

POTERI DI CARTA Le battaglie che fanno testo

di Luca Doninelli
La letteratura è gioco o impegno? I relatori si contraddicono ma ci sono applausi per tutti
La geografia d’Italia non riguarda solo i chilometri, le strade e le contrade. Non è solo paesaggio visibile, luogo, longitudine e latitudine. Esiste anche un’Italia che è la stessa dappertutto, e che se cambia cambia dappertutto.
C’è quella che non cambia mai, di cui le cronache ci forniscono, quotidianamente, il resoconto: dal cattivo governo delle città alle pensioni che non funzionano alla burocrazia soffocante, eccetera eccetera. C’è poi quella che, per non cambiare mai, deve comunque modificarsi.
È l’Italia dei poteri, che per mantenersi deve muoversi sempre, ristrutturarsi, darsi nuovi nomi, vestirsi di nuove facce. Come già scrisse l’anonimo - per quanto nominatissimo - autore del Gattopardo. Anonimo come anonimi sono tutti gli autoritratti di un Paese. E Il Gattopardo l’abbiamo scritto noi tutti, ma senza volerlo, l’abbiamo fatto e basta.

Mi trovo in una città qualunque per assistere a un incontro letterario, e sono in compagnia di uno scrittore per il quale critici e colleghi fanno follie, ma nel quale gli editori non credono, perciò è sempre depresso e io devo tirarlo su. Per lui questo incontro è un motivo di sofferenza, e lo capisco. Io invece sono contento perché sono venuto ad ascoltare Roberto Saviano, un ragazzo di Napoli, classe 1979, che ha scritto un libro bellissimo - lo conosciamo tutti, è Gomorra, premio Viareggio, settecentomila copie vendute - e sta pagando a caro prezzo il fatto di averlo scritto: ha ventotto anni, e gira sotto scorta.
Gomorra è, per alcuni aspetti, il nuovo Gattopardo. Gli manca forse la cattiveria e, con essa, l’acutezza antropologica del Gattopardo, ma in compenso commuove per la curiosità, per l’ordine, per l’esattezza e, insieme, per lo strazio e la pietà che comunica al lettore - me per primo. Saviano, oltre che scrittore, è uno storico di razza. La sua prosa è la prosa dello storico, rivisitata dall’energia dello scrittore. Ma il bello del suo libro è che non mette (non sa mettere, non può mettere) un muro divisorio tra la persona del narratore e la materia narrativa. In questo modo la pietà e l’orrore non ci vengono semplicemente dalle cose raccontate - molte delle quali a noi già note - ma anche dalla capacità di sacrificio, dal coraggio, dall’amore che lo scrittore mette in ogni istante della sua ricerca sul campo e della sua scrittura. Questa capacità di spendersi fino all’ultima goccia di sangue è il segreto di Gomorra.
Ma la mia non è una recensione. Dico queste cose perché io in genere agli incontri letterari non vado, mentre a questo ci sono andato. E volevo spiegare il perché. È il paesaggio umano a interessarmi.
Guardo e ascolto Saviano mentre parla, e intanto prende corpo in me un sospetto che avevo già alla lettura del suo libro, e cioè che lui non sappia fino in fondo quello che ha fatto scrivendo Gomorra. Tomasi di Lampedusa lo sapeva, conosceva il perimetro della sua metafora italiana, Saviano non lo sa - forse ha scritto questo libro per poterlo sapere.
Fin dalle prime pagine del suo libro, Saviano ci spiega che la camorra è cambiata: non è più un’organizzazione ramificata facente capo a un’unica cupola, ma una sorta di federazione di boss indipendenti l’uno dall’altro, ciascuno dei quali ha il suo punto di forza in un certo spazio. Queste parole descrivono solo la camorra o ci parlano anche di altro? La letteratura non è un gioco! grida lo scrittore dal suo pulpito, chiamando dietro di sé un coro che va da Céline alla Politkovskaja alla gente disperata di Scampìa e Secondigliano, ai quali del gioco della letteratura può legittimamente non importare nulla.
Alla fine, applausi interminabili. Io guardo questo pubblico, e mi domando: davvero tutta questa gente è disposta a sostenere l’appello di Saviano? Cosa dovranno fare, adesso, affinché la montagna non partorisca il solito topolino?
Poi, prende la parola un altro scrittore molto meno giovane di Saviano, uno scrittore «di genere», ma di un genere nobile, e non ha nessun problema a dire di riconoscersi nelle parole di Saviano, ché anche lui fa lo stesso, usa lo stesso procedimento, mentre è chiaro come il sole che fa l’esatto contrario. Saviano fa letteratura trattandola come una realtà (e che realtà!), mentre questo tratta la realtà come se fosse letteratura. Eppure gli applausi scrosciano copiosi. Poi interviene un terzo e spiega che Saviano nel suo libro applica la tecnica del noir, e io penso che questo tizio deve aver letto solo noir in vita sua per dire una cosa simile (basterebbe sapere che Saviano è amico di Goffredo Fofi per immaginare percorsi un po’ più articolati). Comunque sia, applausi anche per lui.
Durante tutto questo tempo non ho perso di vista, per viziaccio professionale, alcune persone della sua e di altre case editrici. Anche loro, come tanti, sono lì a scuotere la testa in segno di approvazione. O perbacco, dico tra me: adesso Tizio, Caio e Sempronio si sono convertiti di colpo alla letteratura d’impegno? Dopo due o tre lustri in cui hanno fatto altro, ora finalmente è giunto l’interprete delle loro più segrete aspirazioni editoriali?
D’un tratto mi sembra di capire cosa manca in tutta questa scena: manca il coup de théâtre che Gogol’ piazzò verso la fine del Revisore, quando il Podestà, girandosi verso il pubblico che ride della sua figuraccia, lo gela con queste parole: «È di voi stessi che state ridendo!». Allo stesso modo, se Saviano conoscesse il perimetro della sua metafora, avrebbe detto al pubblico plaudente: «Perché mi applaudite? È di voi che sto parlando!».
*** *** ***
C’è chi continua a parlare di cultura italiana in mano alla sinistra. È un ragionamento morto, che non conduce più da nessuna parte. Non esiste più una sinistra che faccia dell’egemonia culturale il suo punto di forza, perché non esistono più disegni centralizzati. Proprio come la camorra, tutto il mondo - da quello finanziario a quello culturale - si è parcellizzato in una sorta di federazione di piccoli poteri che sono o estremamente locali (festival, kermesse, premi, spazi fissi sui giornali) o estremamente globalizzati (Mtv, Google, YouTube ecc.), ma astratti, virtuali, senza la prosopopea dei grandi imperi economici di una volta.
Negli anni Settanta, mentre si paventava l’onnipotenza delle grandi Multinazionali (in particolare del petrolio e delle comunicazioni), il filosofo Michel Foucault già spiegava che la forza del potere sta nella sua capacità di parcellizzarsi infinitamente, penetrando qualsiasi corpo, e producendo sapere. Per lui «potere» e «sapere» erano indissolubilmente uniti. Oggi assistiamo al compiersi delle parole di Foucault. Esse non hanno portato alla conclusione che «tutto è politica» bensì al suo opposto.
Chi volesse oggi combattere una presunta egemonia culturale attraverso la politica farebbe una ben misera figura. Quando i grandi progetti tramontano, resta l’antropologia dei soggetti: restano cioè i comportamenti che quei disegni hanno determinato, talora in modo congruo, talora invece nella forma di un’eterogenesi dei fini. È su quei comportamenti che si combatte la nuova battaglia. Leggendo Gomorra, mi sono detto più volte che la sola differenza tra me e i camorristi sta nel fatto che io sono di Milano e loro di Scampìa o di Secondigliano.
Ma la società dei lettori di cui ha bisogno l’editoria non può accettare questa realtà. Non può accettare le ferite definitive. È una società che si basa non sui contenuti dei libri, ma sul Libro come tale. Per questo ogni anno, a Torino, si celebra la kermesse, la santa messa della Fiera. È il Libro che deve continuare a vivere. Ieri erano libri-giocattoli, oggi sono libri tragici, ma poi torneranno i giocattoli: speriamo. Anche perché la gente legge sempre meno.
All’uscita, mentre parlo con l’amico geniale ma sfortunato, mi passa accanto un famoso editor, a me molto simpatico, mi riconosce prima che io abbia riconosciuto lui, e mi saluta. E il sorriso che m’indirizza, girandosi, non visto da amici e colleghi, è inequivocabile: ha da passà ’a nuttata, dice quel sorriso, ed è questo - ora capisco - il solo, vero avvenimento della serata.
«Il Giornale» del 13 maggio 2007

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