In 10 anni 40% in più di divorzi
di Eugenia Roccella
Chi, nei dibattiti sui Dico e sulla manifestazione del 12 maggio, ci indicava come modello di civiltà i Paesi del Nord Europa, sarà contento: in Italia, secondo gli ultimi dati, aumentano i divorzi e le separazioni. Certo, non siamo ancora alle cifre di Paesi come la Svezia (che detiene il record europeo dei divorzi, insieme a quello delle madri sole), la Norvegia, l'Inghilterra, la Francia o il Belgio, anzi, a dire la verità, siamo ancora agli ultimi posti. Però il tasso di incremento fa ben sperare chi desidera una rimonta: i divorzi sono cresciuti del 22,4% rispetto al 2000, e del 40,6% rispetto al 1996. Se ci sforziamo di produrre politiche mirate, forse, nel giro di qualche decennio, riusciremo a raggiungere i livelli delle nazioni europee più avanzate...
Strano Paese, il nostro. Dopo cinquant'anni di trascuratezza, in cui abbiamo contato sulla solidità della famiglia italiana senza fare nulla per alleviarne i compiti, finalmente si costituisce un Ministero ad hoc. Appena in tempo, perché siamo in una situazione di urgenza. La denatalità è diventata un fattore di crisi, che mette a repentaglio l'equilibrio del sistema pensionistico; eppure le donne vorrebbero più figli di quelli che riescono a fare, e il divario tra il desiderio di maternità e la sua realizzazione è ormai un problema di libertà. Inoltre, sulle famiglie (e in particolare sulle donne) pesa in modo sproporzionato il carico di anziani e malati, oltre che la cura e l'educazione dei figli: lo Stato dà poco e chiede tanto, non offre un welfare a misura di famiglia (per esempio l'assistenza domiciliare) ma nemmeno i tradizionali servizi sociali (come un numero sufficiente di asili nido).
Le nazioni dove ci sono più bambini sono quelle in cui il part time è un diritto, in cui la conciliazione tra tempi del lavoro domestico ed extradomestico è un problema che la politica prende sul serio, mentre da noi queste cose sembrano miti irraggiungibili; di equità fiscale non si parla, e non avere figl i, considerando che ogni bimbo riduce il reddito familiare del 20%, sta diventando un vero affare.
Invece di dare la priorità alle politiche per la famiglia, si è ritenuto che la misura più necessaria fosse il riconoscimento istituzionale delle coppie di fatto, perché il nostro Paese non poteva essere il fanalino di coda dell'Europa in questa "battaglia di civiltà". Ricordiamo però che in molte delle nazioni che ci vengono portate ad esempio si sono fatti da tempo forti investimenti sulla natalità: forse, nello sforzo di imitare la Svezia o la Francia, si poteva cominciare da qui, dalle "audaci politiche familiari" che il Forum delle famiglie insistentemente chiede da anni.
Invece siamo stati costretti a scendere in piazza, per dimostrare che le famiglie esistono, che sono pacifiche e pazienti, ma non più disposte a essere ignorate. Oggi la classe politica deve dirci se considera un bene che la famiglia sia stabile, e che la coppia prenda, attraverso il matrimonio, impegni duraturi. Deve dirci se a fronte dei doveri che si assumono sposandosi si ha accesso anche a diritti che non siano solo nominali, che siano sostenuti da scelte politiche importanti. Deve dirci se considera l'aumento dei divorzi un segnale di rischio o un elemento di modernizzazione, la tappa intermedia verso una società in cui la famiglia si declina solo al plurale.
Strano Paese, il nostro. Dopo cinquant'anni di trascuratezza, in cui abbiamo contato sulla solidità della famiglia italiana senza fare nulla per alleviarne i compiti, finalmente si costituisce un Ministero ad hoc. Appena in tempo, perché siamo in una situazione di urgenza. La denatalità è diventata un fattore di crisi, che mette a repentaglio l'equilibrio del sistema pensionistico; eppure le donne vorrebbero più figli di quelli che riescono a fare, e il divario tra il desiderio di maternità e la sua realizzazione è ormai un problema di libertà. Inoltre, sulle famiglie (e in particolare sulle donne) pesa in modo sproporzionato il carico di anziani e malati, oltre che la cura e l'educazione dei figli: lo Stato dà poco e chiede tanto, non offre un welfare a misura di famiglia (per esempio l'assistenza domiciliare) ma nemmeno i tradizionali servizi sociali (come un numero sufficiente di asili nido).
Le nazioni dove ci sono più bambini sono quelle in cui il part time è un diritto, in cui la conciliazione tra tempi del lavoro domestico ed extradomestico è un problema che la politica prende sul serio, mentre da noi queste cose sembrano miti irraggiungibili; di equità fiscale non si parla, e non avere figl i, considerando che ogni bimbo riduce il reddito familiare del 20%, sta diventando un vero affare.
Invece di dare la priorità alle politiche per la famiglia, si è ritenuto che la misura più necessaria fosse il riconoscimento istituzionale delle coppie di fatto, perché il nostro Paese non poteva essere il fanalino di coda dell'Europa in questa "battaglia di civiltà". Ricordiamo però che in molte delle nazioni che ci vengono portate ad esempio si sono fatti da tempo forti investimenti sulla natalità: forse, nello sforzo di imitare la Svezia o la Francia, si poteva cominciare da qui, dalle "audaci politiche familiari" che il Forum delle famiglie insistentemente chiede da anni.
Invece siamo stati costretti a scendere in piazza, per dimostrare che le famiglie esistono, che sono pacifiche e pazienti, ma non più disposte a essere ignorate. Oggi la classe politica deve dirci se considera un bene che la famiglia sia stabile, e che la coppia prenda, attraverso il matrimonio, impegni duraturi. Deve dirci se a fronte dei doveri che si assumono sposandosi si ha accesso anche a diritti che non siano solo nominali, che siano sostenuti da scelte politiche importanti. Deve dirci se considera l'aumento dei divorzi un segnale di rischio o un elemento di modernizzazione, la tappa intermedia verso una società in cui la famiglia si declina solo al plurale.
«Avvenire» del 27 maggio 2007
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