05 luglio 2007

Bobbio: troppo buono con i rossi

Fu vera subalternità culturale? Sbarberi: "Le sue critiche hanno fatto bene alla sinistra"
di Luigi La Spina
Nascono dalla stessa famiglia, ma subito si dividono in due rami ferocemente avversari. Liberali e comunisti, come cugini-rivali, si combattono per tutto il Novecento. Alla fine del secolo, i primi stravincono e si moltiplicano, persino con una discendenza così allargata da risultare sospetta. Gli altri quasi si estinguono e i pochi sopravvissuti o si rifugiano, silenti e nostalgici, nelle catacombe del ricordo o si agitano freneticamente senza una meta precisa, immemori del passato e smarriti nel futuro. Chiediamo a Franco Sbarberi, docente di Filosofia politica e organizzatore dell’importante convegno che si apre oggi a Torino sul comunismo nella riflessione liberale e democratica del Novecento, quale sia il motivo e l’attualità di un bilancio che la storia sembra aver già definitivamente chiuso.
«Oltre all’interesse storiografico per cui si cerca di tracciare, per la prima volta in Europa, una mappa complessiva delle posizioni che il movimento liberale e democratico ha assunto nei confronti della teoria e della pratica comunista, c’è un’esigenza indiretta di chiarificazione politica. Tutti o quasi, in Italia, si dichiarano liberali e coloro che si definiscono comunisti hanno formato due diversi partiti. Ma le parole liberalismo e comunismo sono spesso usate impropriamente. Un’analisi, serena e documentata, del rapporto novecentesco tra queste due ideologie politiche può chiarire che nascono entrambe dallo stesso filone illuminista e razionalista del Settecento, sia pure con sviluppi ed esiti diversi».
Nel nostro paese, però, spesso la storia viene utilizzata per far propaganda politica, per istruire processi, per esercitare vendette.
«Sì, l’uso politico della storia è ampiamente praticato in Italia. C’è chi, da sinistra, ha rimosso il proprio passato o lo ripropone dogmaticamente; e chi, da destra, non riconosce che anche il liberalismo e la democrazia moderna si sono formati in contesti antagonistici, sia in Inghilterra (dove nel Seicento viene decapitato Carlo I) sia negli Stati Uniti (con la rivolta contro la madrepatria e poi con una guerra civile sanguinosa) sia in Francia (con i moti rivoluzionari del 1789 e del 1793). Pensare che l’idea e la pratica della violenza rivoluzionaria appartengano soltanto alla tradizione comunista è un non senso. Inoltre, dietro le bandiere di un liberalismo aggressivo, vengono oggi ostentate antiche contrapposizioni, apparentemente per polemizzare con lo spettro del comunismo, ovunque sparito in Europa, in realtà per nascondere all’opinione pubblica ben altri conflitti, nati sul terreno degli interessi e della concentrazione dei poteri».
La famiglia liberale e democratica è vasta, ma c’è un ramo, quello azionista, a cui, proprio sul comunismo, viene fatto un duro rimprovero: quello di una subalternità culturale. Un atteggiamento severo sul totalitarismo fascista e nazista e, invece, indulgente nei confronti di quello comunista. Una critica che fu rivolta a Norberto Bobbio, soprattutto da Ernesto Galli della Loggia, con toni anche molto aspri.
«L’accusa nei confronti degli azionisti non può riguardare né la loro critica, severissima, alla filosofia marxista della storia, né il loro giudizio sull’esito catastrofico dei regimi dell’Est, semmai il loro atteggiamento sul comunismo italiano. Si trascura però il fatto che essi avevano di fronte un dato incontrovertibile: mentre all’Est i comunisti hanno creato regimi liberticidi e oppressivi, nei paesi in cui non si sono insediati al potere hanno sempre contribuito a sostenere lotte di emancipazione sociale e di liberazione. Creando, con questo, i presupposti di alleanze credibili con la sinistra democratica e liberale. D’altra parte, gli azionisti hanno anche riconosciuto che Marx e il marxismo sollevavano questioni ineludibili».
Questioni attuali anche oggi?
«Certo. Per esempio, la tendenza alla mercificazione universale del lavoro nelle società capitalistiche, denunciata anche dal liberalismo anglosassone. Oppure l’involuzione imperialistica degli Stati che hanno scatenato le guerre del Novecento, già segnalata da Hobson in Inghilterra e dalla socialdemocrazia europea. O ancora, la debolezza teorica delle tesi liberiste sull’autoregolamentazione del mercato, riconosciuta tra le due guerre anche da Keynes e, negli anni Quaranta, da Beveridge».
Ma altri rami della famiglia liberaldemocratica furono più preveggenti sulle contraddizioni insanabili del comunismo.
«È vero. Coloro che Dahrendorf chiama “erasmiani puri” (come Popper, Aron, Berlin) hanno, per così dire, bucato il futuro, comprendendo che il comunismo non era riformabile, mentre gli azionisti (non diversamente da molti liberal anglosassoni) gli hanno concesso maggior credito, proprio in virtù dei bisogni sociali che il movimento comunista aveva individuato e cercato di soddisfare. D’altra parte, il comunismo italiano si è largamente autoriformato anche grazie alla critica azionista. Lo riconosce esplicitamente Giorgio Napolitano nella sua recente autobiografia, quando consente con Bobbio che il comunismo realizzato è stato una tragica “utopia capovolta”».
«La Stampa» del 23 maggio 2007

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