03 marzo 2013

Stacca la spina, penserai meglio

di Anna Lagorio
Che cosa si nasconde nella mente dell'investigatore più famoso del mondo? Nel libro, «Mastermind: how to think like Sherlock Holmes», Maria Konnikova propone un viaggio scientifico-letterario nella mente del detective inglese per svelare i processi che regolano chiarezza mentale, capacità deduttive, intuizione fuori dal comune.
«Il mio obiettivo non è quello di trasformare i lettori in detective», racconta l'autrice, che pubblica con Penguin. «Ciò che mi interessa è analizzare come funziona una mente eccezionale e offrire degli strumenti per imitarne i pattern cognitivi».
Per cominciare, sostiene che nel cervello convivano due modelli: da una parte il «sistema Watson» (veloce, caldo, disordinato), dall'altra il «sistema Holmes» (lento, freddo, riflessivo).
«Ognuno di noi vive in "modalità Watson" per la maggior parte del tempo, ma il passaggio da un sistema all'altro è possibile». Al centro di questo cambiamento, Konnikova pone la teoria del brain attic: secondo Sherlock Holmes, «le persone usano il cervello come una soffitta: ci mettono di tutto, lo stipano fino a farlo scoppiare e poi si lamentano, perché non trovano mai quello che cercano».
Mettere ordine nella propria soffitta cerebrale è essenziale per combattere la reticolarizzazione disordinata dell'informazione. «Dobbiamo scegliere quali pensieri far entrare e come organizzarli per richiamarli alla mente quando ne abbiamo bisogno. Solo così, possiamo entrare in uno stato di limpidezza mentale».
Per farlo, Konnikova propone di seguire le tecniche di mindfulness, elaborate a partire dagli anni Settanta da Ellen Langer, docente di psicologia ad Harvard, e da Jon Kabat-Zinn, professore emerito di medicina e fondatore della Clinica per la riduzione dello stress dell'Università del Massachussetts.
«La meditazione mindfulness permette di calmare la mente, focalizzare l'attenzione sul presente, eliminare tutte le distrazioni provenienti dall'esterno», scrive Konnikova e, nel libro, propone un excursus sulle ultime ricerche in materia.
Nel 2011, i ricercatori dell'Università del Wisconsin hanno osservato che l'esercizio costante migliora le capacità di regolazione del tono dell'umore. Ad Harvard, invece, la neuroscienziata Sara Lazar ha evidenziato che i praticanti di mindfulness presentano una corteccia mediale ispessita e un ampliamento dell'insula destra (aree legate all'empatia, all'osservazione e al problem solving). «Tutti gli ultimi studi hanno riscontrato inoltre che la mindfulness ha effetti positivi sulla neuroplasticità in età adulta. Le implicazioni sono affascinanti: basti pensare alla possibilità di utilizzare questo metodo per prevenire il declino cognitivo».
In quest'ottica, Sherlock Holmes è la metafora perfetta del pensiero-mindful: «Quando sta per risolvere un caso, il detective è al massimo della concentrazione. Per raggiungere questo stato mentale, si immerge nella sua poltrona di pelle, chiude gli occhi e unisce i polpastrelli delle dita di fronte a sé. Per Watson, Holmes non sta facendo niente, ma, in realtà, è proprio grazie alla calma apparente che il cervello può lavorare al massimo».
Per ottenere un risultato simile, Konnikova sostiene che sia necessario sfatare il mito della multifunzionalità: «Holmes è un unitasker eccezionale e il suo sistema cognitivo funziona perché è completamente ancorato al qui ed ora. Ma che cosa succederebbe se fosse costretto ad agire in modo multitasking?».
Per rispondere, l'autrice cita un esempio autobiografico: «Quando ho iniziato a scrivere questo libro, la mia soglia di concentrazione era molto bassa: controllavo la posta ogni tre minuti, poi passavo a Facebook o lanciavo un tweet. Così, ho installato Freedom, l'applicazione per bloccare le attività online e, all'inizio, anche dieci minuti mi sembravano lunghissimi. C'è voluto un po' per riportare il mio cervello a un regime unitasking, ma ne è valsa la pena perché ho guadagnato una qualità di pensiero limpido ed iperefficiente».
Il tema è caldo, come dimostra l'ultima edizione di Wisdom 2.0 (il «Ted dello spirito») che si è svolto a San Francisco dal 21 al 24 febbraio.
All'evento hanno preso parte ospiti illustri, come Jeff Weiner, ceo di Linkedin, Bradley Horowitz, vice-presidente di Google ed Ewan Williams, co-fondatore di Twitter. Durante i panel, hanno discusso con insegnanti di mindfulness (fra i big era presente lo stesso Kabat-Zinn), monaci buddisti e maestri yoga.
Dai talk è emerso un trend comune: il desiderio di trovare un equilibrio fra l'informazione iperreticolare e il proprio sé. Come? Attraverso l'applicazione della «regola Holmes»: trovare il tempo per fermarsi e staccare il cervello. Magari suonando il violino.
«Il Sole 24 Ore» del 3 marzo 2013

02 marzo 2013

La letteratura non è scrivere storie

L’intervento
di Philippe Djian
Il libro, la protagonista e... le virgolette
Philippe Djian, che col Festival sarà a Roma, è nato a Parigi nel 1949. Autore di culto, tradotto in Italia da Voland (che pubblica sia le sue ultime prove sia la sua backlist), è diventato celebre con «37˚2al mattino», dal quale Jean-Jacques Beineix ha tratto il film «Betty Blue». Per «la Lettura» racconta come scrive e la genesi del suo ultimo libro (vincitore del premio Interallié) che Voland pubblicherà il 7 marzo.

Il titolo di questo romanzo è un “Oh…”, sospeso tra virgolette e con i puntini di sospensione appunto. Quando ho consegnato il manoscritto alla mia casa editrice, Gallimard, mi hanno ridato le prime bozze con il titolo tra virgolette francesi, tipo le caporali. Ho chiesto allora che venissero mantenute le virgolette inglesi, dei piccoli apostrofi un po’ sospesi in aria, perché dal punto di vista visivo corrispondono meglio alla mia idea del libro e poi sono più aerei e sono le ultime parole dell’eroina, se vogliamo chiamarla eroina, il personaggio principale del libro, che è una donna, Michèle. Questo “Oh…” è una risposta che in realtà non lo è veramente. La migliore amica di Michèle ha lasciato il marito e le chiede se le affitta una stanza di casa sua. Michèle non risponde né sì né no, anche se io penso che il suo sia un sì, ma non può dirlo subito.
Mi piaceva chiudere questo romanzo con qualcosa di così aereo tanto più che, grazie alla simpatia e alla comprensione di Antoine Gallimard, ho potuto ottenere queste virgolette inglesi sulle copertine bianche della casa editrice, perché — cosa che non sapevo — c’è un solo font per la famosa copertina bianca. Quando ho chiesto di cambiare le virgolette, le persone addette alla composizione erano un po’ preoccupate, era qualcosa di troppo rivoluzionario… Abbiamo dovuto fare appello direttamente ad Antoine Gallimard, che sorridendo ha dato naturalmente il suo consenso.
Quando ho scritto la prima frase, non sapevo ancora che fosse una donna a parlare. Mi è venuta una frase su un graffio a una guancia e ho cercato di lavorarci. Mi sono detto che non poteva essere pronunciata da un uomo e così mi sono incamminato verso Michèle. In quel momento non sapevo se quella voce avrebbe parlato per un paragrafo o per tutto il libro… non so perché Michèle è caduta e si ritrova a terra. È la lingua che induce la storia. Quando scrivo sento che è la scrittura che costruisce. E non è la storia di uno stupro: lo stupro è ciò che dà il via al romanzo. È piuttosto il romanzo di una donna che è capace di rialzarsi. Quando ho iniziato, istintivamente ho pensato che se provavo a mettermi nei panni di una donna e se provavo a parlare come una donna sarei andato a sbattere contro un muro, se invece rimanevo uno scrittore uomo ma trattavo i pensieri, le aspirazioni e le cose che interessavano questa donna, come un uomo che scrive al posto di una donna, potevo arrivare a qualcosa di interessante. La cosa buffa è che molte lettrici mi hanno detto che sembrava proprio una donna a parlare, ma io non credo affatto. La cosa interessante è che si percepisce che dietro la voce di quella donna c’è un uomo, il lato femminile di uomo.
Scrivendo questo libro mi sono immerso in un’atmosfera tremenda e sono gli uomini a renderla così tremenda. La storia racconta trenta giorni di una donna. È il mese di dicembre: «Dicembre è il mese in cui gli uomini si ubriacano — uccidono, violentano, si accoppiano, riconoscono bambini non loro, scappano, si lamentano, muoiono».
Avrebbe potuto essere anche agosto, noi uomini siamo altrettanto terribili negli altri mesi.
Le mie storie sono come delle favole crudeli. Nelle prime righe sapevo soltanto che Michèle non vedeva il padre da molto tempo, ed è lei che dopo mi ha raccontato che suo padre era in prigione, ed è lei che mi ha spiegato che cosa era successo. La serie di problemi che Michèle ha con la sua famiglia, non è realistica, non è plausibile, ma la letteratura perme non è fatta per raccontare la realtà.
La storia per me non è molto interessante. È un po’ come un campo da gioco, può accadere qualsiasi cosa in quel campo, ci si può divertire, può succedere di tutto ma il mio lavoro è al di fuori. Io lavoro sulla scrittura. All’inizio non ho assolutamente nessuna idea di quello che accadrà. Ho sempre in mente i registi di cui mi sono nutrito nella mia gioventù, registi come Ford o Hawks, e loro come me non erano interessati alla storia; si può magnificare qualsiasi cosa se si sa lavorare la lingua.
Tutti i miei romanzi hanno sempre avuto come protagonisti scrittori perché volevo parlare di letteratura, volevo dire che la letteratura non è raccontare storie, la letteratura è altro, provavo a usare espedienti e temi nei quali potevo introdurre la letteratura e la lingua. Qui ho deciso di cambiare, non ci sono più scrittori ma sono sempre personaggi che hanno a che fare con la lingua. Persone capaci di riconoscere un buon libro, una bella sceneggiatura. Michèle ammette di non essere in grado di scrivere una buona sceneggiatura, ma sa riconoscere quali sono quelle buone. Io sono incapace di dire perché la mia scrittura possa interessare qualcuno, so che interessa me.
Come esergo del romanzo ho messo una citazione di Eudora Welty. È una scrittrice incredibile che ho scoperto per caso. Negli Stati Uniti è molto nota. È di una freschezza e inventiva incredibile, c’è tutto quello che negli scrittori mi appassiona. Dovrebbe essere l’esempio per molti giovani autori: la sua scrittura è superba.
(Traduzione di Valentina Parlato)


«Corriere della Sera - Suppl. La letura di fine febbraio 2013» del gennaio 2013

Il congedo del Papa, una pagina di cinema

A fil di rete
di Aldo Grasso
Resterà come uno dei momenti più struggenti della nostra tv
Il momento era solenne, il cerimoniale aiutava molto, la location faceva il resto, ma il congedo da Roma di Benedetto XVI, dal punto di vista puramente televisivo, resterà come uno dei momenti più struggenti della nostra tv. Prima c'è stato il commiato dai cardinali e la memoria si è messa a rincorrere altre immagini, dai vecchi reperti in bianco e nero dei padri conciliari fino al film di Nanni Moretti «Habemus papam». Poco dopo le 17, però, dopo un saluto commosso ai suoi più stretti collaboratori, il Papa ha raggiunto in auto l'eliporto. E qui è iniziata una sequenza senza precedenti.

LA SCENA - Il volo su Roma del Pontefice, relativamente a bassa quota, mentre le campane suonavano a distesa, è qualcosa che esce da codici cerimoniali o da regie preventivate: «Spiritus ubi vult spirat», dice l'evangelista Giovanni. Sembra più frutto di una di quelle concomitanze celesti che ogni tanto si manifestano: un elicottero che inquadra un altro elicottero che volteggia a fianco del Cupolone, sorvola il Tevere, punta il Colosseo, dove normalmente si celebra la Via Crucis, il Venerdì Santo, e poi passa sopra le case di Roma, la gente che guarda in alto e saluta. In meno di venti minuti, l'elicottero atterra a Castel Gandolfo. L'ultimo saluto dal balcone, la piazza gremita.

I GESTI - Più delle parole contano i gesti. Il Papa si ritira, una guardia svizzera, prima di cedere il comando alla gendarmeria, appoggia l'alabarda al muro e, alle 20 in punto, chiude il portone, con un effetto cinematografico a nero. The End. Il pontificato di Benedetto XVI è stato meno mediatico del precedente, più incentrato sul valore della parola. E qui si gioca il senso profondo della parola carisma, ai tempi della tv. Esiste il carisma mediatico o è una contraddizione in termini? Il Papa del logos si è congedato con una pagina di grande cinema.
«Il Corriere della Sera» del 2 marzo 2013

Papa Borgia avvelenato per fiction

Polemiche
di Franco Cardini
Papa Benedetto XVI ha aperto a Twitter: e tutti ne hanno elogiato la tempestiva lungimiranza. E sai la novità. Fu Pio II a interessarsi a quella diavoleria della stampa ideata da Johann Gutenberg, mentre gli illuminati principi del Rinascimento la ritenevano una schifezza e il duca d’Urbino vietava a quei libracci unti d’inchiostro su carta di stracci l’ingresso nella sua aulica biblioteca tutta oro e pergamena.
Fu Innocenzo VIII a dar fiducia a quel matto di marinaio genovese che credeva possibile navigare per l’oceano. Fu Leone XIII ad accettare di farsi riprendere da quei bei tipi dei fratelli Lumière per la loro bizzarra invenzione delle forze in movimento. Fu Pio XI ad aprire una Radio Vaticana quando ancora i messaggi via etere erano sperimentali. Ma anche altri protagonisti della storia non hanno scherzato. Prendete il re d’Inghilterra. Enrico VIII, abilissimo nel far credere al mondo con i pamphlets dei suoi «intellettuali organici» di aver introdotto la Riforma nel suo Paese per il bene della Chiesa e non per i suoi interessi politico-economici.
Sua figlia Elisabetta I fu geniale nell’inventare in un sol colpo due «Leggende nere» destinate a durare nel tempo: quella contro la Spagna cattolica rea di ogni infamia e quella contro il papato eterno nemico di qualunque verità e libertà. I protestanti hanno bruciato molte più streghe dei cattolici ma ancora oggi nelle nostre scuole si continua a insegnare che uniche e responsabili di quei massacri furono la Chiesa e l’Inquisizione. Nel nome del no popery, il «spapizzazione», Cromwell massacrò scozzesi e irlandesi: eppure oggi sono in molti a pensare che quel bieco tiranno fosse solo un innocuo filosofo sensista...
Sorbiamoci dunque felici il polpettone televisivo ormai nemmeno troppo recente, ma abilmente riciclato, che il piccolo schermo ora ci propone e che entrerà a vele spiegate nelle nostre famiglie domani su La7. Tema: i Borgia. Se n’è occupato anni fa perfino Orson Welles: perché ora non rifilarci una lunga fiction dal sapore di «verità», con tanto di interpretazione di Jeremy Irons? I Borgia: il papa corrotto Alessandro VI, il figlio Cesare tiranno e assassino, la figlia Lucrezia debosciata e avvelenatrice. Sangue e sesso nel XV-XVI secolo: che volete di più? Con i soliti luoghi comuni, in parte puramente calunniosi, in parte spezzoni di verità cronistica montati alla rinfusa e cuciti insieme per squadernarci davanti una storia vista dal buco della serratura, tutta vizio prepotenza e intrighi, in cui non ci si cura affatto di situare quel che si narra nel contesto degli eventi e nel quadro socio culturale del tempo.
L’aveva già insegnato Voltaire: «Calunniate, calunniate: qualcosa resterà». Accidenti se n’è restato... Fu purtroppo un grande storico dell’Ottocento, Ferdinand Gregorovius, ad impiantare solidamente la «Leggenda nera» della grande famiglia aragonese legittimando l’idea, largamente inesatta, che le sue vicende tra il papato di Alessandro (1492-1503) e la morte di Lucrezia (1519) fossero solo una lunga sequenza di infamie. Scompare, nel polpettone televisivo, qualunque altro aspetto: la lungimiranza teologica e disciplinare del pur non a torto discusso papa Alessandro VI, di recente sottolineata anche da una bella pubblicazione scientifica dell’Istituto storico italiano per il Medioevo presieduto da uno studioso come Massimo Miglio.
Papa Borgia fu senza dubbio uomo del suo tempo, con tutto il peso morale che ciò può comportare: e peccatore fin che volete. Ma fu anche un papa straordinario: avviò la riforma degli ordini religiosi, mostrando di aver compreso i mali della Chiesa del tempo (quelli che avrebbero condotto alla rivolta di Lutero); sistemò la contesa ispano-portoghese dopo la scoperta del Nuovo Mondo, imponendosi per una versione equilibrata del problema.
Fu uno statista accorto che, riordinando l’amministrazione, le finanze e l’istituzione dello Stato della Chiesa e ponendo fine a molti abusi, dette da competente un energico impulso agli studi di diritto canonico, necessario per il riordino della gerarchia; fu paziente perfino dinanzi agli attacchi di Gerolamo Savonarola, che infatti fu vittima degli odii delle fazioni fiorentine più e prima che della sua volontà. Ma nella serie tv scompaiono anche (oltre all’abilità e al cinismo) le lucide dosi politiche e diplomatiche di Cesare, il «Principe Valentino»; l’intensa e ricca vita spirituale di Lucrezia nella seconda parte della sua esistenza, quando come duchessa di Ferrara fornì prove di generosità e di autentica <+corsivo>pietas<+tondo> religiosa che sono state sottolineate da un’altra studiosa, Gabriella Zarri. Infatti Lucrezia morì nella fede, terziaria francescana e amica dei poveri.
Niente da fare: tutto viene macinato e sepolto nella valanga di luoghi comuni e calunnie, che per giunta — c’è da giurarci — saranno salutate come oro colato da un branco di teledipendenti. Dal semplice punto di vista storico, la fiction è un colabrodo di errori e di sciocchezze: a proposito del Nuovo Mondo da poco allora scoperto, si parla tranquillamente di «America» (entrato in uso solo a partire dal 1507, in seguito alla pubblicazione della Cosmografiadel geografo Martin Waldseemüller); il povero Gerolamo Savonarola viene arso sul rogo a Roma anziché a Firenze; Jem Sultan, uno sfortunato pretendente al trono ottomano venuto in Europa a cercare aiuto contro il fratello e rivale Bajezit e morto di polmonite nel 1495 a Napoli dove si trovava ospite — ostaggio di Carlo VIII — viene fatto uccidere dal malvagio pontefice, ovviamente col veleno. E mi fermo qui. Ma, a proposito di veleni, in questo brutto pasticciaccio televisivo ce ne sono davvero tanti.
«Avvenire» del 2 marzo 2013

01 marzo 2013

Religioni e laicità, l'alleanza possibile

La proposta del filosofo canadese Taylor
di Jocelyn Maclure e Charles Taylor
L’evoluzione delle società democratiche contemporanee suggerisce che sia giunto il momento di ripensare la laicità nel suo senso e nei suoi fini. Nonostante la questione del rapporto tra potere politico e potere spirituale sia stata centrale da sant’Agostino fino all’età moderna, le sfide del presente hanno una natura diversa. Sebbene si pensi in prima istanza che l’oggetto di un regime laico sia la relazione appropriata tra Stato e religioni, il suo compito più grande e urgente è far sì che oggi gli Stati democratici si adattino in modo adeguato alla profonda diversità morale e spirituale che esiste all’interno dei loro confini. Infatti non si vedono ragioni di principio per isolare la religione, relegandola in una categoria a parte rispetto alle altre concezioni del mondo e del bene. Ma i rapporti tra persone religiose e non religiose sono spesso segnati da incomprensione, da sfiducia, a volte anche da intolleranza reciproca. Difficilmente atei e agnostici riescono a concepire che vi siano individui che aderiscono ancora oggi a credenze religiose la cui verità non può essere stabilita in modo scientifico. Persone religiose pensano che i «materialisti», nel senso filosofico del termine, siano incapaci di condurre un’autentica vita morale, di abbracciare cause che vadano oltre il proprio interesse egoistico e che di conseguenza abbiano una concezione riduttiva dell’esistenza umana. I qui pro quo e i fraintendimenti riguardano a volte gruppi specifici. Molti considerano l’islam intrinsecamente incompatibile con i valori democratici e liberali. Alcuni islamisti considerano la cultura occidentale irrimediabilmente vile e corrotta.
Tuttavia, la diversità morale e religiosa è una caratteristica strutturale e, per quanto si può giudicare, permanente delle società democratiche. Persone che adottano rappresentazioni del mondo e schemi di valori differenti, a volte inconciliabili, devono imparare a cooperare e a risolvere i propri dissidi. La cooperazione sociale nelle società differenziate trova origine nella possibilità di accordo tra cittadini ragionevoli sui principi di base dell’associazione politica. La stabilità e la coesione di queste società dipendono così dalla volontà dei cittadini, che hanno concezioni del bene divergenti, di accettare l’autorità dei principi comuni che fondano le istituzioni politiche. In un certo senso si tratta di uno sviluppo dell’ideale di tolleranza che ha permesso di porre fine alle guerre di religione. Sembra ragionevole pensare che un’etica del dialogo che rispetti le differenti prospettive metafisiche e morali sia la migliore per sostenere la morale politica minima o il «consenso per intersezione». Ma come conciliare quest’etica del dialogo col fatto che gli Stati liberali e democratici si definiscono come «società aperte», ossia società nelle quali regna la libertà di espressione? Come ha sottolineato Karl Popper, è proprio l’istituzionalizzazione della libertà di pensiero e di espressione che protegge queste società dalla stagnazione e dalla tentazione di chiudersi in loro stesse. In questo modo le persone religiose vengono puntualmente esposte a punti di vista che rimettono in questione la validità dei propri quadri di riferimento o li irridono.
Alcune opere artistiche – pensiamo ai Versetti satanici di Salman Rushdie, alle vignette su Maometto su un quotidiano danese e ai film di Martin Scorsese e Mel Gibson su Cristo – vengono infatti considerate dai credenti offensive, quando non esplicitamente blasfeme. Dobbiamo limitare la libertà di espressione in nome del rispetto verso ciò che pertiene, per alcuni credenti, alla sfera del sacro? Non siamo di questo avviso. Salvo alcuni flagranti casi di diffamazione o di incitamento all’odio, lo Stato non può restringere la libertà di espressione di alcuni con la scusa che delle idee o rappresentazioni finiscano per profanare quello che, per altri, è sacro. Lo Stato pluralista non può adottare né l’ontologia generalista, secondo la quale l’universo deve essere compreso nei termini della diade sacro-profano, né una concezione specifica del sacro. Non si vorrebbe certo vivere in una società in cui Rushdie o Richard Dawkins siano censurati. Così come la libertà di religione non comporta il diritto di non essere esposti a simboli religiosi, il prezzo da pagare per vivere in una società che tutela l’esercizio delle libertà di coscienza e d’espressione è quello di accettare di essere esposti a credenze e a pratiche che giudichiamo false, ridicole o offensive. Posto questo, quando si tratta della pubblicazione di testi o di contenuti artistici, non sarà auspicabile che si cerchi innanzitutto di comprendere come il nostro atto verrà percepito dagli altri e di anticipare il suo impatto sul legame sociale? Mentre le allusioni ironiche di Rushdie nei Versetti satanici sono al centro di un’opera che offre un ritratto penetrante della condizione umana nell’epoca della globalizzazione, è probabile che la ripubblicazione delle vignette su Maometto non abbia fatto altro che rinfocolare il conflitto.
Allo stesso modo, è possibile per i capi religiosi fornire indicazioni su come le religioni ci diano accesso a un modo unico di abitare il mondo moderno, senza per questo lasciare intendere che una vita condotta secondo una visione secolare del mondo e del bene sia inevitabilmente incompleta o corrotta. Fatto interessante, i due filosofi contemporanei più legati alla ripresa del razionalismo kantiano – John Rawls e Jürgen Habermas – sono entrambi giunti alla conclusione, dopo aver sostenuto concezioni più restrittive, che le prospettive religiose siano fonti morali che possono contribuire in modo significativo all’approfondimento della cultura democratica.
«Avvenire» del 26 febbraio 2013

Miracoli a scuola

Il fascino della conoscenza ai Colloqui fiorentini
di Alessandro D’Avenia
Cosa fanno duemila ragazzi delle superiori a Firenze in un centro convegni per tre giorni? Non è l’inizio di una freddura, anche se la risposta è da teatro dell’assurdo: partecipano a un convegno su Verga. La mattina fuggono dalla loro scuola e poi paradossalmente ci «tornano», a loro spese. Ho partecipato già l’anno scorso ai Colloqui fiorentini con una classe. Quest’anno dovrò parlare di Verga e dei suoi racconti più belli. Costretto, per fortuna, a rileggerli, do ragione ancora una volta all’adagio antico sui libri: non multa sed multum. Rimpinziamo i ragazzi di nozioni, sacrificando la profondità al dio muto della quantità. Ci nascondiamo spesso dietro analisi del testo fini a se stesse (vivisezioni che uccidono il testo-cavia): è come spiegare la formula di un profumo, prima di farlo annusare.
Spesso la letteratura italiana a scuola diventa noia. La bellezza non può annoiare: allora siamo noi noiosi. L’opera d’arte, scrive Rilke, ci dice: «Cambia la vita». Per questo a volte spieghiamo la formula, invece di annusare il testo, perché il testo non dice nulla a noi (e qualcosa bisogna pur dire: nozioni). Il programma ci insegue? E l’uomo forse no? Il reale è profondo, non è superficie, si manifesta sì in superficie, ma è profilo che, seguito fino in fondo, conduce alla pienezza, sfidando l’intelligenza a fare il suo mestiere: intus legere (leggere dentro). Se non fosse così non esisterebbe l’arte: anticamera della grazia. Lo sapevano gli antichi greci, che crearono statue di dei per parlare con gli dei, mica per abbellire il soggiorno. L’anticamera a scuola spesso è priva di porte, perché dell’infinito si ha paura. Il mistero? Roba da bambini... o da poeti. E lo sa anche Jeli, il pastore di Verga: per lui «ogni cosa aveva il suo aspetto e il suo significato, e c’era sempre che vedere e che ascoltare in tutte le ore del giorno».
Mi sono divertito l’anno scorso ad ascoltare la critica di un insegnante al mio intervento su Foscolo, durante il quale avevo osato dire che non serve molto sapere i tipi di narratore dell’Ortis se non si legge l’Ortis per intero. Definì la mia affermazione «pericolosa». Dopo una laurea e un dottorato in filologia classica, io trovo pericoloso che si sappia solo cosa è la focalizzazione multipla e non si abbia il tempo di leggere Omero, Dante, Shakespeare per intero.
L’insegnante inoltre si lamentava del fatto che si era parlato troppo di Dio. Non lo riteneva opportuno. Eppure l’Ortis ne parla ossessivamente, soprattutto nel finale. In «Vere presenze» (libro che tutti gli insegnanti devono leggere) G.Steiner, ebreo agnostico, sostiene che l’arte non parla d’altro che di Dio: o per presenza o per assenza. Se la parola Dio, come domanda sul mistero, diventa eccessiva, allora Dante, Shakespeare e Dostoevskij sono eccessivi. O noi pusillanimi?
Non si tratta di cristianizzare gli autori, né di cercare la citazione che tradisce una loro appartenenza: clericalismo letterario. Si tratta di dialogare rimanendo se stessi, e lasciando lo scrittore essere se stesso. Solo così c’è dialogo, il logos viaggia tra (dia-) lettore e autore, in cerca della verità, che trascende la relazione che è l’atto della lettura. Così ho letto ripetutamente Malpelo e Jeli, fino a farmeli amici, con quella che Charles Peguy chiama una lettura «ben fatta»: «Non è nientemeno che il vero e persino reale compimento dell’opera. Si tratta di una collaborazione letterale, intima, interiore e anche di una sconcertante responsabilità.
Vi è un destino meraviglioso, quasi spaventoso, nel fatto che tante grandi opere possano ancora ricevere un perfezionamento, un compimento dalla nostra lettura. Che spaventosa responsabilità per noi». Io la chiamo lettura «responsabile»: risponde al testo letto e riletto, in prima persona, con matita, anima e corpo. Quante cose ho scoperto ri-ri­rileggendo: di me, dei miei ragazzi, del mondo. La letteratura è un modo per origliare se stessi quando non sappiamo ascoltarci, vagliare se i pensieri che abbiamo sono veramente nostri e imparare a rimettere a fuoco la vita, per cambiarla. Ma ogni cambiamento origina nella vita interiore, anche se l’occasione viene da quella esteriore.
Leggere moltiplica le occasioni. Quei racconti hanno risvegliato in me la misericordia per l’uomo, anche quello malvagio, per l’uomo che fa il male solo perché non è amato, la capacità di sentire l’altro uguale a me, nonostante le sue debolezze e la sua estraneità, fino a perdonarne l’antipatia e avversità, trasformando quell’odio prima in pietas, poi in empatia. Sapessimo noi leggere di più e meglio, capiremmo cosa cercano quei duemila ragazzi a un convegno su Verga, dopo mesi di lavoro, ciascuno con un elaborato personale. Cercano la vita e la grazia. Miracoli? No. La normalità e la nostalgia di come potrebbe essere, di come sarebbe potuta andare. La scuola.
«Avvenire» del 28 febbraio 2013

I falsi ricordi sono veri

Misteri della mente. Uno studio apre prospettive su un ambito che va dalle corti dei tribunali all’elaborazione della propria infanzia
di Massimo Piattelli Palmarini
La memoria costruisce eventi inesistenti. La neurobiologia indaga
Osserviamo bene la seguente lista di parole, che ci viene richiesto di ben memorizzare: guanciale, sogno, lenzuoli, materasso, sonno. Tra una settimana, ci verrà chiesto se alcune parole apparivano o meno in questa lista. Materasso? Sì. Oro? No. Letto? La stragrande maggioranza di noi, in perfetta buona fede, dirà che era nella lista. Ma non c’era! Adesso immaginiamo di guardare un breve filmato di un uomo che borseggia una donna, estrae il portafoglio dalla borsetta e si dilegua. La donna non sembra nemmeno essersene accorta. Qualche istante dopo ci sediamo in una stanza attigua e un signore (in realtà uno psicologo che sta effettuando un esperimento) commenta con noi il filmato. «Ha visto? Il malandrino ha quasi slogato un polso alla poveretta, torcendole il braccio. Ma come, non ha visto questo? Era evidentissimo!». Niente di tutto ciò era, in realtà, nel filmato. Una settimana dopo, ci viene chiesto di descrivere a parole cosa si vedeva nel filmato. Ebbene, in perfetta buona fede, forse ci ricorderemo che il ladro aveva forzato il braccio della signora.
Sul tema dei falsi ricordi, l’impatto dei quali può essere essenziale nelle indagini poliziesche, nei processi e nella vita, sono stati pubblicati nei giorni scorsi due importanti resoconti. Uno del celebre psichiatra Oliver Sachs, sulla «New York Review of Books», e uno di due insigni neuroscienziati cognitivi, Daniel Schacter (Harvard) ed Elisabeth Loftus (Università della California a Irvine) in un numero speciale di «Nature Neuroscience» interamente dedicato alle basi neuronali della memoria. Sachs racconta in un suo libro di aver avuto per tutta la vita due vivissimi e dettagliatissimi ricordi di due scene relative ai bombardamenti sull’Inghilterra, quando era ragazzino. Uno di questi, molto probabilmente, è genuino ma l’altro, come Sachs ha dovuto con sorpresa e sgomento ammettere recentemente, è certamente falso. Suo fratello, di lui più grande, assicura che il piccolo Oliver non era in quella cittadina, in quel momento.
Elisabeth Loftus ha studiato a lungo le illusioni mnemoniche di testimoni oculari in sede processuale. È stata spesso chiamata dagli avvocati di difesa come testimone esperto e ha raccolto le sue preoccupanti esperienze in un noto saggio. In anni recenti, ha anche esaminato vividi e sinceri ricordi che alcune persone avevano dimolestie sessuali subite in tenera età e ha potuto obiettivamente dimostrare che era impossibile fossero veri. Ne è seguito un pandemonio. È stata accusata (ma era un’accusa senza alcun fondamento) di condonare le molestie sessuali sui minori e di sostenere (di nuovo un’accusa senza alcun fondamento) che tutti i ricordi di molestie sessuali sono falsi. Una petizione con molte firme ha perfino tentato di farla licenziare dall’università nella quale insegna. Per fortuna, ora la tempesta si è placata. Schacter e Loftus, nel loro articolo su «Nature Neuroscience», riportano un caso di falsa identificazione di un presunto colpevole da parte di un testimone oculare, avvenuto in un processo nel New Jersey nel 2011. E sottolineano che, in oltre tre quarti dei 250 casi nei quali la prova del Dna ha scagionato un presunto colpevole, l’ingiusta condanna era dovuta a un errore di identificazione da parte di testimoni oculari. La memoria può ingannarci, senza che ce ne rendiamo conto. La Corte Suprema del New Jersey, che ci si augura sia imitata in altri Stati, ha recentemente decretato che i giudici devono esporre ai giurati la possibilità di errori di memoria e di identificazione, involontariamente commessi dai testimoni in un processo. Schacter e Loftus si soffermano anche in dettaglio sugli strumenti scientifici oggi disponibili per rivelare i falsi ricordi. Numerose pubblicazioni specializzate rivelano che la risonanza magnetica funzionale e raffinati tracciati di elettroencefalogrammi possono essere di aiuto. Ma si tratta di esperimenti di laboratorio, in condizioni di rigorosi controlli sperimentali, in soggetti perlopiù giovani e non emotivamente coinvolti. Quindi, pur sottolineando recenti progressi nella collaborazione tra neuroscienziati cognitivi, autorità inquirenti, giudici e pubblici ministeri, ammettono che una prova del nove dei falsi ricordi su basi neurobiologiche ancora non esiste. Solo progressi tecnologici futuri ce la potranno dare. La prudenza e la consapevolezza della falsità di alcuni (si noti bene, solo alcuni) ricordi è tutto quanto possiamo, per adesso, raccomandare.
Allarghiamo ora brevemente il panorama sulla comprensione delle basi neurobiologiche della memoria riportate nel numero monografico di «Nature Neuroscience». Si spazia dall’epigenetica della memoria e dell’apprendimento, cioè i marcatori chimici che l’esperienza quotidiana deposita sul Dna, a come i neuroni dell’ippocampo regolano la percezione dello spazio e la memoria spaziale, al ruolo del sonno e del sogno nel consolidamento dei ricordi, e ben oltre.
Chiedo all’insigne neurobiologo cognitivo Lynn Nadel dell’Università dell’Arizona, uno dei pionieri dello studio della memoria, di riassumere la tendenza generale di queste ricerche negli ultimi anni. «Innanzitutto si è passati dallo studio di singoli moduli allo studio di intere reti. Per esempio, l’integrazione tra ippocampo e corteccia entorinale (una struttura contigua all’ippocampo stesso, ndr) nel costruire la memoria spaziale rivela un sistema di immensa complessità che lentamente si comincia a capire. Sorprendentemente,ma sicuramente, questo stesso circuito è responsabile anche della memoria episodica.
Inoltre, l’epigenetica è adesso un argomento centrale, cioè come le esperienze più antiche modificano il funzionamento dei neuroni, trasformando l’antica opposizione tra natura e cultura. Tutto l’arco dello sviluppo del cervello, dalla nascita all’adulto, è sotto analisi. Le tecniche di imaging sono oggi immensamente più raffinate». Conclude sottolineando che le nuove aree ibride, talvolta un po’ strane, ma interessantissime, come la neuro-economia, la neuro-etica, la neuro-giurisprudenza e la neuro-estetica, spalancano settori di ricerca sperimentale ancora ieri impensabili. Tra tanto comprensibile entusiasmo una parola di prudenza ci viene da Oliver Sachs. Ronald Reagan, nella sua campagna elettorale del 1980, raccontò quasi piangendo un episodio di eroismo di un pilota durante la Seconda guerra mondiale. Fu ricostruito che non era un episodio reale, ma una sequenza di un film di guerra del 1944. Anche i presidenti possono nutrire falsi ricordi.
«Corriere della Sera - Supp. La lettura» della fine di febbraio 2013

Atlante populista italiano: ciò che fanno i veri governanti

di Ernesto Galli Della Loggia
È populista chiedersi quali «sacrifici» hanno compiuto l'on. Rosy Bindi, faccio per dire, o chessò il senatore Latorre, in questi ultimi quindici mesi, mentre alcune centinaia di migliaia di italiani perdevano il loro posto di lavoro? È populista chiedersi quali effetti del «rigore» governativo abbiano subito l'on. Bondi o l'on. Cesa, sempre tanto per dire, nello stesso periodo, mentre ottocentomila famiglie italiane chiedevano la rateizzazione delle bollette della luce e del gas che non riuscivano a pagare, o decine di piccole aziende e di negozi erano costretti ogni giorno a chiudere? È populista? Forse sì, chissà. Ma allora, per passare dalle stalle alle stelle, erano populisti anche i sovrani inglesi quando decidevano durante la Seconda guerra mondiale di restare a Buckingham Palace nel cuore della Londra colpita ogni notte dai bombardieri della Luftwaffe; o forse erano populisti ? e va da sé della peggior specie ? anche i membri dello Stato Maggiore tedesco che nell'autunno del '42 decidevano di consumare alla mensa di Berlino lo stesso misero rancio che a qualche migliaia di chilometri di distanza consumavano i loro commilitoni assediati senza speranza a Stalingrado.
Eh sì, orribili populisti, ci assicurerebbero i sapientissimi nostri intellettuali che sermoneggiano in ogni sede su che cosa è la vera democrazia. Sì, tutti populisti: come Beppe Grillo, naturalmente, e chi lo ha votato. Si dà il caso tuttavia che le classi dirigenti vere, i veri governanti, facciano proprio questo, guarda un po': specie nei momenti critici, cioè, cercano di mettersi allo stesso livello della gente comune, di condividerne pericoli e disagi, e in questo modo di meritarne la fiducia. Non vanno ogni sera in tv da Bruno Vespa o da Floris, o da Santoro (in trasmissioni che, sia detto tra parentesi, mostrandone la vuotaggine parolaia hanno contribuito come poche cose a disintegrarne l'immagine). Una classe politica che ha il senso del proprio onore e delle proprie funzioni deve essere capace di sentire quando è il momento di stare dalla parte dei suoi concittadini. Se non lo sente, ecco che allora sorge inevitabilmente a ricordarglielo il cosiddetto «populismo». Certo, il populismo si limita perlopiù a invocare comportamenti diversi, denuncia ingiustizie e latrocini, insiste sulla moralità e sulla qualità delle persone. Non è «propositivo», come si dice; non indica vasti programmi di misure strutturali. Fa come ha fatto Grillo, appunto. Ma sarà pure lecito chiedere: c'è per caso qualcuno tra coloro che stanno leggendo queste righe che ricorda invece una vera proposta, per così dire strutturale, avanzata in questa campagna elettorale da Casini o da Bersani? E c'è qualcuno che ha ascoltato Vendola illustrare come immaginava di finanziare l'Eden che nei suoi programmi si compiaceva di dipingere per il futuro? Stranamente però non sono in molti a dare del populista a Vendola. Volendo però entrare nel cuore della presunta assenza di proposte e di veri obiettivi politici da parte del cosiddetto populismo grillino, la domanda decisiva da farsi mi sembra questa: a conti fatti, voler mandare a casa un'intera classe politica costituisce o no un obiettivo politico (e non da poco, direi)? Costituisce o no un programma, anzi un ambizioso programma elettorale? E se la risposta è positiva, allora sopraggiunge di rincalzo un'altra domanda ancora: nelle condizioni date, qui, oggi, in questo Paese, quale altra via esisteva, per cercare, non dico di realizzare ma di affermare con forza quell'obiettivo, se non il voto per la lista di Beppe Grillo? Quale altra via esisteva per esprimere il proprio rifiuto nei confronti di una classe politica che in venticinque anni non ha saputo mettere in prima fila una sola faccia nuova? Che ancora oggi vede da un lato un vecchio leader 76enne, circondato da uno stuolo di camerieri, e dall'altro un partito, il Pd, che alla candidatura di Matteo Renzi ha saputo opporre solo la rabbia antiriformista dei vecchi oligarchi tardoberlingueriani alleati con i giovani turchi dell'apparato, entrambi oggi pronti, magari, a sostenere disinvoltamente che pure Grillo «è una costola della sinistra»? Quale altra via per protestare davvero contro una classe politica (ma non solo: né Monti né alcuno dei suoi ministri «tecnici» ha mai osato proporre alcunché, e tanto meno minacciare di dimettersi), una classe politica (ma non solo), dicevo, che travolta da scandali di ogni tipo e misura non è stata capace di inventarsi nulla, assolutamente nulla, per riguadagnare la fiducia dei cittadini?
E però non bisognava votare Grillo - si dice - per non dispiacere ai mercati e all'Europa, per non farci massacrare dallo spread. Evidentemente però molti hanno pensato che forse la qualità dei governanti è un prius rispetto a qualunque altra urgenza. Che forse una classe politica screditata e corrotta non solo alla fine non dà alcuna vera garanzia alla stessa Unione europea, ma soprattutto (ed è cosa non da poco) non garantisce un rappresentanza e una difesa adeguate degli interessi nazionali. Questo è il punto: una classe politica chiusa nella supponenza delle sue chiacchiere e nell'impotenza del suo finto potere, la quale non ha voluto prendere atto che c'è un'Italia sempre più numerosa che non ne può più: né di lei né dei suoi partiti. Un'Italia che quindi ha fatto la sola cosa che poteva fare: se n'è inventato un altro, di partito. Praticamente dal nulla e con il nulla: affidandosi a una sorta di fool, di «matto», di buffone shakespeariano, l'unico capace, nella sua follia, di dire ciò che gli altri non potevano. Con l'augurio - che a questo punto, immagino, è di tutti gli italiani - che alla fine, però, possa esserci del metodo in quella sua follia.
«Corriere della Sera» del 27 febbraio 2013