29 agosto 2015

Da Orazio a Montaigne questa scuola da rifare

Eterno dibattito
di Roberto Carnero
Ultimamente gli insegnanti si sono lamentati molto. L’iter che ha portato al varo della legge sulla "Buona scuola" ha infatti messo a dura prova la loro pazienza: non tanto per i contenuti della riforma in sé, discutibili ma non tutti negativi, quanto per la sordità del governo alla richiesta di un confronto aperto, attraverso le rappresentanze legittimate a condurlo, con chi nella scuola lavora. Da qui le proteste, i cortei, gli scioperi. Questa è la cronaca degli ultimi mesi, ma non bisogna pensare che gli insegnanti si lamentino solo da ieri. Possiamo anzi dire che è da tanto tempo che non mancano loro le ragioni per farlo: stipendi bassi, lunghi anni di precariato prima dell’ingresso in ruolo, studenti svogliati e maleducati, famiglie poco propense a un’alleanza educativa con la scuola, decadimento della qualità della didattica concretamente praticabile, ecc.
L’insegnante e scrittrice Paola Mastrocola lamenta da tanti anni nei suoi libri (a partire dal primo, La gallina volante, uscito 15 anni fa) molte di queste cose. Ma anche risalendo indietro nel tempo, alle origini della scuola unitaria, vediamo che i motivi di disagio e di protesta erano numerosi. Gli ambienti erano malsani (il problema dell’edilizia scolastica fatiscente non è dunque nuovo) e le classi molto numerose: 54 sono gli allievi del maestro Perboni in Cuore (1886) di Edmondo De Amicis, altro che "classi-pollaio"!
Spesso maestri e maestre avevano genitori a carico, il che li spingeva a integrare il misero salario con straordinari (insegnando, ad esempio, nelle scuole serali agli adulti, come fa lo stesso Perboni) e lezioni private: la "maestrina dalla penna rossa" in Cuore mantiene con il proprio lavoro la madre e suo fratello.
Altro punctum dolens era quello degli stipendi, spesso più bassi di quelli degli inservienti. Anche le pensioni erano basse: così i maestri (come quello del padre di Enrico Bottini e quello di un’altra opera deamicisiana del 1890, Romanzo d’un maestro, che insegna da 48 anni!) sono portati a rimanere in servizio fino a tarda età, spesso, letteralmente, a morire in cattedra. Destò molto scalpore il caso della maestra Italia Donati, che il 1° giugno 1886 si suicidò in seguito alle calunnie che avevano colpito la sua onorabilità: a quella tragica vicenda si ispirerà Matilde Serao per il suo racconto Come muoiono le maestre (1886).
Per questi e altri motivi, sullo sfondo delle carriere dei docenti, si staglia uno scenario di tristezza e di desolazione.
Considerando tali situazioni, si comprende come il lamento dell’insegnante sia potuto assurgere, nei libri, a un vero e proprio topos letterario. E a esso è ora dedicato un volume, intitolato appunto Il lamento dell’insegnante, dello scrittore e docente Alessandro Banda (Guanda, pp. 170, euro 15,50, in libreria dal 27 agosto). Che inizia con il lamento autobiografico dell’autore sul contesto scolastico in cui da vent’anni si trova a operare: alunni splendidi (anzi, alunne splendide, perché si tratta di un liceo delle scienze umane, a netta predominanza femminile), ma colleghe terribili (anche qui al femminile perché, si sa, l’insegnamento è ormai una professione praticamente riservata alle donne), prive di ogni senso di solidarietà di corpo. Per proseguire poi con «una breve e del tutto soggettiva storia del lamento che la classe docente intona da millenni». Infatti il lungo, vivace, interessantissimo excursus tracciato dal professor Banda risale addirittura a Orbilio Pupillo, il manesco maestro di Orazio (plagosus, lo definisce il poeta in latino, da plaga, "ferita"), perennemente insoddisfatto dei suoi allievi e ancor più dai loro troppi ambiziosi genitori, come altrettanto insoddisfatti saranno gli insegnanti della scuola tecnica di Lubecca frequentata da Hanno Buddenbrook. «Quegli studenti tedeschi di fine Ottocento – scrive Banda – sapevano anche essere del tutto indisciplinati e irrispettosi, esattamente come quelli che, nella Cartagine del quarto secolo dopo Cristo, rendevano la vita impossibile ad Agostino, costringendolo al trasferimento». Giovenale brontolava per il fatto che un insegnante guadagnava in un anno quello che un atleta del circo guadagnava in un giorno: sostituendo "calciatore" ad "atleta del circo" l’osservazione è valida ancora oggi.
Seneca e Petronio sostenevano che la scuola era slegata dalla vita, stesso appunto (millecinquecento anni dopo) di Rabelais e Montaigne. Rabelais pone come maestro di Gargantua un sofista che per insegnare al suo allievo l’alfabeto, da recitarsi a memoria anche al contrario, partendo dalla zeta, ci mise cinque anni e tre mesi, per poi passare alla lettura di inutili volumi intitolati Spartivento, Facidanno, Pataccone: precoce polemica contro i manuali scolastici. Montaigne, invece, nel lamentarsi della pedanteria di certi maestri del suo tempo, si esprimeva «per la vita contro la formalizzazione, per la libera creatività individuale contro una rigida regolamentazione precettistica, per la coltivazione delle singolarità contro l’appiattimento normativo unificante».
Analoga denuncia, da Orazio a Shakespeare e a Molière, riguarda un tema oggi assai discusso, quello della valorizzazione del merito, che veniva, allora come ora, misconosciuto e trascurato. «Pare insomma – sintetizza Banda – che negli anni, anzi nei secoli e millenni, non muti nulla, o ben poco» e che la scuola sia una sorta di "foresta pietrificata" o, se preferite, una "selva oscura", che il suo libro ci aiuta però ad attraversare, in una serie di percorsi letterari per capire gli insegnanti di ieri e quelli di oggi. E soprattutto per sondare le ragioni a causa delle quali si sono lamentati e continuano - ahinoi - a farlo.
«Avvenire» del 24 agosto 2015

28 agosto 2015

Embrione umano, il diritto riaffermato

La sentenza della Corte di Strasburgo
di Francesco Ognibene
La vita umana non è un oggetto. È talmente facile a constatarsi che è capace di osservarlo anche un bambino. Anzi, uno sguardo privo delle complicazioni adulte – filosofiche o giuridiche – riconosce a prima vista quel che un essere umano è, sin da quando inizia a pulsare in lui la vita. E rifiuta d’istinto ogni contraffazione che induca a dire qualcosa di diverso da quanto l’esperienza detta ai sensi e all’intelletto.
La realtà s’impone a chi non ha scelto di voltare la testa dall’altra parte. Ma non sempre riesce a spuntarla quando s’intromettono talune sofisticate costruzioni di legge, non più scudo del più fragile ma strumento di sopraffazione, che sotto la tutela di argomenti nobili (autodeterminazione, libertà, diritti individuali) depistano l’osservazione dei fatti fino a rovesciarne la stessa percezione. E a depredare la persona della sua dignità nativa volgendola in una cosa consegnata nelle mani del più astuto.
Ma una vita umana resta sempre un dato di fatto delicato e insieme potente che oltrepassa la materia, collocandosi in una categoria da sottrarre alle regole della produzione, del mercato, della proprietà. È vita, e basta. E non può essere generata per assoggettarla alla disponibilità altrui. Che la cultura oggi prevalente discuta alla radice questo assunto fino a stravolgerlo è il segno di quanta strada spetti a noi tutti compiere a ritroso – e attrezzare ex novo, come una via alpina lasciata sgretolare – per recuperare la decisiva consapevolezza di chi siamo.
Probabilmente la Corte europea dei diritti dell’uomo non s’è posta il problema sino a questo livello quando ieri – contro molti pronostici, visti alcuni precedenti su grandi nodi etici, ma in coerenza profonda col diritto fondamentale che vuol affermare e far crescere – ha sentenziato che l’embrione umano creato in laboratorio e parcheggiato nel congelatore non può essere utilizzato per altri fini che non siano quelli per i quali è stato concepito: svilupparsi, nascere, diventare un figlio.
Ma anche se la giurisprudenza dei giudici del Consiglio d’Europa conosce pronunciamenti altalenanti, come più volte abbiamo documentato, ieri la Corte di Strasburgo ha scritto una pagina decisiva per sottrarre la vita umana agli artigli dell’industria che la vorrebbe disponibile e passiva come una cavia, e anche più di essa, vista la diffusa ostilità verso il ricorso agli animali per test su farmaci e terapie.
Il passaggio era complesso: a chiedere che si consentisse l’uso di embrioni a scopo di ricerca era infatti una donna italiana che – privata del compagno ucciso nel sanguinoso attentato di Nasiriyah del 2003 – reclamava il diritto di fare dei "propri embrioni" quel che voleva, nel nome del diritto alla proprietà e alla vita familiare. Un caso che nasce da un evento traumatico, ma che strada facendo è diventato una delle tante bandiere per affermare un principio controverso come quello dell’insindacabile libertà della ricerca, che usando embrioni umani (pur congelati da oltre dieci anni e dunque praticamente inservibili) vorrebbe sancire la propria superiorità rispetto a qualunque criterio etico.
Un’affermazione non condivisa nella stessa comunità scientifica, che si sta seriamente interrogando sull’opportunità di rinunciare a ogni (orripilante) forma di manipolazione della vita umana nel suo sorgere. Mentre i laboratori ricorrono sempre più massicciamente alle cellule staminali adulte e a quelle riprogrammate, le sole che abbiano offerto – e per di più in modo eticamente sostenibile – concrete speranze di ottenere cure efficaci per malattie sinora inguaribili, la Corte europea ha stabilito che il bando italiano alla riduzione dell’embrione a "materiale biologico da laboratorio" contenuto nella legge 40 è «necessario in una società democratica» dove la questione è ampiamente dibattuta, fa parte dell’«ampio margine di apprezzamento» che spetta a ogni Paese, e non consente che si tratti la vita alla stregua di un oggetto di proprietà, nemmeno fosse una casa o un’automobile, e anzi con meno tutele per la sua integrità.
E a chi si appella a Governo, Parlamento e Corte Costituzionale agitando lo stucchevole spettro dei ricorsi in tribunale ricorda indirettamente che le stesse sentenze europee presentate al pari di un dogma inappellabile quando accolgono le ragioni della neutralità etica non possono essere considerate come un’opinione insignificante se rigettano con nettezza una smaccata pretesa di cosificare la vita umana. Il giusto diritto va onorato restituendo la legge alla sua missione: riconoscere la vita umana con la stessa immediatezza dei bambini, e tutelarla con cura. L’Europa, stavolta, ha saputo ricordare a se stessa che questa è la via.
«Avvenire» del 28 agosto 2015

Da Seneca a Petrarca, l'ozio è necessario (se si vuole agire bene)

di Alfonso Berardinelli
Quando incombe il caldo estivo, la pressione sanguigna si abbassa e le forze diminuiscono, è naturale che si pensi all'ozio, come riposo, piacere e anche dovere. Niente di meglio perciò, che dedicarsi un poco al De otio di Seneca, senza dimenticare che Petrarca, tredici secoli dopo, progettò di scrivere un De otio religioso: i suoi modelli di filosofia morale erano Cicerone e Seneca, a cui doveva essere aggiunto sant'Agostino, in mancanza del quale un umanesimo cristiano moderno non sarebbe stato realizzabile. Il De otio di Seneca viene riproposto dalla «Piccola biblioteca della felicità» (edizioni La Vita Felice), a cura di Stefano Costa e con testo latino a fronte. In tutto cinquanta paginette di preziosa e tascabile sapienza antica, utile se non altro a capire che per alcuni millenni, nella storia delle culture umane, la vita contemplativa occupò un posto centrale nella riflessione etica. Per gli occidentali moderni, da un paio di secoli, si tratta di agire e agire bene. Per le culture tradizionali non era neppure concepibile l'azione giusta e buona se non era compiuta in uno stato d'animo buono e giusto. L'ozio contemplativo era il solo modo per raggiungere una tale condizione, che non solo è necessaria per agire a fin di bene, ma è di per sé attiva anche se apparentemente inerte.
L'inattiva lotta quotidiana contro i fantasmi e i demoni mentali richiede virtù eroiche. Gli opposti non si escludono: «Una cosa non esiste senza l'altra – dice Seneca –: né uno riflette senza attività, né l'altro agisce senza riflessione». I filosofi stoici Zenone, Cleante e Crisippo non hanno guidato eserciti, né assunto cariche pubbliche, né proposto leggi: sono vissuti in modo da proporre regole di vita valide «non per un singolo Stato, ma per tutto il genere umano». Hanno «fatto molto, sebbene non facessero nulla nell'attività pubblica».
Del resto (sono queste le conclusioni di Seneca) il filosofo è difficile che trovi uno Stato adatto a lui. Atene condannò Socrate per empietà e più tardi costrinse Aristotele a fuggire perché accusato di essere stato maestro di Alessandro Magno. «Se non si trova quello Stato che noi ci prefiguriamo, la vita ritirata comincia a essere necessaria a tutti». Avendo a che fare con il suo allievo Nerone, Seneca sapeva di che parlava.
«Avvenire» del 10 luglio 2015

27 agosto 2015

La bellezza che moltiplica lo sviluppo

Bello è possibile, ma anche strategico. La bellezza, connessa con la creatività e l’innovazione, può senz’altro contribuire a moltiplicare le opportunità di sviluppo
di Rodolfo Baggio e Vincenzo Moretti *
Bello è possibile. Per l’uomo la bellezza è un concetto di grande importanza in ogni ambito, compreso quelli considerati, da chi non li conosce a fondo, più freddi e razionali, come dimostra questa affermazione della cosmologa Janna Levin:“Una cosa che trovo particolarmente affascinante della scienza è che si tratta dell’ultimo ambito in cui le persone parlano seriamente della bellezza. […] Nella scienza resiste la meta dell’eleganza e della bellezza, perché, per ragioni che nessuno capisce completamente, è un criterio per distinguere il giusto dallo sbagliato. Se qualcosa è bello ed elegante, probabilmente è giusto”.
Gli esempi della relazione bellezza-scienza sono numerosi. Nel 1905 Einstein rivoluziona la visione del mondo nata due secoli prima con i Principia di Newton a partire dalla mancanza di simmetria delle equazioni di Maxwell sull’elettromagnetismo. E da analoghe considerazioni di bellezza, semplicità, simmetria e armonia parte Copernico nel De Revolutionibus Orbium Caelestium.
Oggi sappiamo che il comune apprezzamento per la bellezza e la creatività presente nella scienza e nelle arti ha anche una ragione fisiologica. Recenti studi sul funzionamento del cervello effettuati con la risonanza magnetica funzionale (fMRI) mostrano come una funzione importante sia svolta dai neuroni specchio che ci permettono di afferrare al volo ciò che accade, di provare empatia per le emozioni altrui e di imparare per imitazione. Come sostiene Morelli, l’analisi delle diverse forme di esperienza estetica mette in luce lo stretto legame fra l’essere umano e il mondo che lo circonda e la sua struttura, mediato dal principio di immaginazione.
La nostra tesi è che la bellezza – connessa con la creatività e l’innovazione – possa moltiplicare le opportunità di sviluppo. Vediamo di scoprire in che senso e perché.

Il processo creativo come processo sociale
Innovazione e creatività sociali si basano come sappiamo sul capitale umano, l’insieme di conoscenze, competenze, abilità, emozioni, acquisite da un individuo e dirette al raggiungimento di obiettivi sociali ed economici, singoli o collettivi. Le interazioni tra persone che sono portatori di conoscenze e contributi diversi favoriscono creazioni migliori e più numerose. I fattori ambientali, i contesti, i frame, sono elementi cruciali per la creatività, come racconta Isacsoon nel suo “The Innovators”. In buona sostanza, essendo tali fenomeni processi sociali, possono essere pienamente compresi solo aggiungendo alle caratteristiche individuali la valutazione delle condizioni ambientali e degli effetti dei legami esistenti. Bourdieu estende questo concetto definendo il capitale sociale come “l’aggregato delle risorse reali o potenziali che sono collegate al possesso di una rete durevole di relazioni più o meno istituzionalizzate di conoscenza e riconoscimento reciproci”.
Qual è in definitiva la configurazione ideale per una visione sistemica che favorisca l’emergere di idee creative? La soluzione migliore sembra essere quella di una rete composta da una serie di comunità coese che facilitano scambi intensi, e che abbiano pluralità di collegamenti che favoriscono la condivisione di nuovi modi di vedere e di pensare, evitando così il rischio di eccessiva chiusura di una comunità connessa ma isolata perché bloccata su quanto circola al proprio interno.

Bellezza, creatività e innovazione
Nel processo che lega la creatività, base necessaria per l’innovazione, alla capacità di connettere elementi diversi, i fattori che maggiormente colpiscono la mente umana – come quelli estetici -, sono particolarmente favoriti. L’evidenza empirica che la bellezza aumenti le capacità di risoluzione creativa dei problemi è abbastanza solida ed è connessa alla struttura del cervello che controlla i processi di memoria, alla preparazione e alle competenze individuali.
Richard Florida sostiene che alla base di un ambiente favorevole alla creatività e allo sviluppo di innovazione stanno tre elementi: il talento individuale (formazione, competenze, esperienza), un ambiente tollerante e quindi multiculturale, e le infrastrutture tecnologiche necessarie. E Godoe allarga la prospettiva ridefinendo l’utilità economica che è alla base di molti modelli sulle dinamiche dell’innovazione, evidenziando gli elementi fondamentali in: fattori estetici (definiti come “il piacere e l’attrazione associati con la bellezza”), immaginazione, creatività e serendipity, che Merton definisce come “l’osservazione di un dato imprevisto, anomalo e strategico che fornisce occasione allo sviluppo di una nuova teoria o all’ampliamento di una teoria già esistente”.
In questo contesto l’innovazione gioca un ruolo determinante non solo nello sviluppo economico (sia a livello generale che a livello di singole organizzazioni) ma anche per il sistema sociale coinvolto; per quanto non sempre evidenziato si tratta di un aspetto di enorme portata dato che dal punto di vista sociale l’innovazione riguarda la soddisfazione dei bisogni non solo materiali ma anche di relazione, nonché i sistemi di governo (sia pubblici che privati) in grado di regolare l’allocazione di beni e servizi in modo da soddisfare entrambi, con tutto quanto ciò significa in termini di creazione di capitale sociale, creatività, cultura, cooperazione, solidarietà, diversità.

Bellezza e lavoro ben fatto
Qualsiasi lavoro ha senso e significato se è fatto bene. Senza un cambiamento profondo della cultura e dell’approccio al lavoro, a ogni livello, non è possibile cogliere, e dunque moltiplicare, le opportunità offerte dallo sviluppo della società digitale. Rispettare il lavoro e chi lavora, riconnettere il lavoro con la dignità, l’identità, il senso delle persone e delle strutture è oggi più che mai indispensabile per allungare l’ombra del futuro sul presente. Esiste una connessione anche etimologica tra l’idea di bello e quella di bene (il termine latino bellus è il diminutivo di una forma antica di bonus). La bellezza può essere insomma per l’Italia l’occasione (nel senso di tempo giusto, di kairòs) per cogliere le opportunità e moltiplicarle, per “fornire una diversa struttura portante” e ricollocare in “un nuovo sistema di relazioni reciproche” le parole, le idee, i concetti, le decisioni, le azioni finalizzate allo sviluppo.
Il messaggio è: ciò che va quasi bene non va bene; il lavoro ben fatto è la via per lo sviluppo culturale, sociale ed economico di qualità e come realizzazione di sé; le connessioni tra fare bene le cose e fare cose belle sono le chiavi per dare alle città intelligenti, resilienti, digitali, smart italiane caratteristiche e potenzialità senza eguali.
Il messaggio implica la necessità di ripensare le città, i territori, i distretti industriali, sociali, culturali italiani come tanti centri da riorganizzare, rigenerare, rivalorizzare alla luce delle opportunità offerte dall’Internet dell’energia e dall’Internet delle cose, e cominciare a farlo concretamente, valorizzando le risorse storiche, culturali, ambientali, naturali, produttive lì presenti.
In un mondo sempre più “condannato” a trovare il tratto distintivo, il vantaggio competitivo, il quid che un paese, un’istituzione, un’azienda posseggono in via esclusiva o comunque in misura superiore rispetto agli altri, fare bene le cose, fare belle le cose è la via per valorizzare il genius loci italiano e tornare a regalare al mondo cultura, innovazione, bellezza.

We have a dream
Baia di Napoli, anno di grazia 2065. Cinquant’anni dopo la costituzione delle aree metropolitane, l’antica Napoli appare trasformata dalla riconfigurazione intelligente dei rapporti tra gli esseri umani e le macchine prodotta dallo sviluppo e dall’uso consapevole delle tecnologie digitali. Il sogno di sperimentare un modello imperniato sulla bellezza come moltiplicatrice di opportunità – OxB = O2 -, come creatrice di senso, di ricchezza e di sviluppo (culturale, sociale ed economico), come valorizzazione del patrimonio umano, culturale e sociale disponibile, come promozione del senso civico e della cittadinanza attiva, è diventato realtà.
La città di Bacoli (Acropoli; Parco Archeologico; Castello Aragonese; Terme Romane; Resti Villa Romana Sottomarina; Sacellum; Tomba di Agrippina; Centum Cellae; Piscina Mirabile) che Baggio e Moretti (i due autori dell’articolo, ndr) utilizzarono nel 2015 come esempio di bellezza sprecata senza eguali al mondo, è oggi al primo posto nella graduatoria mondiale del turismo culturale di alta qualità.
Tra pochi mesi l’intera Baia di Napoli – da Sorrento a Monte di Procida passando per le aree agricole interne, i tre vulcani attivi e le isole di Capri, Ischia e Procida -, sarà proposta come buona pratica da imitare per attivare i necessari processi di isomorfismo. Ancora pochi anni e l’obiettivo di assicurare bellezza e prosperità a tutti gli italiani sarà stato realizzato.
Per ora è soltanto un sogno, ma l’equazione bellezza-lavoro ben fatto-creatività-innovazione-sviluppo sembra tenere, almeno in base al ragionamento qualitativo e logico-deduttivo seguito fin qui. In realtà più che di equazione bisognerebbe parlare di un sistema con un numero imprecisato di equazioni, dati i molteplici fattori che concorrono alla possibile soluzione: efficienza di infrastrutture fisiche, di comunicazione ed economico-finanziarie; struttura delle relazioni sociali ed economiche; efficacia dei sistemi di governo.
Valutare questi impatti non è cosa facile, anche perché le metriche per stimare questi fattori e le loro relazioni sono praticamente inesistenti. Un aiuto potrà venire probabilmente dall’utilizzo di tecniche di simulazione che consentono, come già avviene in molti campi, di costruire scenari possibili e analizzarne le conseguenze.
Su questo si può lavorare e si lavorerà in futuro. Per il momento speriamo di aver mostrato come l’equazione fondamentale alla base di un programma di ricerca di questo tipo sia ben fondata.

* Rodolfo Baggio, fisico con PhD in tourism management, è docente universitario e ricercatore: studia i sistemi complessi e le reti turistiche e le trasformazioni che le tecnologie informatiche hanno portato al turismo
Vincenzo Moretti, sociologo, lavora alla Fondazione Giuseppe Di Vittorio, dove si occupa di innovazione. Racconta l’Italia che rispetta il lavoro e chi lavora, che mette rigore e passione nelle cose che fa
«Il Sole 24 ore - sullp. Nòva» del 26 luglio 2015

L'accoglienza nella storia: prudenza al servizio della giusta carità

di Roberto Colombo
Uomo libero e per questo scomodo al potere politico, principe dei 'poeti esiliati', Dante era familiare con la condizione di chi è costretto a cercare rifugio lontano dalla propria terra. E riconosce ai profughi la qualifica di pellegrini, «in quanto è peregrino chiunque è fuori de la sua patria», non solo chi è in viaggio verso un luogo di pietà religiosa (Vita nuova, XL, 6). Alighieri esprime con le parole una concezione del migrante che i monaci hanno praticato lungo il Medio Evo, epoca di diffusa mobilità continentale. Essi non furono i soli cristiani a concretizzare l’accoglienza del pellegrino e del viandante: papi, vescovi e laici diedero vita ad altre forme della loro protezione e cura. Un’accoglienza che trova nella disposizione della hospitalitas la sua sintesi pratica, alimentata alle pagine della Scrittura e dei Padri (in Occidente, anzitutto quelle dei Sermones di Agostino e del De officiis di Ambrogio).
A partire dal IV secolo, secondo l’indicazione di un canone attribuito al Concilio di Nicea, vennero allestite presso il patriarchio (antica residenza dei papi in Laterano), gli episcopi e i monasteri delle strutture destinate all’accoglienza e alla cura dei poveri, dei pellegrini e dei forestieri in transito, chiamate xenodochi.
Quest’opera di assistenza doveva essere ben nota e di sicura visibilità se l’ultimo imperatore pagano, Flavio Claudio Giuliano – convinto che l’accoglienza degli stranieri e dei bisognosi fosse il segreto della benevolenza del popolo verso la Chiesa – promosse la creazione di strutture simili agli xenodochi in ogni città della Galazia, a favore dei quali ordinò che fossero assegnati annualmente 30 mila moggi di frumento e 60 mila sestieri di vino (la testimonianza fattiva della Chiesa, più che la sua predicazione, stimolò i governanti, per spirito di emulazione o ricerca del consenso popolare, a farsi carico delle necessità degli indigenti). Nel venire incontro ai bisogni elementari di questi uomini, donne e bambini (vitto, alloggio, vestiario, cure sanitarie) si distinsero anche famiglie nobili di laici abbienti con il loro evergetismo, anticipando quello che in tempi più recenti è stato il fenomeno delle fondazioni filantropiche e sociali. La cura hospitalitatis venne ritenuta da papa Gregorio Magno tra i doveri prioritari della Chiesa. In questo 'movimento di ospitalità' che caratterizza l’operosa spiritualità medioevale, un posto particolare spetta al monachesimo basiliano e benedettino. San Benedetto dedica l’intero capitolo 53 della sua Regola a «come debbano essere accolti gli ospiti».
I poveri, i pellegrini e coloro che comunque giungevano al monastero dopo un lungo viaggio, spesso provati dal digiuno, dalla fatica e dalle ferite, erano ricevuti con particolari cure e attenzioni – «come Cristo», recita la Regola –, venivano loro lavate le mani e i piedi e rifocillati in qualunque ora del giorno, non senza aver prima pregato insieme e scambiato un segno di pace. Nessun interesse – neppure quello legato all’eventuale conversione al Vangelo, se i forestieri non erano cristiani – portava questi uomini ad aprire le porte del loro cuore e dei loro monasteri ai bisognosi di accoglienza, ma solo l’amore a Cristo che in essi si rendeva presente: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25, 35).
I monaci, tuttavia, non erano né ingenui né sprovveduti, e sapevano coniugare l’affabilità e gratuità dell’accoglienza con la necessità dell’ordine e della giustizia. Sulle vie di comunicazione dell’Europa si muovevano non solo pii pellegrini, onesti mercanti, sinceri esuli e persone miti alla ricerca di un lavoro, ma anche truffatori, ladri, violenti e oziosi. Dai chronica dell’epoca veniamo a conoscenza di episodi che hanno turbato la tranquilla vita dei monaci in seguito all’ospitalità offerta ad alcuni malintenzionati, ma questa eventualità non ha mai fatto venir meno la tradizionale accoglienza. Ha solo suggerito alcune precauzioni, come la separazione della cella hospitum (foresteria) dal resto del monastero e il suo affidamento a chi sappia gestirla con amore alla persona, ma anche con fermezza. Un esempio di come coniugare attraverso la prudenza due virtù imprescindibili per il cristiano, la carità e la giustizia, senza divenire prigionieri della paura che la prima vada a scapito della seconda. Seguire il Vangelo rende liberi e intelligenti, anche di fronte alle circostanze che più ci preoccupano.
«Avvenire» del 27 agosto 2015

Amicizia civica oltre l'estraneità

Flussi migratori. Anche il mondo antico dovette affrontarli
di Roberto Colombo
L'accoglienza nella storia: prudenza al servizio della giusta carità
L’arrivo in Europa di un numero crescente di migranti dall’Africa e dal Vicino Oriente in cerca di quanto la loro terra natale non offre – incolumità, alloggio, cibo, lavoro e soprattutto una speranza di vita dignitosa per sé e i propri figli – appare come un connotato ineludibile del secondo decennio del nostro secolo. Con questo 'flusso migratorio' e la nuova 'questione sociale' che esso pone si confrontano (e si scontrano) settori della società civile, le loro rappresentanze politiche e i governi europei da una parte, e alcune realtà di vita comune, associativa, culturale, educativa e solidaristica dall’altra, non ultime quelle la cui natura e storia religiosa pone il valore della persona e la carità fraterna al centro di ogni pensiero e iniziativa sociale. Per quanto possa apparire un fenomeno dai tratti inediti e inquietanti, quello della 'pressione dei popoli' ai confini e della 'infiltrazione' di persone da lontano non è un quadro geosociale senza precedenti nella storia nostro Continente.
Di essi e delle risposte suscitate nel popolo autoctono e in quello cristiano torna utile riprendere qualche elemento che – pur nelle mutate circostanze culturali, sociali ed economiche – aiuti a cogliere le ragioni di una differente (ma non necessariamente confliggente) prospettiva. Come non partire, anche se questa scelta sacrifica pagine dell’umanesimo pre-cristiano (testimoniate dagli storici, dai poeti e dai miti dell’epoca: per Isocrate, Atene era «l’asilo più sicuro per lo straniero che aveva subito un’avversità nella propria patria»), dalla tarda antichità romana, quando le strade che attraversavano l’Europa erano percorse non solo da mercanti, pellegrini, mercenari e briganti, ma anche da miserabili che fuggivano dai confini dell’Impero verso il più sicuro centro e il sud, pressati dalle violente penetrazioni delle popolazioni 'barbariche' che destabilizzavano la pax romana?
Al contrario dei greci, «facilmente portati verso l’altro e l’altrove» – come sottolinea Michel Meslin – a motivo della mescolanza con un mondo esteso dalle conquiste alessandrine, i romani delle varie province dell’Impero erano per tradizione, almeno all’inizio di quest’ondata migratoria, «più casalinghi, diffidenti, arroccati nella loro piccola patria», con un sospetto spontaneo verso lo straniero che ne rendeva difficile l’accettazione (tra l’altro, i plebei temevano che gli stranieri sottraessero loro una parte dell’annona fatta distribuire nell’Urbe dall’imperatore). I due termini latini hospes (ospite) e
hostis (nemico) tradiscono una radice comune che designa l’estraneo con l’ambivalenza dell’accoglienza e della preoccupazione per la sua presenza.
Il cristianesimo, non senza qualche attrito con la cultura dominante e il potere imperiale che la esprimeva, contribuì in modo decisivo a sciogliere questa diffidenza verso l’altro, il 'diverso'. Eredi della tradizione ebraica dell’accoglienza che trova nel precetto levitico la sua sintesi («Il forestiero che dimora in mezzo a voi lo tratterete come colui che è nato tra di voi. Tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto»; Lv 19, 34), i cristiani hanno ben presto concepito la condizione di 'estraneità' come esemplare della loro stessa identità spirituale (un «esilio», secondo San Paolo; 2 Cor 5, 6) ed ecclesiale (essi «vivono nella loro patria, ma come forestieri. […] Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera»; Lett. a Diogneto V, 5). E questo li ha portati ad 'immedesimarsi' con la condizione dei migranti in cerca di salvezza. Ancor più, l’ospitalità – in greco philoxenia, letteralmente 'amore per lo straniero' – ha per il cristiano una ragione propriamente teologica: l’essere stato salvati da Gesù attraverso l’accoglienza alla sua mensa, l’Eucaristica, e l’incontrarlo in colui nel quale Egli stesso si è identificato: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25, 35). Al tempo delle migrazioni attraverso l’Impero romano, l’accoglienza dello straniero i cristiani l’hanno praticata e predicata (tra gli altri, il vescovo Ambrogio, dopo la sconfitta di Adrianopoli del 378, accolse con generosità a Milano i profughi danubiani che fuggivano all’avanzata dei Goti), favorendo così la gestazione di un’era nuova nella quale «la civiltà ha fatto un passo decisivo, forse il passo decisivo, il giorno in cui lo straniero, da nemico (hostis) è divenuto ospite (hospes)». (Jean Daniélou).
Ora come allora, il compito della Chiesa è questo e null’altro: testimoniare e richiamare questa civiltà dell’amore, dell’amicizia civica che non esclude nessuno.
«Avvenire» del 25 agosto 2015

Il giornalista killer come i tagliagole non si accontentano di uccidere, vogliono anche la celebrità

La strage in Virginia e i precedenti
di Guido Olimpio
Stessa tecnica (e motivazione) di Coulibaly e degli altri terroristi Isis. Fissare il loro delirio in un video perché resti a testimoniare quanto hanno fatto
WASHINGTON - Non basta il gesto violento, crudele. Vogliono anche «fissarlo» in una foto o in video perché resti a testimoniare quanto hanno fatto. Il killer dei due giornalisti in Virginia ha filmato l’agguato con una piccola telecamera, quindi lo ha rilanciato sulla rete. Si è comportato come molti terroristi, a cominciare da Mohammed Merah, l’assassino di Tolosa, o Amedy Coulibaly, protagonista della presa d’ostaggi nel negozio kosher di Parigi.
Ma non solo. Il giovane studente di origine sud coreana, autore del massacro al Virginia Tech, aveva inviato ai media una videocassetta dove posava con le sue pistole. Cercava pubblicità e notorietà, indicava i suoi nemici. Ancora: Eliot Rodger, prima di partire per una folle incursione nelle vie di Santa Barbara, ha registrato il suo «manifesto» poi postato sul web. Di nuovo un modo per spiegare al mondo quanto avrebbe compiuto poco dopo. Omicidi e «spettacolo», messaggi che sono pretesti per atti brutali. Un modus operandi che oggi accomuna lo sparatore americano e il tagliagole dell’Isis.
Non è un caso che nel “manifesto” inviato ai media due ore dopo aver assassinato i reporter, Bryce Williams ricordi, in chiave positiva, proprio Seung Hui Cho, il protagonista dell’attacco del Virginia. Lo definisce una fonte di ispirazione, una persona capace di fare più vittime di Eric Harris e Dylan Klebold a Columbine, idoli di molti stragisti statunitensi. E non solo.
«Corriere della sera» del 27 agosto 2015

Sparatoria in Virginia, le due telecamere e il tabù infranto

I media: la ferocia social
di Aldo Grasso
Ovunque censurata e dissimulata, la morte sembra risorgere in tv nelle vesti dell’imprevisto o come offerta sull’altare delle emozioni
Si fa presto a dire la morte in diretta, ma una scena così atroce non si era mai vista. Un killer uccide a colpi di pistola la giornalista televisiva Alison Parker, 24 anni, di una rete locale della Cbs e il cameraman Adam Ward, 27 anni, mentre stanno effettuando un’intervista. Sono immagini terrificanti: il volto della giornalista, che vede l’assassino avanzare e sparare, esprime l’orrore più grande che si possa immaginare. Seguiamo i suoi ultimi disperati tentativi di sfuggire la morte: la giovane si gira urlando, cerca di nascondersi, grida «oh mio Dio», prima che la telecamera del cameraman cada a terra. Cascando, la telecamera riesce a inquadrare per un attimo il volto dell’assassino. Dallo studio, la regia taglia la diretta: la conduttrice è sotto choc, senza parole. Riprende poi fiato: «Non siamo sicuri di cosa sia successo lì. Cercheremo di capire cosa fossero quei suoni». Poi arriva l’annuncio della morte della reporter e del collega.
Ma non basta: l’incubo più grande deve ancora arrivare. Vester Lee Flanigan, un afroamericano che aveva lavorato per quel network utilizzando il nome Bryce Williams, posta sui social il filmato del delitto visto dalla sua prospettiva, quella dell’omicida (come fanno i tagliagole dell’Isis). Nel video, girato con il telefonino, si vede spuntare una pistola in primo piano, prima che inizi l’assurda resa dei conti.
Per la prima volta la morte in diretta ha due punti di vista, quello delle vittime e quello dell’assassino. Come se un tetro gioco di specchi raddoppiasse la tragedia. Il nesso tra la morte e la sua rappresentazione in diretta è uno dei temi cruciali che attraversano le riflessioni sui media, uno di quei temi cui il cinema ha dedicato attenzione, a partire da L’asso nella manica di Billy Wilder a La morte in diretta di Bernard Tavernier, da Dentro la notizia di James L. Brooks ai cosiddetti «snuff movie», filmati amatoriali in cui vengono esibite torture con conseguente, inevitabile epilogo. Da tempo, per i media la morte non è più un tabù: dev’essere raccontata, mostrata, esibita quasi per la paura che una tragedia non vista resti invisibile, cioè inesistente. Ma i media siamo noi, sempre più pornograficamente addestrati a pedinare la morte in diretta. Inutile dare la colpa ai social network, alla mania narcisistica di dover certificare la nostra giornata con foto, video, messaggi.
Da tempo (per noi italiani, almeno dalla tragedia di Vermicino) qualcosa si è spezzato per sempre, la morte si è fatta spettacolo, il nostro occhio si è indurito. Il catalogo delle atrocità è così sterminato che le domande legittime rattrappiscono sul nascere: un «accrescimento senza progresso», diceva Musil, che si risolve nella tranquilla connivenza della tragedia e del suo contrario.
Il dramma di Moneta, in Virginia, ci dice soltanto che un nuovo tabù è stato abbattuto, che un nuovo limite è stato infranto. Ovunque censurata e dissimulata, la morte sembra risorgere in tv nelle vesti dell’imprevisto o come offerta sull’altare delle emozioni. Le immagini condivise sui social dall’assassino sono tanto più terribili quanto più svuotate di qualsiasi sostanza etica: le atrocità crescono, ma nessuno vuol rinunciare a fornire il proprio contributo al patrimonio della ferocia umana.
Non è lo spettacolo che «deve» andare avanti, è la vita. Da molti anni, molta parte della nostra vita si svolge con l’apporto attivo della tv e dei social network. I media sono i nostri nuovi ambienti di socializzazione, «luoghi» in cui impariamo a comportarci, a divertirci, a soffrire. Persino a filmare il duplice delitto che stiamo per commettere.
«Corriere della sera» del 27 agosto 2015

15 agosto 2015

Questione di genere al giusto livello

Discriminazioni, intelligenza, Buona novella
di Francesco D'Agostino
L'intelligente, documentata ed esauriente analisi che Chiara Giaccardi ha pubblicato su Avvenire del 31 luglio (dal titolo, davvero perfetto, «Riappropriamoci del genere») ha suscitato qualche reazione stizzita e persino aggressiva, arrivata sino all’accusa a questo giornale e alla studiosa di non percepire (!) la gravità delle tensioni culturali che caratterizzano il mondo di oggi, di non tenere nel giusto conto (!!) l’antropologia cristiana e soprattutto di non dare la dovuta considerazione (!!!) alle dichiarazioni sul tema del Magistero e dello stesso Papa. Non intendo entrare nel merito di elucubrazioni frutto di letture grossolane e distorcenti, che si commentano da sole. A me interessa piuttosto rilevare come dietro certe pur modeste polemiche si nasconda un’insidia non irrilevante: quella di confondere la dimensione filosofica e quella teologica dell’antropologia cristiana e, cosa ancor più grave, quella di erigere l’adesione all’antropologia filosofica cristiana a unità di misura della stessa fede, quasi che al Credo che recitiamo ad alta voce ogni volta che partecipiamo alla Messa si dovesse aggiungere un’ulteriore proposizione: "Credo alla differenza tra i sessi". Il punto nodale della questione – già indicato in diverse occasioni su queste colonne, e che Giaccardi sottolinea molto bene – è che non esiste "una" teoria del gender, ma tutta una costellazione di temi, che vanno dal sociologico allo psicologico, dallo storico al giuridico, dal religioso al filosofico, dal politico al sociale, dall’etnologico al biologico. E per ciascuno di questi temi dovrebbero darsi autonomi profili di ricerca. L’antropologia filosofica occidentale sta lentamente prendendo coscienza della complessità del tema del genere, dopo averlo per secoli semplificato grossolanamente e brutalmente assumendo (tranne rare eccezioni) come paradigma unitario e unificante del rapporto tra i sessi quello biologico del primato del maschile sul femminile e quello corrispettivo dell’inferiorità del femminile rispetto al maschile. Da questo paradigma (peraltro fragile, anche biologicamente) sono derivate innumerevoli conseguenze a catena, ancora difficili a rimuoversi, e tutte riassumibili nel concetto di discriminazione tra i sessi: nel mondo della politica come in quello del lavoro, nel mondo della cultura come in quello giuridico e sociale. Di alcune di tali discriminazioni (come quelle, a volte indegne, di cui sono state vittime gli omofili) abbiamo preso coscienza (ma ancora non tutti) solo di recente. Per giustificare l’impegno dei cattolici contro queste discriminazioni non c’è bisogno però di fare specifico appello all’antropologia cristiana, se non per quella parte in cui essa coincide con la moderna antropologia della pari dignità delle persone; è solo necessario un supplemento di intelligenza, che ci faccia capire, nel bene come nel male, il peso della storia e delle dinamiche sociali.
Ma al di là dell’antropologia filosofica si dà anche un’antropologia teologica, desumibile prima dal racconto biblico della creazione dell’essere umano non come soggetto "generico" (come anthropos), ma come maschio e femmina, poi col racconto evangelico dell’incarnazione di Dio, come uomo, nel seno di una donna. Davanti alla Rivelazione, la filosofia non può che tacere e l’uso stesso di un termine come "discriminazione" (legittimo sul piano delle scienze umane) si rivela inopportuno. L’antropologia teologica ci chiama, prima che all’argomentazione, alla meditazione e ci aiuta a tal fine in tanti modi: splendido quello iconografico, che si manifesta nell’accostamento dell’immagine maschile di Cristo in croce a quella femminile di Maria che tiene sulle ginocchia il Figlio. All’icona del Crocifisso, che ci dice tutto quanto vogliamo sapere sul dolore, sulla morte e sull’amore che salva, il cristianesimo ha sempre unito l’icona della tenerezza assolutamente silenziosa e gratuita e del rapporto misterioso e indissolubile tra i sessi, che non è quello generico tra maschio e femmina, ma quello concretissimo tra la madre e il figlio. A questo livello, qualsiasi elaborazione del gender, anche la più stravagante e provocatoria, perde consistenza: resta solo il mistero del rapporto io-tu, dell’affidamento totale del bambino Gesù (e di ogni bambino) alla madre e dell’amore totale della Madonna (e di ogni madre) per il proprio piccolo.
È a questo livello che il cristianesimo può e deve dare, come dice con grande efficacia Chiara Giaccardi, un contributo «preziosissimo» alla teoria del genere (oggi a evidente rischio di deragliamento per radicale impazzimento) e della differenza tra i sessi, studiando le diverse forme di incarnazione culturale del messaggio cristiano. Ogni altro tipo di impegno, parlamentare, dottrinale, pedagogico, ecc., non può che essere benvenuto e anche ritenuto indifferibile e irrinunciabile; ma dovrà sempre essere ritenuto, da parte dei cristiani, secondario. Perché i cristiani, prima di operare per buone leggi, buona scuola, buona medicina (ambiti in cui è possibile trovare alleati in uomini e donne di buona volontà) devono operare per annunciare quella che è stata specificamente loro affidata: una Buona novella.
«Avvenire» del 10 agosto 2015

Neuroestetica, anche l'arte fa la tac

di Vittorio A. Sironi
Da alcuni anni le neuroscienze hanno iniziato a interessarsi di arte per cercare di capire le basi neurobiologiche della produzione artistica e per tentare di conoscere quali sono le reti neurofisiologiche che consentono di cogliere come “bella” e/o “piacevole” una pittura, una scultura, un’opera architettonica. Ogni volta che formuliamo un giudizio estetico si attivano area differenti del nostro cervello. La moderne tecniche di neuroimagin (in particolare la Risonanza Magnetica Funzionale) consentono di indagare cosa avviene nel cervello delle persone che osservano l’opera realizzata da un artista. Se nel nostro campo visivo entra un’opera che “piace”, per la quale formuliamo un giudizio estetico positivo, insieme alle aree cerebrali occipitali deputate alla visione, viene attivata l’area orbito-frontale mediale. Se invece il nostro giudizio estetico è negativo si attiva la corteccia motoria sinistra. Infine se restiamo indifferenti entrano in azione la parte inferiore del cingolo e la corteccia parietale. Aree differenti sono interessate anche quando cambia il soggetto dell’opera artistica: paesaggi, ritratti e volti, nature morte od oggetti attivano aree differenti, come se a ogni tipo di rappresentazione corrispondesse una differente “microcoscienza” cerebrale.
È nata così la neurologia dell’arte o neuroestetica, come l’ha battezzata Semir Zeki dell’University College of London, cioè un approccio che considera l’analisi artistico-estetica in funzione dell’impatto neurologico e dello studio neurofisiologico dell’opera d’arte. In una ricerca pubblicata pochi mesi fa dal neuroscienziato londinese insieme al collega giapponese Tomohiro Ishizu, è stato cercato un riscontro neurobiologico all’esperienza di percezione del “bello” e del “sublime”. Dal punto di vista estetico il bello è il risultato determinato dalla completezza formale e dall’armonia delle parti di un’opera (una pittura, una scultura, un edificio), mentre il sublime è dato dalla capacità di qualcosa (un oggetto, un paesaggio, una rappresentazione) di sconvolgere – positivamente – l’animo dell’osservatore. Utilizzando la Risonanza Magnetica Funzionale i due ricercatori hanno localizzato con precisione l’attività cerebrale in un gruppo di volontari durante la percezione di immagini legate all’esperienza del bello e del sublime. Hanno così dimostrato che l’esperienza del sublime attiva aree cerebrali profonde (le strutture dei gangli della base e dell’ippocampo) e il cervelletto, a differenza dell’esperienza del bello, che attiva aree cerebrali neocorticali (soprattutto la corteccia orbito-frontale mediale) e strutture cerebrali profonde associate alla percezione di stimoli emotivi (come l’amigdala e l’insula). Ciò evidenzia che il sentimento del sublime è caratterizzato da componenti conoscitive più che emotive: non solo le due esperienze sono diverse, ma quella legata alla percezione del sublime si pone su un livello neurobiologico
più elevato.
Gli studi neuroestetici portano anche alla conclusione che il giudizio estetico non è qualcosa di soggettivo, ma di oggettivo. In questo senso l’esperimento multimediale sull’altare longobardo in atto nel Museo cristiano di Cividale del Friuli fornisce l’opportunità unica di sperimentare “dal vero” come cambia la percezione di un’opera d’arte quando, oltre che alla bellezza formale del manufatto – che resta tale anche se non è presente l’originaria policromia –, si associa l’esperienza (sublime) di poter osservare l’opera nello splendore dei suoi colori antichi. Una ragione in più per visitare questo straordinario museo.
«Avvenire» del 7 agosto 2015

14 agosto 2015

Non solo ideologia: riappropriamoci del genere

Un'analisi del dibattito culturale e giuridico
di Chiara Giaccardi
Oggi la questione del 'gender' si pone come spinosa ma necessaria. Al di là di incomunicabilità e fraintendimenti, azioni di attacco e barricate difensive, proprio nella sua incandescenza il dibattito segnala un nodo di senso ineludibile: quale rapporto intrattenere e coltivare con la nostra dimensione biologica, in un tempo in cui i confini di ciò che è 'naturale' si sono ridefiniti e sono continuamente forzati in ogni direzione? La polarizzazione tra le fazioni opposte – no gender-pro gender – ha ipersemplificato e in molti casi banalizzato la questione, e sembra arrivata a un punto di stallo.
Per questo è importante uscire dalla forma che il dibattito ha assunto e reincorniciarlo in modo nuovo. Una prima questione, preliminare, riguarda la legittimità stessa del problema. Due posizioni si contrappongono: la prima (no gender) sostiene che l’«ideologia gender» esiste ed è unica; la seconda (pro gender) che non esiste ed è una invenzione di chi non accetta i cambiamenti. Posta così, nessuno ha ragione; a uno sguardo più ampio, ognuno ha le sue ragioni.
È vero che i «gender studies» hanno una tradizione di ormai mezzo secolo, e sono nati proprio per denunciare e contrastare posizioni teoriche astratte e pratiche consolidate, basate sulla disuguaglianza: per mostrare che l’essere umano è sempre un essere situato (prima di tutto in un corpo sessuato, poi in una storia, una cultura, un territorio); che il preteso universalismo delle culture e delle regole sociali è in realtà un’astrazione, che prescindendo dalla realtà la mortifica (nella fattispecie, il punto di vista femminile); che rispetto alla nostra corporeità la cultura è tutt’altro che irrilevante. Sin dalle origini i «gender studies» hanno affrontato questioni di tutto rispetto, anzi, doverose.
E questa attenzione continua anche oggi: basta dare un’occhiata, tra i tanti esempi, al bel filmato «Why gender matters for social sciences» (Perché le questioni di genere nelle scienze sociali) sul sito del Gender Institute della London School of Economics, per rendersi conto che le questioni sono molte e che sull’asse delle differenze di genere si giocano ancora oggi molto in termini di rispetto e pari dignità: chi ha accesso a cosa, chi può fare cosa, è ancora fortemente determinato dal genere.
La stessa ragione per cui Edith Stein, in quanto donna, non poté essere titolare di una cattedra di filosofia, oggi fa sì che, a parità di qualifica professionale e competenze, le donne vengano pagate meno degli uomini, o addirittura, in alcuni Paesi, non possano avere diritto all’istruzione né a guidare l’auto, per non parlare del resto. Una questione sulla quale è recentemente intervenuto persino papa Francesco. Una tipica questione di 'gender'.
Dunque gli studi di genere sono diversificati al loro interno; hanno dato importanti risultati e molti possono ancora favorirne in termini di giustizia sociale; non sono esclusivamente né principalmente focalizzati sulla questione del 'genere sessuale come scelta' che prescinde dalla natura. Se non si riconosce questo, si rischia di divenire ideologici a propria volta. Il che non significa che il problema non esista. Semplificando si può dire che oggi ci sono due scuole di pensiero sul 'gender', che a loro volta presentano diversificazioni interne. Nella prima – essenzialista – si opera un passaggio diretto dall’anatomico all’ontologico (le caratteristiche corporee esprimono l’essenza della differenza di genere, ricavabile da esse); è un approccio scientista-positivista, ma anche quella dei primi gender studies femministi, con la tendenza a una visione scissa della sessualità, che alimenta un dualismo contrappositivo e competitivo tra maschile e femminile.
La seconda – culturalista-costruttivista – insiste sul 'gender' come costruzione sociale, e presenta in realtà due varianti. Una versione moderata, che sottolinea il ruolo della rielaborazione culturale del dato biologico, e una radicale – oggi prevalente – secondo la quale la natura non conta e vale solo il discorso sociale e la scelta individuale (posizione che tende all’astrazione del 'neutro').
Oggi il dibattito sul 'gender' è identificato con quest’ultima tipologia, che è la più insensata. Non bisogna però cadere nell’errore della 'cattiva sineddoche': prendere una parte del dibattito, la più discutibile, come il tutto e buttare il bambino con l’acqua sporca. In realtà la battaglia ideologica sul 'gender' (perché una componente ideologica è innegabile) si combatte più a colpi di diritto che di teorie che la giustifichino.
Persino Judith Butler (con la quale peraltro molte sono le ragioni di dissenso), autrice del celebre Questioni di genere, ha affermato di recente che «il sesso biologico esiste, eccome. Non è né una finzione, né una menzogna, né un’illusione. Ciò che rispondo, più semplicemente, è che la sua definizione necessita di un linguaggio e di un quadro di comprensione (...). Noi non intratteniamo mai una relazione immediata, trasparente, innegabile con il sesso biologico. Ci appelliamo invece sempre a determinati ordini discorsivi, ed è proprio questo aspetto che mi interessa».
Di 'gender', dunque, non solo si può, ma si deve parlare. Perché l’essere umano non è solo biologico, né dato una volta per tutte al momento della nascita.
L’identità non è solo espressiva (tiro fuori ciò che già sono) ma relazionale. Non solo biologica, ma simbolica. Dire che semplicemente uomini e donne si nasce, o che semplicemente lo si diventa, è contrapporre due verità che invece stanno insieme: uomini e donne si nasce e si diventa. E in questo processo, che dura tutta la vita, contano tanti aspetti: la storia, la cultura, la religione, l’educazione, i modelli, le vicende personali, l’essere situati in un tempo, uno spazio, un corpo.
In ogni caso, non c’è mai un’aderenza totale e senza resto tra il nostro essere biologico e il nostro essere umani. In questo l’uomo è diverso dall’animale: alla certezza meccanica dell’istinto corrisponde nell’uomo l’incertezza non garantita della libertà e della responsabilità. Il dibattito su come ci riappropriamo (o non riusciamo a riappropriarci) delle nostre caratteristiche anatomiche, e quanto il contesto ci sostiene, ci ostacola, ci indirizza, ci offre le categorie è non solo legittimo ma doveroso.
La forma che ha preso oggi il dibattito sul gender, nella sua punta estrema, commette un errore epistemologico grave, sovrapponendo elementi molto diversi tra loro: in particolare facendo coincidere universalismo e astrazione da una lato, e non-discriminazione ed equivalenza dall’altro, e rivelando così un problema con l’alterità concreta, che si traduce in una cancellazione, di fatto, della dignità delle differenze. Non a caso le nuove forme di educazione spingono alla promozione del 'neutro', che è appunto la cancellazione delle differenze, una forma di discriminazione violenta contro la concretezza del reale, rimosso in nome di una normatività procedurale e astratta.
A questo si collega un altro dei problemi della contemporaneità: il demandare al piano giuridico ciò che andrebbe prima affrontato a livello culturale. Poiché non ci si riesce a mettere d’accordo su cosa significa essere umani oggi, sui contenuti profondi che ci riguardano, si spostano le decisioni sul piano astratto delle procedure, come se fosse neutro dal punto di vista valoriale. Ma l’astrazione non garantisce affatto la neutralità, e, di fatto, il legislatore finisce col ratificare e rendere normativo il caso particolare. Quindi si dovrebbe parlare oggi di 'ideologia giuridica' come minaccia effettiva alla libertà delle nostre scelte, educative prima di tutto. Una deriva legata ai processi di tecnicizzazione che, nell’illusione di garantire la vita collettiva dall’arbitrio delle posizioni di valore, impongono senza nemmeno rendersene conto i valori che li impregnano (efficientismo, fattibilità, controllo, individualizzazione, assenza di senso del limite...).
Un’ideologia che si salda in modo perfettamente funzionale, rafforzandolo, con l’individualismo radicale del pensiero contemporaneo mainstream, e con lo strapotere dei sistemi tecnoeconomici, ai quali fa buon gioco raccontare la favola della 'sovranità dell’io', che ha ben pochi riscontri nella realtà.
A fronte di una 'idolatria dell’io' che, come riconosceva Hannah Arendt, a partire dalla modernità ha preferito scambiare ciò che ha ricevuto come un dono con qualcosa che ha fabbricato con le proprie mani, un discorso sul 'gender' oggi dovrebbe uscire dall’opposizione naturacultura (siamo naturali e culturali in quanto umani) e spostarsi sul piano simbolico. Contro l’illusione idolatrica e tecnocratica di trovare il termine che esprime esattamente, senza resto, ogni sfumatura possibile della nostra identità sessuale, come i 56 profili di 'gender' proposti da Facebook, dovremmo riaprirci alla parola simbolica, capace di ospitare in sé un’apertura, una gamma inesauribile di possibilità espressive (quali la femminilità e la mascolinità, nella loro dualità), e soprattutto una relazionalità costitutiva: la mia identità di genere nasce dall’incontro delle differenze e si è costruita nella relazione con altri, concreti come me. In un movimento di apertura e scoperta che si chiama libertà: nella gratitudine per quanto ricevuto, nella relazionalità del legame, nella consapevolezza che non siamo mai liberi dai condizionamenti culturali eppure abbiamo la capacità di non esserne completamente succubi, se solo evitiamo di aderire ottusamente al dato di fatto.
Credo che un’antropologia cristiana abbia, oggi, da portare un contributo positivo preziosissimo alla doverosa riflessione sul 'gender'. Perché, con Hölderlin, «là dov’è il pericolo cresce anche ciò che salva».
«Avvenire» del 31 luglio 2015

Scuola e famiglia anti-discriminazioni

La questione di genere e il comma 16 della riforma
di Milena Santerini *
Caro direttore, ci sono molte buone ragioni per non far prevalere ideologie e pregiudizi in campo scolastico a proposito dell’educazione intorno alla sessualità e alla cosiddetta 'identità di genere'. A cominciare dal fatto che la scuola deve essere il luogo dell’alleanza tra insegnanti e famiglie e non un campo di battaglia dove si assiste a forzature, intromissioni indebite o levate di scudi, pagate soprattutto da bambini e ragazzi.
Sono legittime le preoccupazioni dei genitori che hanno visto in questi anni diffondersi progetti e attività "sotterranei" di dubbio valore educativo e forzature ideologiche in nome dell’educazione "di genere".
L’allarme che si diffonde in questi mesi tra le famiglie
assume però talvolta forme esasperate. Si descrive, ad esempio, una deriva da parte del Parlamento e del Governo che non corrisponde alla realtà dei fatti. Spesso non è chiaro cosa si intenda per 'genere' – concetto in sé utile e legittimo – ma si agita, per contrastarla, la versione estremista queer, cioè un approccio che vorrebbe distruggere i codici della differenza sessuale. Un simile panico sociale non giova alla scuola. Non si sta approvando nessuna legge che preveda di importare la cosiddetta 'teoria del gender' nelle aule.
L’approvazione del comma 16 dell’art.1 nella Legge 107 ('Buona scuola') introduce l’educazione alla parità tra i sessi e la prevenzione della violenza alle donne. Si tratta anzitutto di 'educazione' e non di un insegnamento, nel rispetto di una materia tanto delicata che non va certo irrigidita in uno schema disciplinare. Il riferimento è alla Convenzione di Istanbul che mira a prevenire e contrastare violenza e discriminazioni. Non si può negare che l’omofobia o la violenza alle donne costituisca, a volte, un paravento dietro cui si nasconde il cavallo di Troia del 'gender'. Ma è altrettanto onesto dire che una denuncia di queste discriminazioni spesso è mancata, ed è invece a partire dai diritti di tutti che si costruisce credibilmente la difesa di un ordine simbolico originario universale.
Dopo l’epoca di un sesso biologico e anatomico che ha imposto il genere come modellamento di ruoli culturali e sociali, con costrizioni a danno delle donne (sesso debole) e degli omosessuali (femminilizzati, quindi gerarchicamente inferiori) non abbiamo bisogno, al contrario, di un genere che prevale sul sesso, con il conseguente rifiuto del corpo sessuato, della realtà, e soprattutto del giusto senso del limite che la differenza uomodonna porta con sé. Un mondo androgino non è il migliore dei mondi possibile se pensiamo, invece, a una cultura della relazione, del costituirsi come persone nell’alterità e nell’incontro. Ma se non partiremo dall’offesa che millenni di disuguaglianza hanno portato alla dimensione 'femminile' non riusciremo a costruire veramente la dignità delle persone, opponendoci a chi 'decostruisce' la realtà in modo ambiguo.
D’altra parte la psicoanalisi (confermata sempre più dalle ricerche sulle neuroscienze) spiega bene la schematicità e arbitrarietà dell’approccio che estremizza il gender. La differenza uomo-donna è fondatrice, è la matrice dell’identità personale. Tra l’estremo naturalismo (immutabile natura umana) e l’esaltazione del genere psichico (sono ciò che voglio essere) abbiamo da far crescere e educare nuove generazioni libere sia dai determinismi sociali sia dal relativismo arbitrario.
C’è bisogno quindi che le famiglie siano più presenti nelle scuole e non si sottraggano al patto di corresponsabilità da stringere nell’interesse degli studenti. Lo sforzo della politica dovrà essere quello di creare una scuola veramente aperta, dove ai genitori non solo venga chiesto sempre il consenso, ma in cui sia imprescindibile la loro reale partecipazione. Una scuola dove non vengano create nuove materie per parlare della vita, del sesso, e dei sentimenti, ma dove ci siano educatori e educatrici capaci di ascoltare con delicatezza, rispettare l’intimità e il pudore, fermarsi davanti al miracolo delle origini, difendere i giovani dalle trappole di una società trasformista e narcisista, schierarsi fermamente contro ogni (vera) discriminazione.

* Deputata e docente di Pedagogia, Presidente Alleanza contro l’intolleranza e il razzismo del Consiglio d’Europa
«Avvenire» del 14 agosto 2015

Chomsky: ecco il salto dell'uomo nel linguaggio

Parla lo studioso che sarà al Meeting di Rimini
di Andrea Galli
Da quando uscì nell’ormai lontano 1957 la sua prima opera di rilievo, Syntactic Structures, il nome di Noam Chomsky resta uno di quelli con cui chi si occupi di linguistica deve, volente o nolente, fare i conti. La sua idea di una grammatica profonda e 'universale' – l’insieme delle proprietà innate e comuni a ogni uomo su cui si svilupperebbero le grammatiche particolari delle differenti lingue – ha posto da allora un’obiezione radicale al linguaggio visto come frutto di apprendimento su una tabula rasa. Nella sua critica alla corrente del “comportamentismo” nella psicologia del 900 e ai suoi derivati, ha rimarcato l’unicità in natura del linguaggio umano. Giunto a 87 primavere, ma ancora in prima linea nel dibattito scientifico, Chomsky, statunitense, professore emerito di linguistica al Mit di Boston, sarà uno degli ospiti del prossimo Meeting di Rimini (martedì 25 agosto), dove interverrà insieme al neurolinguista Andrea Moro – introdotti entrambi dall’astrofisico Marco Bersanelli – sul tema Stupirsi di fatti semplici: il linguaggio dell’uomo e i limiti della comprensione

Professor Chomsky, dopo decenni di ricerche, cosa la impressiona di più del mistero del linguaggio?
«Proprio di questo parlerò a Rimini. Penso che il mistero più grande sia quello che possiamo definire classico, il problema che portò Descartes a postulare la res cogitans come una proprietà che distingue gli esseri umani da qualsiasi altro “animale- macchina”. La proprietà è il cosiddetto “aspetto creativo dell’uso del linguaggio”, l’abilità di ogni uomo di produrre nuove frasi, senza limite, per esprimere i propri pensieri in modi appropriati alle situazioni, ma non determinati da esse – “indotti” ma non “costretti” secondo i seguaci di Descartes – e di evocare in altri pensieri che loro stessi, come riconoscono, avrebbero potuto formulare».
Pensa ancora, come ha sostenuto anche nel recente passato, che sia difficile conciliare la nascita del linguaggio con l’attuale biologia evoluzionistica?
«È difficile in primo luogo per i problemi insiti nello studio dell’evoluzione delle capacità cognitive, in generale. Le evidenze sono estremamente sottili e l’attuale metodologia di indagine della biologia evoluzionistica non ci porta molto lontano. I problemi di fondo sono affrontati in un importante articolo scritto da un biologo evoluzionista di fama, Richard Lewontin, contenuto nell’opera enciclopedia del Massachusetts Institute of Technology Invito alle scienze cognitive.
Sono problemi di particolare rilievo per quanto riguarda il linguaggio perché si tratta di una facoltà così “isolata”, senza analogie significative in altre specie, che il lavoro comparativo ci dice assai poco. Tuttavia non mancano alcuni contributi degni di nota. Forse il più importante è quello di Eric Lenneberg apparso nel suo lavoro del 1967 Fondamenti biologici del linguaggio, che ha posto le basi per il moderno studio della biologia del linguaggio. Penso che le scoperte sul linguaggio negli ultimi anni ci permettano di portare avanti questi studi in modalità che io e altri abbiamo discusso».

Lei è d’accordo con chi sostiene che il linguaggio è il principale segno di una differenza ontologica tra uomo e animale?
«È la visione tradizionale: di Descartes, Darwin e molti altri, inclusi i principali studiosi contemporanei delle origini dell’uomo come Ian Tattersall. Penso sia una posizione di considerevole valore».

La ricerca sui traduttori automatici continua, con grandi investimenti: è un vicolo cieco o possiamo aspettarci in futuro un software in grado di fornirci una traduzione da una lingua stranier« affidabile e utile, benché mai perfetta?
«Le posso citare un aneddoto personale. Il mio primo incarico accademico 60 anni fa includeva il lavoro part-time a un progetto per una macchina in grado di tradurre. Spiegai subito che non vi avrei lavorato perché non esisteva da alcuna parte un approccio al problema, a livello scientifico, che partisse da principi riconosciuti e al momento ci saremmo dovuti accontentare di sforzi ingegneristici di basso livello, abbastanza rozzi. Molti anni dopo la Ibm e altri giunsero alle stesse conclusioni. I programmi oggi disponibili hanno una certa utilità, il che va bene, ma hanno poco valore intellettuale o scientifico. Non dovrebbe essere una sorpresa. È relativamente da poco che le scienze più avanzate hanno potuto dare un contributo significativo al potenziamento di capacità tecniche, siano esse ingegneristiche o mediche. E anche campi di gran lunga più semplici del linguaggio umano – per esempio la rimarchevole capacità di orientamento degli insetti o i loro sistemi di comunicazione – si situano ai limiti della ricerca scientifica. La comprensione scientifica è cosa ardua. La scienza esplora all’interno dei confini di ciò che è compreso e si concentra, tipicamente, su sistemi artificialmente astratti dai complessi fenomeni dell’esperienza. Ed è il motivo per cui, dopo tutto, gli esperimenti degli scienziati sono astrazioni e idealizzazioni di alto livello. Tradurre implica una serie di abilità e si fonda su delle risorse intellettive che vanno ben al di là del linguaggio stesso».
«Avvenire» del 6 agosto 2015

Postmoderno, nessuna data di morte. Il fenomeno è ancora vischioso

È chiara la data di nascita, 1979, più incerta e sfumata la fine di un pensiero leggero che ha contagiato letteratura, economia, arti. E che forse nella crisi del 2008 ha trovato la sua conclusione. In ogni caso, un movimento dato per morto o moribondo più volte, che sarà ricordato solo per le sue fragili utopie. Lo sostiene CARLO BORDONI su «la Lettura» in edicola da domenica 2 a sabato 8 agosto 2105
di Gilda Policastro
Le date, innanzitutto. Il postmoderno inizia nel ‘79, ma non si sa quando finisce, scrive Bordoni. Di sicuro non in un anno preciso, col countdown, e se di quello si è trattato, allora il megapetardo sarebbe esploso in mondovisione nel settembre 2001, quando l’attentato alle Torri Gemelle s’incaricò di porre fine al cosiddetto sciopero degli eventi, riannettendo la Storia all’accadere. Altro che testualità e simulacri: difficile pensare a un mondo fatto di pagine se ti prende la strizza ogni volta che devi salire in metropolitana, scriveva Romano Luperini ne La fine del postmoderno. Ma quale riabilitazione della storia, gli obiettavano critici e scrittori di altre generazioni (quelle cresciute appunto nella temperie postmodernista), da Scurati a Giglioli, da Aldo Nove a Nicola Lagioia: in realtà l’11 settembre è stato il più grande spettacolo televisivo del nuovo millennio, perciò ulteriore simulacro, dunque ancora postmoderno.
Quando lo si debba far cominciare, poi, è altrettanto arduo assodarlo, tanto più che i movimenti storico-culturali non partono col botto (meno che mai in mondovisione): tra Ceserani e Luperini, ad esempio, che l’autore dell’articolo cita come andassero all’unisono, ci fu un’accesa discussione negli anni Novanta. Se il primo retrodatava il postmoderno al dilagare delle tecnologie e al profilarsi dell’industria culturale di massa, per Luperini persino l’informatizzazione restava nell’alveo dell’unica vera rivoluzione moderna: quella industriale. Ma l’egemonia della Rete non si era ancora pienamente compiuta, niente che avesse toccato le forme di vita dei singoli, comunque, non uscivamo di casa portandoci il mondo appresso in sette centimetri per quattro.
Oggidì è di ipermodernità che si dibatte, di un neomodernismo che è tornato di prepotenza attuale con l’individuo disorientato, gli istituti sociali dissolti, le visioni del mondo ripudiate, senza trascurare le consapevolezze e le contraddizioni del post. Bordoni di letteratura parla pochissimo, eppure è lì che molto (o tutto) avviene. Che resistono i conflitti, che la realtà si rende plastica attraverso la rappresentazione, che i linguaggi diventano emblema, che il contenuto di verità si fa narrazione. Balestrini negli anni Sessanta scrive un romanzo col calcolatore: sperimentalismo, avanguardia, qualcuno dice postmoderno perché il senso si dà a caso, non c’è un messaggio, un’ideologia a priori. Negli anni Zero dello stesso romanzo vengono stampate copie infinitamente riproducibili: il senso è nell’operazione, nel procedimento che delegittima l’interpretazione in sé (ciascuno ha il proprio Tristano).
E allora? Allora forse c’è della complessità e della vischiosità in un fenomeno culturale che le date ante e post quem possono solo aiutare a caratterizzare. Dice: sono finite le grandi narrazioni, poi ti trovi davanti un Pynchon o Wallace e sono mille pagine di atroce godimento, di vite fatte di storie e altre storie ancora, che si moltiplicano, che debordano fino a esplodere (forzatamente fuori dal testo). Dice che è postmoderno citarsi addosso, chiosarsi, postillarsi, lo fa Eco (e sì, quello ce lo ricordiamo), ma lo fanno ancora e di più scrittori che, ritenuti santini o santoni, non si etichettano e che però lo sono un bel po’, postmoderni. Il Pasolini degli anni Settanta, ad esempio, che scrive l’opera sull’opera, facendo delle sue note critiche tramatura del narrato (il suo migliore, tra l’altro). In letteratura rispetto al postmoderno erano più quelli che passavano il tempo a dire no, per carità. Ma se i romanzi di oggi sono pieni di Livie che sorseggiano il caffè, ridateci pure l’ilare nichilismo, grazie, e finanche la disperata vitalità. Il postmoderno pareva essere una contemporanea danza della morte e ne fanno un eterno ballo sul cadavere. Sta di fatto che, in un modo o nell’altro, così, alla fine, se ne muore per forza.
«Corriere della sera» del 3 agosto 2015

13 agosto 2015

«La poesia è viva, ma ora bisogna ricostruire un pubblico competente»

Far leggere a scuola anche poeti più recenti e non fare più leva solo sull’emotività

Sul numero de «la Lettura» in edicola fino al 14 agosto, Paolo Di Stefano traccia una mappa della poesia oggi, che sarebbe in piena salute anche grazie a editori coraggiosi. Qui, sull’argomento, ospitiamo un intervento di Alberto Casadei, critico e docente di Letteratura italiana all’Università di Pisa
di Alberto Casadei
Ho sempre considerato molto significativo, sui destini della poesia in Italia, un piccolo episodio raccontato da Mike Bongiorno in una sua intervista televisiva. Pare che, quando presentava «Lascia o raddoppia», un giorno capitasse negli studi Giuseppe Ungaretti, che il giovane Mike non conosceva nemmeno di nome. Notò comunque il grande ossequio che tutti i tecnici e in generale i presenti profondevano verso questo signore già un po’ attempato, e capì che anche lui si doveva adeguare.
La nuova cultura massmediatica e quella umanistica s’incrociarono per un momento, e la seconda riceveva ancora il massimo rispetto dalla prima. Se adesso, mezzo secolo dopo, non è più nemmeno lontanamente così e se la poesia italiana non trova un consenso sociale credo dipenda da un insieme di fattori. Per molto tempo l’oggettiva difficoltà dei testi ha fatto preferire quelli per musica, che in Italia sono stati spesso di ottimo livello, dal pop di Mogol agli stili di cantautori raffinati come Conte o Fossati. Però in altre nazioni, come la Francia, la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, il circuito scolastico è riuscito a far mantenere un grande rispetto per la poesia classica e ad alimentare la lettura di quella contemporanea.
Da noi questo è stato molto difficile, soprattutto a causa di programmi rigidi che non favorivano la conoscenza dei poeti del secondo dopoguerra, anche solo attraverso un testo esemplare. Chi arriva all’università, pur iscrivendosi a corsi di laurea umanistici, spesso non ha mai sentito nemmeno nominare Vittorio Sereni o Andrea Zanzotto, e quasi mai perciò sente il bisogno di andare a leggere poeti contemporanei. Così io vedo attualmente un notevole problema, che ho già segnalato in un mio libro recente (Letteratura e controvalori, Donzelli 2014). Si tratta di ricostruire un pubblico di lettori di poesia che sia prima di tutto competente e non solo portato a seguire l’emotività o la facilità, che spesso dominano nelle scelte più diffuse, che siano i testi di Venditti, del Volo o di Alda Merini. Né si può affermare che sia la leggibilità a essere l’unico discrimine per una buona diffusione di una raccolta poetica: posso garantire che gli studenti si appassionano alla Primavera hitleriana, che componimento facile certo non è, purché si faccia capire loro la sua grandezza e anche la necessità di quella scrittura.
Persino liriche del tutto oscure, come quelle di Amelia Rosselli, possono essere apprezzate, se si riesce a far cogliere la loro sostanza drammaticamente umana: spesso invece vengono proposte poesie scritte in laboratorio, soltanto cerebrali, e le si impone come modelli unici. Ma attualmente, per ricreare un pubblico, occorre davvero aprirsi a ipotesi diverse e infatti alcuni sondaggi indipendenti, come quelli svolti per il premio Dedalus-Pordenonelegge, dimostrano che c’è grande attenzione per stili molto differenti tra loro come quelli di Milo De Angelis o Mario Benedetti, Antonella Anedda o Franco Buffoni, Maurizio Cucchi o Valerio Magrelli. Molti altri nomi si potrebbero aggiungere, ma l’obiettivo vero sarebbe quello di capire come questa ottima poesia possa entrare in circolo, senza bisogno di aiuti esterni o di operazioni calate dall’alto, che non penso servano a molto. Occorre un lavoro di base, per esempio lasciando libertà agli insegnanti delle scuole superiori di scegliere testi anche recentissimi per spiegare le forme della poesia, e costruendo poi percorsi che possano condurre anche a un incontro gli autori, oppure a un confronto con altri studenti di altre scuole.
Creare una massa significativa che sappia perché vale la pena di leggere in profondità, e non solo surfing, un testo poetico contribuirebbe a ricreare un interesse e un consenso non artificiali. Occorre però anche la capacità di trovare poesie che rappresentino il noi e non solo l’io. Quando leggo Nel sonno di Sereni io riconosco uno spaccato dell’Italia dalla Resistenza sino agli anni Sessanta: ecco una lirica non ideologica o di buoni sentimenti, ma che costringe a prendere atto del nostro presente. Individuare testi come questo e sostenerli nei giornali e nei blog sarebbe già un bel modo per ridare credito alla nostra poesia.
«Corriere della sera» del 10 agosto 2015

12 agosto 2015

La storia di William, l’uomo che dopo 90 minuti non ricorda più nulla

La sua memoria ha una «capacità» di appena novanta minuti. Da dieci anni vive costretto a tenere appunti delle sue giornate, ma nessuno sa i motivi del l’amnesia
di Elena Meli
Si sveglia pensando che sia sempre lo stesso giorno di dieci anni fa come il protagonista del film dei primi anni ‘90 «Ricomincio da capo», Bill Murray, che riviveva continuamente il «groundhog day», il giorno della marmotta. E per orientarsi nel mondo è costretto a ricorrere a espedienti come il personaggio di Memento, la pellicola del 2000 di Christopher Nolan, che usava fotografie, appunti e tatuaggi per ricordare. La storia di William è stata raccontata dal medico che lo ha in cura sulle pagine di Neurocase: the Neural Basis of Cognition, con la speranza di trovare casi simili e capire che cosa abbia provocato questa a dir poco inusuale amnesia.

Un intervento dal dentista
Tutto è iniziato dieci anni fa quando l’uomo, oggi trentottenne, si è sottoposto a un trattamento canalare dal dentista. Un’anestesia locale di routine, un’ora di intervento e poi, da quel momento, nessuna capacità di ricordare oltre novanta minuti: dopo un’ora e mezza la sua memoria si «resetta» e l’uomo non ricorda niente di quanto successo prima, così si sveglia ogni giorno convinto di dover uscire per andare all’appuntamento dal dentista. È consapevole della sua identità, la sua personalità non è cambiata, ma deve tenere ogni giorno un diario elettronico di quanto accade e si circonda di appunti e «tracce» che lo aiutino a capire che cosa gli sta accadendo senza «perdersi». «Non ci sono prove che il problema dipenda dall’anestesia o dal trattamento canalare, perciò non vogliamo che la gente pensi che sia colpa del dentista: non sarebbe etico né corretto, vista la mancanza di evidenze a sostegno di questa ipotesi. Certo dobbiamo tenere conto di quanto accaduto, anche se pensiamo che l’origine del problema risieda altrove – spiega Gerald Burgess dell’università di Leicester, lo psicologo clinico che segue l’uomo “senza memoria” assieme allo psichiatra Bhanu Chadalavada –. Abbiamo deciso di raccontare la storia di questo paziente proprio perché non abbiamo mai visto nulla del genere prima d’ora e non sappiamo come affrontarlo: rendere pubblico il caso potrebbe metterci in contatto con colleghi che abbiano gestito situazioni simili e possano darci aiuto».

Le cause sconosciute
L’obiettivo principale è trovare soluzioni per alleviare le indubbie difficoltà del paziente, ma gli specialisti vorrebbero anche capire perché si sia verificato un incidente così bizzarro. «In letteratura medica sono segnalati pochissimi casi di amnesia anterograda profonda simili a questo, tutti emersi dopo emergenze mediche acute in cui era coinvolta la colonna vertebrale: non abbiamo trovato perciò nessun legame con anestesie o trattamenti dentistici – racconta Burgess –. Per quanto è noto, amnesie gravi sono correlate ad alterazioni visibili nelle regioni cerebrali dell’ippocampo e del diencefalo che però in questo caso non ci sono, per questo stiamo prendendo in considerazione altre ipotesi. Ippocampo e diencefalo sembrano necessari per «trattenere» inizialmente le informazioni, che poi devono essere «fissate» attraverso processi neuroelettrici e neurochimici successivi. Una nostra ipotesi è che il paziente soffra di un deficit della sintesi di proteine specifiche che servono perché le connessioni cerebrali coinvolte nell’acquisizione di memorie possano «ristrutturarsi» e mantenere i ricordi nel lungo termine: lo sospettiamo perché lo stadio di questa sintesi proteica coincide con i 90 minuti dall’evento, oltre i quali l’uomo non ricorda più nulla, e perché il passaggio serve anche per fissare nel tempo memorie episodiche (ovvero quelle di un evento qualsiasi) e procedurali (quelle che servono per compiere un gesto o imparare qualcosa). Il paziente le ha perse entrambe e questo è molto insolito nei “tradizionali” casi di amnesia». Burgess spera che altri medici possano interessarsi al caso e approfondire i meccanismi che potrebbero averlo causato: la speranza è trovare una soluzione praticabile per restituire la memoria al paziente, costretto a vivere suo malgrado come un personaggio da film.
«Corriere della sera» del 12 agosto 2015