21 settembre 2011

Tutti i figli di Norimberga

di Roberto I. Zanini
Chiudere i conti col passato a conclusione di difficili percorsi politico-sociali, come dittature e guerre civili, col contorno di genocidi, fosse comuni e via elencando dal vocabolario delle umane turpitudini. Si tratta di uno dei temi più controversi della storia dell’umanità, sul quale forse troppo poco ci si è interrogati in modo da avere una visione globale, tale da garantire risposte adeguate alle singole situazioni. Problema al quale tenta di sopperire un libro di Pier Paolo Portinaro, dal titolo esplicativo: I conti col passato. Vendetta, amnistia, giustizia, da domani in libreria per i tipi della Feltrinelli. «L’intento che guida questo lavoro – spiega Portinaro, che è docente di Filosofia politica all’Università di Torino – al di fuori di ideologie e revisionismi, è per un verso accademico, in quanto viene dato conto degli studi internazionali più recenti; per l’altro verso si vuole fornire un contributo di analisi e di elaborazione pratica tale da far comprendere che processi morali, storici e politici di questo tipo che coinvolgono singoli Stati e la comunità internazionale, devono essere esaminati nella loro complessità di intrecci e interdipendenze».

Ma quali sono le principali modalità messe in atto nei secoli per uscire da dittature e guerre civili?
«Diciamo che essenzialmente sono state percorse tre vie: quella della vendetta, quella dell’amnistia e quella della giustizia. Recentemente se ne è aggiunta una quarta, quella delle cosiddette Commissioni per la verità e la riconciliazione, che ha avuto interessanti applicazioni e che senza dubbio porta a risultati più completi dal punto di vista umano e della democrazia».

Il metodo della vendetta, sempre usato, è ancora efficace?
«Solitamente alla fine di un regime autoritario si registra una fase di vendetta violenta. Non ci dobbiamo stupire. La storia ci dice che più pesante è stata la repressione, più tragica è la vendetta. La durata dipende dalla capacità del governo che segue e, soprattutto oggi, dalla volontà e dall’autorevolezza degli organismi internazionali. Senza contare che nel novero della vendetta si può inserire anche l’epurazione sistematica da tutti gli incarichi burocratici, privati e pubblici della fazione perdente, senza giungere alla soppressione fisica».

L’utilizzo dell’amnistia ha un senso in quanto ferma la vendetta?
«È la strada che viene percorsa quando la massa dei crimini è così grande e la possibilità di far luce così ridotta che si decide di metterci una pietra sopra. Una risposta antichissima e assai frequente nella storia: prima saltano le teste, poi si decide di dimenticare affinché si apra una pagina nuova».

Antichissima?
«Senofonte definisce "uomo giusto" l’ateniese Trasibulo che con l’amnistia, a cavallo fra 400 e 300 a.C., fornisce un fondamentale contributo per la pacificazione a chiusura della Guerra del Peloponneso. Tucidide, nel raccontare questo episodio, gli attribuisce l’espressione: "Non si deve rovistare nel passato", che è proprio il senso dell’amnistia. Che nei fatti è una forma di real politik, ma anche di negazione dei diritti umani».

Ci sono stati anticamente anche casi di soluzione giudiziale?
«Diciamo che nel passato i processi applicati a queste vicende producono sempre una forma di giustizia politica. Servono a punire i nemici. I casi della rivoluzione inglese e della rivoluzione francese sono esempi chiari: entrambi culminano con la condanna del re. Una deriva che culmina nel XX secolo, per esempio con i processi farsa staliniani».

Quand’è che da queste vendette per via processuale si avvicina a forme più autentiche di giustizia?
«Ci si è provato alla fine della Prima Guerra Mondiale, ma il diritto internazionale non era ancora così condiviso e si sono celebrati solo dei processi limitati. Il primi veri tribunali internazionali efficaci sono quelli di Norimberga e di Tokyo. Anche se si è parlato di giustizia dei vincitori, non c’è dubbio che sia stato fatto un grande sforzo per rispettare i principi dello Stato di diritto. Nei fatti sono i due capisaldi della transizione dalla giustizia politica alla giustizia penale internazionale che è la novità della fine del XX secolo».

Parla di ex Jugoslavia, Ruanda ...
Istituita nel 1998 la Corte penale internazionale è entrata in funzione nel 2002. Ex Jugoslavia e Ruanda sono i casi più famosi. Oggi si occupa di Congo, Sudan, Uganda vedremo cosa accadrà per la Libia...».

Non sempre ne sono usciti ottimi risultati ...
«Il problema della Corte internazionale è che non può agire con la stessa efficacia che si è avuta, per esempio, a Norimberga, dove la Germania era un Paese occupato e le forze occupanti gestivano il territorio, garantendo la cattura dei criminali. Nella ex Jugoslavia, lo abbiamo visto, Mladic è stato catturato solo qualche mese fa... La Corte ha bisogno del pieno sostegno degli Stati e della comunità internazionale e non sempre capita».

La quarta via?
«Visto che, come in Ruanda, i criminali sono decine di migliaia e non si possono processare tutti, visto che i processi pongono a centro il criminale e finiscono spesso per non tutelare le vittime, ecco che si è iniziato a pensare a una giustizia capace di partire proprio dalla pacificazione. Tentativi che si sono codificati nelle Commissioni per la verità e la riconciliazione, utilizzate in Sudafrica, Cile, Argentina con buoni risultati, certamente più rispettosi dei principi democratici».

Tutto questo serve a capire perché in Italia, dopo 60 anni non si riesce ad arrivare a una verità condivisa su Fascismo e Resistenza?
«Il caso dell’Italia è emblematico di una resa dei conti che non è mai maturata. Prima c’è stata la violenza della guerra civile, poi l’amnistia togliattiana per fermare le vendette. Molti dicono che sarebbe servita una Norimberga italiana, ma non ci fu, un po’ per il trasformismo italico, un po’ perché sarebbero emersi anche i crimini della Resistenza. Solo negli anni ’90 la storiografia ha cominciato a pensare che non si doveva tematizzare soltanto il fascismo. Nello stesso periodo sono nati partiti che non avevano radici in quegli anni e il passato è stato strumentalizzato in chiave anticomunista. Il risultato è che non riusciamo ancora a vederci chiaro».
«Avvenire» del 20 settembre 2011

16 settembre 2011

Se la sinistra partigiana diventa nazionalista. Le radici antiche e liberali dell’amor di Patria


L'Italia non è cosa vostra. La gauche che adesso ama il Tricolore è un controsenso. Ma anche certa destra deve ripensare la sua idea di italianità. Da decenni certi intellettuali studiano solo la Resistenza. Comuni, signorie, ducati: prima dell'Unità non c'era il deserto dei tartari
di Dino Cofrancesco

Marcello Veneziani ha ragione nel dire ai “cari neopatrioti di sinistra”: «l’Italia non è cosa vostra». Da sessant’anni la storiografia progressista è vissuta di «processi al moto unitario», di «Risorgimento interrotto» (o tradito), di «conquista regia», di «estraneità delle masse alla costruzione dello Stato nazionale», di «mancata riforma agraria», di «colonizzazione del Sud» eccetera.
Quello di sinistra era un versante politico «convinto che la storia d'Italia cominciasse dalla Resistenza e dalla Costituzione e il resto fosse solo foresta nera». Mi chiedo, però, se la minoritaria destra nazionale, sempre pronta a sbandierare il tricolore davanti agli antinazionali, avesse davvero le carte in regola per fare del patriottismo una cosa sua. Per un ventennio ho letto le pagine culturali del Secolo d’Italia (raccolte poi in pesanti volumi) e, a parte le celebrazioni retoriche dei martiri del Risorgimento e delle guerre mondiali, vi ho respirato un’aria che non era certo né cavouriana, né mazziniana. Il progetto politico-culturale sembrava quello di una grande federazione di tutte le correnti di pensiero antimoderne-italiane e tedesche, soprattutto-mobilitate per contrastare l’irresistibile ascesa dell’illuminismo. Cattolici tradizionalisti e lefevriani si alternavano a evoliani nostalgici dell’Impero: non c’era critico di destra di Giovanni Gentile che non venisse ricordato e “rivalutato” e se si parlava dei liberali conservatori, come Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca, era per metterne in luce la demistificazione della democrazia e l’ispirazione elitistica, interpretata in senso autoritario.
Sono da condividere le parole di Veneziani: «Chi si sente davvero italiano abbraccia la sua storia, si riconosce nel suo carattere, ama la sua civiltà e rispetta le sue tradizioni. Non sono le leggi a fare l’Italia e gli italiani, ma è la vita, la cultura, la lingua e la storia di un popolo e la percezione di sentirsi, pur nella diversità un popolo. Le norme sono astratte, neutre, a-nazionali, possono trasferirsi da Paese a Paese; invece la vita, le opere, le città, le parole e le memoria di un popolo no». Tali parole fanno a pezzi non solo il «patriottismo costituzionale» alla Habermas ma, altresì, le tesi dei vari Rusconi che non dubitano che un regime politico - democratico, liberale o altro - sia cosa ben diversa dalla “comunità politica” ma poi vorrebbero cancellare da quest’ultima i protagonisti dei periodi «nefasti», come il fascismo.
L’Italia, certamente, è la sua storia: storia di comuni, di signorie, di province soggette al dominio straniero: prima dell’Unità non c’era il deserto dei tartari. Le produzioni culturali, artistiche, scientifiche, religiose, letterarie del «Paese calpesto e diviso» rappresentano una tradizione che sarebbe stolto rinnegare. Va detto, però, che la ricchezza e la varietà delle creazioni dell’«itala gente dalle molte vite» riacquistarono senso e significato alla luce dell’evento epocale - e tale apparve all’opinione pubblica occidentale - costituito dal Risorgimento. Gli anni delle guerre di indipendenza non furono segnati solo da contrasti politici e istituzionali talora profondi ma videro il nostro ricongiungimento all’«Europa vivente», con il trionfo di una versione nazionale del liberalismo, alla quale concorsero laici e cattolici, Cavour e Minghetti, Mamiani e Lambruschini, Manzoni e De Sanctis, Silvio Spaventa e Carlo Cattaneo. Risorgimento e «liberalismo italiano» sono la stessa cosa: se viene meno il secondo, il primo diventa un fantasma non innocuo, incapace di dare alla nazione un fondamento di legittimità.
Le rivoluzioni atlantiche - inglese, francese, americana - non rinnegarono il passato ma fondarono una legittimità politica in cui la comunità si riconosceva pienamente nelle sue istituzioni e queste si modellavano su concreti diritti liberali e democratici. La “rivoluzione italiana” non riuscì a darsi un «mito di fondazione» condiviso giacché se ne contestò ben presto l’anima liberale col risultato che, nella sua dottrina dello Stato, a fondamento del sistema giuridico-politico, non furono posti i «diritti soggettivi», le «libertà dei moderni», ma un «interesse generale» che le varie famiglie ideologiche (cattolici ultramontani, democratici radicali, socialisti, nazionalisti etc.) interpretavano a modo loro.
«Il Giornale» del 16 settembre 2011

I progressisti? Diventano tutti dei conservatori

Gli ex rivoluzionari ora difendono il passato...
di Luigi Mascheroni
Gli uomini si dividono in due categorie: i conservatori e quelli che stanno per diventarlo. I rivoluzionari di una volta sono gli stessi che oggi difendono più strenuamente ambiente, lavoro, scuola e tutto ciò che è il passato
Gli uomini, come anche le donne, si dividono in due categorie: i conservatori e quelli che si apprestano a diventarlo.
Una boutade? Non proprio. È la constatazione (liberatoria) cui giunge il lettore alla fine del nuovo pamphlet di Armando Torno Il paradosso dei conservatori (Bompiani), dove attraverso esempi concreti tratti dall’attualità e citazioni filosofiche che spaziano da Filone di Alessandria a György Lukács, si tentano due operazioni. La prima: capire cosa si intenda oggi con la parola «conservatore», ancora fino a poco tempo fa un vero insulto, un’etichetta appiccicata come marchio d’infamia al «fascista» e spesso appositamente confusa con il termine «reazionario». La seconda: far notare che anche il più insospettabile dei progressisti col tempo si trasforma, magari senza accorgersene, in conservatore. Il vecchio detto popolare «si nasce incendiari, si muore pompieri», alla prova della storia, sembra avere una propria giustificazione filosofica.
I conservatori veri, almeno in Italia, sono pochissimi. Oggi l’unico «reo confesso» è Sergio Romano. Ieri c’erano - ad esempio - Panfilo Gentile, Augusto del Noce, soprattutto Indro Montanelli. Intellettuali che, secondo l’imperitura definizione di Giuseppe Prezzolini, «preferiscono alle rivoluzioni gli adattamenti, le modificazioni, le evoluzioni, gli assaggi, i ritocchi, almeno nei punti essenziali della coesistenza sociale. Il rispetto delle consuetudini non nasce nella mente del conservatore dal pensare che esse siano perfette; tutt’altro: nasce dal fatto che le considera come meno imperfette, poiché esistono, di quelle che ancora non esistono; per far esistere le quali ci vorrebbe uno sforzo che sarebbe più opportuno applicare a far funzionare meglio quelle esistenti». Un Manifesto dei conservatori uscito da Rusconi (vera casa editrice conservatrice) nel 1972. Qualche anno dopo, come nota Torno, quelle parole diventeranno il programma riformista dei socialisti. A dimostrazione di come si possa diventare conservatori senza accorgersene, cominciando dalle piccole situazioni della vita quotidiana e arrivando ai grandi temi sociali.
Dalle idee alle ideologie. È, in fondo, il percorso tracciato da Armano Torno, il quale si diverte a scovare il «paradosso» di vecchi progressisti che si scoprono conservatori, nei campi più diversi. Cioè gli «ambiti d’azione» che scandiscono i capitoli del libro: conservare la bellezza, conservare la terra, conservare il lavoro, conservare la cultura... Ci avete fatto caso? Le donne che più si accaniscono a «conservare» la propria bellezza a forza di lifting e impianti sono le più impegnate attrici radical-chic. I più combattivi «conservatori» dell’ambiente naturale, in guerra contro il progresso e lo sviluppo tecnologico del pianeta, sono gli ecologisti «di sinistra». I più accessi «conservatori» dei vantaggi acquisiti dalle battaglie sociali degli ultimi decenni nel mondo del lavoro, in opposizione a ogni riforma del sistema dettata dal nuovo corso dell’economia, sono i rivoluzionari degli anni caldi della contestazione. E più inflessibili «protettori» della scuola, sordi alle necessità di cambiamento imposte da un mondo in continua evoluzione, escono proprio dalle file degli ex Sessantottini. È curioso - o paradossale? - ma oggi i più strenui difensori del passato sono coloro che si proclamano progressisti.
E i conservatori? Apparentemente, spariti. A meno che siano semplicemente camuffati. Come intuì Oscar Wilde quando ammoniva: «Pensa come un conservatore e parla come un radicale: questo è così importante al giorno d’oggi». Che non è (solo) una boutade.
«Il Giornale» del 16 settembre 2011

12 settembre 2011

La comunicazione? Avviene a «ondate»

Analizzate in undici mesi 9 milioni di telefonate
di Elisabetta Curzel
Come si propagano opinioni, idee politiche e commerciali O capire come si è sviluppata la «primavera araba»
Quiete e tempesta: quando comunichiamo, i due stati si alternano. E con le «tempeste» le informazioni viaggiano più veloci. È quanto emerge da uno studio compiuto dall’Università Carlos III di in collaborazione con Telefónica, un’indagine i cui risultati potrebbero rivelarsi utili per comprendere il modo nel quale si propagano opinioni, idee politiche, pettegolezzi e informazioni commerciali. Per un periodo di undici mesi, i ricercatori hanno analizzato 9 milioni di chiamate, un volume di traffico telefonico svolto da 20 milioni di persone (circa il 30% della popolazione spagnola). La scoperta? Che la gente comunica a cascate o raffiche (bursts in inglese).

ONDATE - «Chiamiamo tanto e in poco tempo», spiega la ricercatrice Giovanna Miritello, coautrice dello studio, «poi passiamo periodi di inattività, poi torniamo a chiamare. E così via». La comunicazione, insomma, avviene nel tempo in maniera discontinua. L’alternarsi di ondate e silenzi vale per qualsiasi tipo di relazione. «Non sappiamo niente della vita personale degli autori delle chiamate», continua Miritello, «perché ovviamente erano anonime. Sappiamo però che questo carattere di discontinuità si ripresenta con tutti i contatti, siano essi familiari, amici, colleghi o conoscenti. Certo, chiamerò più spesso il mio fidanzato e meno l’amica con cui faccio allenamento; ma in entrambi i casi il ritmo della comunicazione sarà incostante».

RITMI - I ritmi circadiani (ossia il ritmo veglia–sonno) quelli lavorativi, com’è intuibile, sono imprescindibili. «Lunedì e martedì mattina si chiama di più, soprattutto fino all’ora di pranzo, perché il telefono viene usato anche a fini professionali», continua la ricercatrice. «All’ora di pranzo si registra una diminuzione; si ricomincia il pomeriggio e poi la notte, quando si dorme, ovviamente non si telefona. In certe fasce orarie quindi la comunicazione non c’è. Ma se elimino le considerazioni legate ai ritmi circadiani, scopro una cosa importante: che tra le telefonate esistono correlazioni. Se ricevo una chiamata, probabilmente ne faccio una subito dopo; se per esempio mi sto organizzando per uscire con un gruppo di amici, è probabile che chiami e venga chiamata tanto in un breve periodo di intensa comunicazione».

INFORMAZIONE - Lo studio potrebbe servire anche per tracciare il percorso di un’informazione. «Se vengo a conoscenza di una notizia in un periodo di forte attività, è più probabile che la propaghi perché sto chiamando tanto», aggiunge Miritello. «Lei, ora, mi sta intervistando; se oggi parlo con tanta gente è probabile che menzioni questo fatto, ma se non parlo con nessuno l’informazione non passa». Possibile che la discontinuità dipenda dal livello di attenzione e tolleranza? «Questo i dati non ce lo dicono. Ma da un’altro studio che stiamo conducendo, incentrato sulla cosiddetta economia dell’attenzione, sappiamo che esistono per chi chiama limiti sia fisici che di costo, temporale e monetario».

«ESPLOSIONE» - Per Andrea Salvini, docente di sociologia presso l’Università di Pisa ed esperto nell’analisi di reti sociali, «la scoperta che nella comunicazione si alternano effervescenza e silenzio prolungato è molto interessante. Dallo studio si ricava inoltre l’idea che questa “esplosione” sia condivisa, e che la sollecitazione lanciata da uno venga raccolta da tutti gli altri interlocutori. Una volta esaurito l'interesse, si passa al silenzio. Ci sono momenti in cui ce ne stiamo ritirati nelle nostre reti più intime, e momenti più ampi con una valenza collettiva. Questo è molto importante anche per capire le forme della partecipazione civile e sociale. Movimenti come quello che ha attraversato l'Africa del nord funzionano forse seguendo questi meccanismi».
«Corriere della Sera» del 12 settembre 2011

11 settembre 2011

Il primo giorno che vorrei

Scuola al debutto
di Alessandro D'Avenia
Che cosa avrei voluto sentirmi dire il primo giorno di scuola dai miei professori o cosa vorrei che mi dicessero se tornassi studente? Il racconto delle vacanze? No. Quelle dei miei compagni? No. Saprei già tutto. Devi studiare? Sarà difficile? Bisognerà impegnarsi di più? No, no grazie. Lo so. Per questo sto qui, e poi dall’orecchio dei doveri non ci sento. Ditemi qualcosa di diverso, di nuovo, perché io non cominci ad annoiarmi da subito, ma mi venga almeno un po’ voglia di cominciarlo, quest’anno scolastico. Dall’orecchio della passione ci sento benissimo.
Dimostratemi che vale la pena stare qui per un anno intero ad ascoltarvi. Ditemi per favore che tutto questo c’entra con la vita di tutti i giorni, che mi aiuterà a capire meglio il mondo e me stesso, che insomma ne vale la pena di stare qua. Dimostratemi, soprattutto con le vostre vite, che lo sforzo che devo fare potrebbe riempire la mia vita come riempie la vostra. Avete dedicato studi, sforzi e sogni per insegnarmi la vostra materia, adesso dimostratemi che è tutto vero, che voi siete i mediatori di qualcosa di desiderabile e indispensabile, che voi possedete e volete regalarmi. Dimostratemi che perdete il sonno per insegnare quelle cose che – dite – valgono i miei sforzi. Voglio guardarli bene i vostri occhi e se non brillano mi annoierò, ve lo dico prima, e farò altro. Non potete mentirmi. Se non ci credete voi, perché dovrei farlo io?
E non mi parlate dei vostri stipendi, del sindacato, della Gelmini, delle vostre beghe familiari e sentimentali, dei vostri fallimenti e delle vostre ossessioni. No. Parlatemi di quanto amate la forza del sole che brucia da 5 miliardi di anni e trasforma il suo idrogeno in luce, vita, energia. Ditemi come accade questo miracolo che durerà almeno altri 5 miliardi di anni. Ditemi perché la luna mi dà sempre la stessa faccia e insegnatemi a interrogarla come il pastore errante di Leopardi. Ditemi come è possibile che la rosa abbia i petali disposti secondo una proporzione divina infallibile e perché il cuore è un muscolo che batte involontariamente e come fa l’occhio a trasformare la luce in immagini. Ci sono così tante cose in questo mondo che non so e che voi potreste spiegarmi, con gli occhi che vi brillano, perché solo lo stupore conosce.
E ditemi il mistero dell’uomo, ditemi come hanno fatto i Greci a costruire i loro templi che ti sembra di essere a colloquio con gli dei, e come hanno fatto i Romani a unire bellezza e utilità come nessun altro. E ditemi il segreto dell’uomo che crea bellezza e costringe tutti a migliorarsi al solo respirarla. Ditemi come ha fatto Leonardo, come ha fatto Dante, come ha fatto Magellano. Ditemi il segreto di Einstein, di Gaudì e di Mozart. Se lo sapete, ditemelo.
Ditemi come faccio a decidere che farci della mia vita, se non conosco quelle degli altri. Ditemi come fare a trovare la mia storia, se non ho un briciolo di passione per quelle che hanno lasciato il segno. Ditemi per cosa posso giocarmi la mia vita. Anzi no, non me lo dite, voglio deciderlo io, voi fatemi vedere il ventaglio di possibilità. Aiutatemi a scovare i miei talenti, le mie passioni e i miei sogni. E ricordatevi che ci riuscirete solo se li avete anche voi i vostri sogni, progetti, passioni. Altrimenti come farò a credervi? E ricordatemi che la mia vita è una vita irripetibile, fatta per la grandezza, e aiutatemi a non accontentarmi di consumare piccoli piaceri reali e virtuali, che sul momento mi soddisfano, ma sotto sotto sotto mi annoiano.
Sfidatemi, mettete alla prova le mie qualità migliori, segnatevele su un registro, oltre a quei voti che poi rimangono sempre gli stessi. Aiutatemi a non illudermi, a non vivere di sogni campati in aria, ma allo stesso tempo insegnatemi a sognare e ad acquisire la pazienza per realizzarli quei sogni, facendoli diventare progetti.
Insegnatemi a ragionare, perché non prenda le mie idee dai luoghi comuni, dal pensiero dominante, dal pensiero non pensato. Aiutatemi a essere libero. Ricordatemi l’unità del sapere e non mi raccontate solo l’unità d’Italia, ma siate uniti voi dello stesso consiglio di classe: non parlate male l’uno dell’altro, vi prego. E ricordatemelo quanto è bello questo Paese, parlatemene, fatemi venire voglia di scoprire tutto quello che nasconde prima ancora di desiderare una vacanza a Miami. Insegnatemi i luoghi prima dei non luoghi. E per favore, un ultimo favore, tenete ben chiuso il cinismo nel girone dei traditori. Non nascondetemi le battaglie, ma rendetemi forte per poterle affrontare e non avvelenate le mie speranze, prima ancora che io le abbia concepite. Per questo, un giorno, vi ricorderò.
«Avvenire» del 9 settembre 2011

08 settembre 2011

Un tour tra le scuole digitali

Youtube, tablet e prof bionici
di Giulia Belardelli
A pochi giorni dal "drin" della prima campanella, sono molte le novità telematiche che verranno sperimentate nei vari paesi. Dai libri di nuova generazione agli esami corretti con l'aiuto dell'intelligenza artificiale, ecco le promesse di questa stagione
Quaderni, libri, astucci e fogli protocollo. Al massimo, una calcolatrice "non programmabile" a cui appellarsi senza posa durante il compito di matematica, come a un oracolo che tanto non parlerà. Fino a poco tempo fa era questa, più o meno, la lista dello stretto necessario per arrivare preparati al primo giorno di scuola. Oggi lo scenario sta cambiando radicalmente: da un lato, infatti, internet, i tablet e le tante applicazioni di intelligenza artificiale promettono di rivoluzionare il modo di stare tra i banchi di scuola; dall'altro, studenti tecnologicamente sempre più "saggi" impongono ai docenti di stare al passo con i tempi e diventare digitali anche loro. In alcuni Paesi molte di queste innovazioni sono già realtà e toccano ogni momento della formazione dello studente, dai test d'ingresso all'esame di fine anno. E sebbene non tutti si dicano entusiasti di questa "invasione tecnologica" nella formazione, sono in molti a vedere nel web e nei suoi alleati il futuro dell'educazione dei più giovani. Dagli Stati Uniti alla Corea del Sud, ecco una panoramica sulle novità telematiche più interessanti dell'anno scolastico che sta per iniziare.
La domanda di ingresso su Youtube. Se già da qualche anno iscriversi a corsi ed esami via web è pratica abbastanza comune, pressoché ovunque le prove di ammissione sono rimaste fedeli al "vecchio stile", vale a dire rigorosamente di persona e a base di test e quesiti. Come fare, però, a valutare i talenti digitali più nascosti delle future matricole? Con questa idea in testa, la George Mason University di Washington D.C. 1 e la Tufts University di Boston 2 hanno iniziato da quest'anno a selezionare i propri candidati anche sulla base di portfolio video caricati su Youtube, così da farli sentire più a loro agio al riparo dallo sguardo severo di una commissione. "Lo scopo non è quello di valutare le abilità di produzione di uno studente", ha spiegato Lee Coffin, direttore delle ammissioni alla Tufts University. "Crediamo che in questo modo il ragazzo abbia la possibilità di mostrarsi per quello che è, usando strumenti a lui familiari". Alla fine, su oltre quindicimila domande presentate alla scuola di Boston, oltre settecento aspiranti hanno proposto un video: "Alcuni, va detto, erano decisamente poco convincenti - ha continuato Coffin - ma nella maggior parte dei casi sono stati decisivi per l'ammissione, una sorta di biglietto d'ingresso".
La scuola al rovescio: lezioni a casa e compiti in aula. A rivoluzionare il concetto di e-learning, invece, ci stanno pensando diversi enti, società e accademie con l'obiettivo di integrare studio a distanza e tempo trascorso in aula. In cima all'elenco dei pionieri è la Khan Academy 3, una piccola organizzazione non profit che ha appena ricevuto un premio di 2 milioni di dollari da Google in quanto autrice di una delle tecnologia "più utili al mondo" (parola di Montain View) perché "capace di invertire le modalità di fruizione scolastica". L'organizzazione, infatti, ha costruito un'enorme collezione video di lezioni su Youtube per le scuole medie inferiori e superiori: oltre 2.400 lezioni dalla matematica alla letteratura che gli studenti possono tranquillamente seguire da casa. "Oltre ai corsi abbiamo anche una piattaforma web per svolgere un numero illimitato di esercizi", ha spiegato Salman Khan, fondatore e direttore dell'Academy. "In questo modo gli insegnanti possono dedicare la maggior parte del tempo passato in aula a comprendere le difficoltà degli alunni e aiutarli individualmente". Anche se l'organizzazione non ha una vera e propria "scuola", sono numerosi gli studenti e i professori americani e non solo che hanno deciso di provare la nuova tecnologia: "Basti pensare che finora abbiamo tenuto oltre 75 milioni di lezioni", ha concluso Khan.
"Con i tablet, un nuovo concetto di libro". Sul fronte dei gadget, i protagonisti indiscussi sono senza dubbio loro, tablet e libri elettronici. Mentre, infatti, la Corea del Sud ha annunciato che entro il 2015 tutti i suoi studenti utilizzeranno unicamente ebook reader 4, Vladimir Putin ha recentemente presentato un progetto che prevede l'introduzione dei dispositivi iTablet della Plastic Logic sui banchi delle scuole russe 5. Intanto, però, è l'iPad ad aver conquistato per primo le università mondiali: la London School of Business and Management, l'Illinois Institute of Technology e altri college regalano già adesso il gioiellino targato Apple a tutti i nuovi iscritti. "I tablet hanno enormi potenzialità sul mercato dei testi scolastici", ha spiegato Matt MacInnis, presidente di una start-up di ebook. "Per ora i libri digitali sono semplicemente una versione scannerizzata del testo cartaceo", ha continuato l'esperto. "Molte società editrici stanno lavorando a testi che forniscono un'integrazione audio e video, per un'esperienza di studio completamente nuova e capace di essere personalizzata a seconda delle necessità di ogni singolo studente".
L'esame a distanza, giudicato dal robot. L'esperimento più futuristico e intrigante per vedere se la tecnologia sia realmente pronta a caricarsi sulle spalle il peso della formazione avrà inizio fra pochi giorni. Il 10 ottobre partirà, infatti, il primo corso completamente gratuito e online della Stanford University: "Introduzione all'intelligenza artificiale 6". Con docenti del calibro di Sebastian Thrun, considerato dal Telegraph uno dei cento geni viventi, e Peter Norvig, ex scienziato della NASA e adesso direttore di ricerca a Google, il corso ha registrato oltre 125 mila iscrizioni - una bella sfida, considerando la montagna di domande che verranno poste durante le lezioni e le verifiche da correggere in tempo reale. A dar manforte ai due docenti ci penseranno, non a caso, le intelligenze artificiali: il corso, infatti, poggia su tecnologie sviluppate dalla Know Labs 7, una start-up californiana di cui fanno parte anche i due professori, nata con la missione di "digitalizzare la formazione". Gli esami di fine anno saranno giudicati da un software che sfrutta proprio le regole e i fondamenti che verranno insegnati tra una lezione e l'altra. "Il nostro obiettivo - spiegano i due docenti dal sito del programma - è capire se sia possibile o meno invitare a un corso il mondo intero".
«La Repubblica» dell'8 settembre 2011

05 settembre 2011

Violenza e terrorismo nascono nelle moschee

Il 99 per cento delle notizie che riguarda attentati terroristici e azioni violente si verificano nelle moschee in tutti i paesi del mondo
di Magdi Cristiano Allam
Appello fraterno da italiano che ama l'Italia ai connazionali succubi del­l’id­eologia del multi­culturalismo e folgo­rati dalla moschea­mania. Fate una semplice ricerca all’interno del sito dell’Ansa, la principale agen­zia nazionale d’informazione, inse­rendo il nome «moschea». Scoprirete che il 99 per cento delle notizie riguarda attentati terroristici e azioni violente che si verificano nelle moschee in tutti i Paesi del mondo, sia quelli dove i musulmani sono maggioranza sia quelli dove sono minoranza, sia quelli dichiaratamente integralisti islamici che consideriamo radicali sia quelli formalmente laici che definiamo moderati; mentre il restante 1 per cento riguarda l'annuncio delle nuove moschee che si vorrebbero costruire in Italia.
Ebbene, il peso della connotazione totalmente negativa delle moschee nel mondo è tale da far apparire noi italiani come chi ostinatamente e ciecamente è votato al suicidio. Mi limiterò a indicare i fatti concernenti le moschee nel mondo degli ultimi mesi. Il 3 settembre a Londra l'imam della moschea di Finsbury Park, il libanese cieco Maymoun Ghandi Zarzour, è stato assassinato all'interno della moschea. Quando nel 1998 conobbi il fondatore della moschea di Finsbury Park, l'imam egiziano Abu Hamza Al Masri, mi confessò candidamente che la moschea organizzava pubblicamente corsi ideologici e militari per la Guerra santa islamica a Crowborough, alla periferia di Londra.
Il 30 agosto a Copenaghen, all'uscita dei fedeli dalla moschea dopo la celebrazione dell'Eid al-Fitr, la festa islamica che conclude il mese di digiuno del Ramadan, uno di loro è stato ucciso in una sparatoria. Il 28 agosto a Bagdad un terrorista suicida si è fatto esplodere nella moschea sunnita di Oum al-Qura, uccidendo 29 persone e ferendone gravemente altre 35. La moschea colpita è diretta dall'imam Ahmed Abdel Ghafour che ha ripetutamente condannato i terroristi islamici. Il 27 agosto a Damasco le forze di sicurezza siriane hanno dato l’assalto a una moschea affollata di fedeli, provocando un morto e 20 feriti.
Il 26 agosto in Afghanistan una bomba viene fatta esplodere nel cortile di una moschea della provincia nord-occidentale di Faryab, uccidendo 4 persone e ferendone altre 14. Il 19 agosto in Pakistan un terrorista suicida di appena 16 anni si è fatto esplodere all'interno di una moschea nel distretto tribale di Khyber, provocando il massacro di 53 persone e oltre 120 feriti. Il 17 agosto in Siria nove persone vengono uccise dalle forze di sicurezza dopo aver inscenato una manifestazione di fronte alla moschea di Fatima a Homs. L’11 agosto l'artiglieria dell'esercito siriano colpisce la moschea Uthman ben Affan a Dayr az Zor, 450 km a nord-est di Damasco e capoluogo della regione confinante con l’Irak, abbattendone il minareto. Per il regime siriano l’epicentro della rivolta popolare sono proprio le moschee. Il 15 luglio nella Tunisia che sarebbe finalmente liberata dalla dittatura di Ben Ali e consegnata alla democrazia, le forze dell'ordine fanno irruzione in una moschea di Tunisi alla ricerca degli autori di attentati terroristici contro le caserme della polizia che si ripetono nel Paese.
Il 14 luglio in Afghanistan ci sono state due esplosioni nella moschea di Kandahar, mentre aveva luogo una funzione religiosa per il fratello del presidente Hamid Karzai ucciso due giorni prima, con un bilancio di 4 morti. Il 10 giugno in Afghanistan un terrorista suicida islamico si è fatto esplodere davanti ad una moschea a Kunduz City, dove si svolgeva un rito in memoria del generale della polizia Dadu Daud, colpito a fine maggio dai talebani nella provincia di Takhar, uccidendo 4 agenti di polizia. Il 3 giugno nello Yemen il presidente Ali Abdallah Saleh resta gravemente ferito in un attentato all'interno della moschea del Palazzo presidenziale dove stava pregando, costato la vita ad altre 7 persone. Il 3 giugno in Irak 17 persone sono rimaste uccise e almeno 50 ferite in un attentato a una moschea di Tikrit.
La bomba che ha provocato la strage era contenuta in un barile di benzina lasciato vicino all'ingresso della moschea durante la preghiera del venerdì. Voglio evidenziare che gli autori degli efferati crimini sono musulmani, così come sono musulmane le vittime del terrorismo islamico. Voglio ricordare che queste atrocità perpetrate all’interno delle moschee sono sempre accadute da quando esiste l’islam, che si conferma come una religione intrinsecamente violenta e storicamente conflittuale. Pensate che ben tre dei primi quattro successori di Maometto, i cosiddetti «califfi ben guidati», furono assassinati (Umar ibn al-Khattab, Uthman ibn Affan e Ali ibn Abi Talib) e due di loro (Umar e Ali) furono assassinati mentre pregavano in moschea.
Mi era già capitato in passato di fare ciò che ho appena fatto, ossia registrare gli attentati che si perpetrano nelle moschee, ed è sempre emerso lo stesso risultato: le moschee nel mondo generano violenza. Se le vogliamo significa che siamo propri votati al suicidio.
«Il Giornale» del 5 settembre 2011

04 settembre 2011

Gli allocutivi di cortesia

di Luca Serianni

"Il signor Guido Iazzetta (Milano) chiede informazioni sull’uso del pronome allocutivo voi invece di lei: il voi è andato in disuso con la caduta del Fascismo o mantiene tuttora qualche vitalità? Se si scrivesse un romanzo ambientato nel Sette o nell’Ottocento sarebbe più opportuno usare il voi o il lei?

Un po’ di storia. Nel Medioevo l’italiano, come altre lingue romanze, disponeva di un sistema bipartito, imperniato sull’asse tu/voi. Nella Commedia Dante si rivolge di norma col tu ai personaggi con cui scambia battute di dialogo, riservando il voi a interlocutori particolarmente autorevoli (“Siete voi qui, ser Brunetto?”). Il lei si è diffuso nelle cancellerie e nelle corti del Rinascimento ed è stato rafforzato, in séguito, dal modello spagnolo. Per alcuni secoli – diciamo dal Cinquecento al pieno Novecento – la nostra lingua disponeva dunque di un sistema tripartito: tu/voi/lei. Potremmo affermare, schematizzando un po’, che l’italiano letterario dei secoli scorsi era avviato a condividere la situazione dell’inglese attuale: il pronome allocutivo non marcato era voi (come you), lei e tu si adoperavano rispettivamente come variante altamente formale e altamente informale, ma tu poteva rappresentare un allocutivo non connotato socialmente, e quindi usato in riferimento a Dio o a un ente astratto personificato (come l’ingl. thou; “Tu – dice il Manzoni, rivolgendosi alla Fede nel Cinque maggio – dalle stanche ceneri / sperdi ogni ria parola”).
Ma le differenze non sono soltanto queste. Oggi la distribuzione degli allocutivi è rigida dal punto di vista sociale: 1) ci si dà del tu o del lei reciprocamente, senza tener conto (per fortuna!) di eventuali differenze di condizione o di cultura; 2) se si decide di comune accordo di variare il sistema allocutivo la variazione può consistere solo nel passaggio dal lei al tu; 3) un rapporto dissimmetrico è ammesso solo tra un adulto e un ragazzo (un quindicenne darà del lei a un adulto sconosciuto, ma si sentirebbe a disagio se questi lo ricambiasse con un altro lei e non col tu; anche in questo caso la variazione potrà consistere solo nell’estensione bidirezionale del tu). Per il passato bisogna tener conto soprattutto di due fatti: 1) erano forti gli squilibri dipendenti dalle diverse posizioni sociali degl’interlocutori (padrone-servitore, ecc.) e il fattore età poteva condizionare persino il rapporto genitori-figli (ancora nella borghesia ottocentesca un figlio poteva dare del lei al padre e alla madre, ricevendone ovviamente il tu): 2) nelle relazioni tra pari l’uso degli allocutivi era meno stabile di quanto sia oggi, e si poteva passare dal tu al lei o al voi – e viceversa – senza particolari implicazioni affettive (qualche esempio in epistolari ottocenteschi nei miei Saggi di storia linguistica italiana, Napoli, Morano, 1989, pp. 20-23).
Passando ora agli specifici quesiti posti dal signor Iazzetta, si può affermare che: 1) la disposizione fascista in favore del voi ebbe scarsa efficacia, non solo perché fu varata solo nel 1938 ed ebbe poco tempo per affermarsi, ma anche perché il lei era assai diffuso e più o meno adoperato o compreso in tutt’Italia, mentre il voi era concentrato nel Mezzogiorno, ciò che ne comprometteva le possibilità d’affermazione nazionale; 2) oggi l’uso del voi non è certo scomparso, ma è sempre più limitato sia regionalmente (Italia meridionale), sia come registro (familiare), sia generazionalmente (è in forte declino presso i giovani); 3) in un romanzo ambientato nei secoli scorsi, bisognerebbe certamente rappresentare tutti e tre i pronomi allocutivi, prendendo esempio dal Manzoni, che nei Promessi Sposi – ambientati come tutti sanno in Lombardia tra il 1628 e il 1630 – riproduce con estrema cura, tra gli altri, anche questo aspetto d’epoca."

Postato il 4 settembre 2011

03 settembre 2011

Grass è ambiguo, ma la Shoah non è unica

di Giorgio Israel
Alain Finkielkraut aveva previsto già una trentina di anni fa le conseguenze dell’introduzione del termine «genocidio», coniato nel 1944 per distinguere lo sterminio degli ebrei dagli altri crimini contro l’umanità: il formarsi di un codazzo di aspiranti allo stesso privilegio; il dilagare dei «confronti» tesi a dimostrare il diritto a ottenerlo e quindi tesi a sminuire la gravità del genocidio degli ebrei. Come osservò Finkielkraut, «dalle donne agli occitani, ogni minoranza oppressa proclamò il suo genocidio. Come se, senza di ciò, cessasse di essere interessante». E l’elenco continua ad allungarsi: non si è visto, a Roma l’anno scorso, un corteo di insegnanti sfilare con la stella gialla appuntata sul petto, proponendo il proprio genocidio? A seguito del celebre film di Claude Lanzmann - Shoah, uscito nel 1985 - i termini olocausto e genocidio (degli ebrei) furono sostituiti nell’uso con la parola ebraica «Shoah» (catastrofe). Una scelta del tutto normale: non è altrettanto accettabile denominare sinteticamente Gulag lo sterminio di milioni di cittadini sovietici da parte del regime comunista? Il problema è che il termine Shoah è stato associato al rafforzamento dell’idea già contenuta nel termine «genocidio»: l’assoluta unicità di questo evento, la sua incomparabilità con qualsiasi altro crimine della storia, fino a farne un evento metastorico e a suscitare persino una metafisica e una teologia della Shoah. Chi scrive ha ripetutamente criticato come infondata e rischiosa la collocazione della Shoah al di fuori della storia. Per esempio, il rifiuto di stabilire qualsiasi relazione tra Lager e Gulag è assurdo. La relazione è stata evidenziata in modo magistrale sul piano romanzesco da Vasilij Grossman. Sul piano storico essa risale alla folle ambizione di entrambe le dittature di rigenerare la società dalle fondamenta: l’una mediante l’igiene sociale, l’altra mediante l’igiene razziale, come osservò Victor Zaslavski. Paradossalmente, il mito dell’unicità della Shoah è servito ai postcomunisti per derubricare i crimini di Stalin a qualcosa di non tanto grave. Naturalmente questo è frutto di cattiva coscienza. Così come è la cattiva coscienza che spinge ogni giorno qualcuno a sminuire la gravità della Shoah stabilendo confronti deliranti anziché relazioni magari discutibili ma ragionevoli, mescolandola con gli eventi più disparati. È la cattiva coscienza di un’Europa che non ha mai fatto davvero i conti con i propri totalitarismi. Leggo l’intervista di Günther Grass rilasciata due giorni fa a un giornale israeliano in cui «rilegge» la Shoah e la paragona alle sofferenze inflitte dai russi ai militari tedeschi, e trovo che molte delle sue affermazioni sono discutibili sul piano storico e qualcuna anche sul piano morale. Ma non mi sento di fare scandalo sulla frase che, invece, più ha destato scandalo: «Non dico questo per diminuire la gravità del crimine contro gli ebrei, ma l’Olocausto non è stato l’unico crimine». Non mi sento di fare scandalo perché questa frase esprime un concetto persino ovvio. È una frase di cui non vi sarebbe stato bisogno se non si fosse avuta l’idea avventata di collocare la Shoah sul piedistallo metastorico e metafisico dell’unicità. Per il resto, Grass si è espresso in modo discutibile ma aperto e onesto. Efferato e losco è invece l’atto di quel funzionario francese che ha interdetto mediante una circolare l’uso della parola «Shoah» nelle scuole. Mi ha colpito il riferimento di Grass al fatto che metà della Germania sia stata abbandonata al comunismo. Di questo oggi non si parla. Così, la Spagna zapaterista mette alla gogna i crimini del franchismo mentre stende una cortina su quelli non meno atroci compiuti dai comunisti spagnoli delle varie tendenze. L’Europa che non ha fatto i conti con tutti i totalitarismi del ’900 è la stessa che genera il nuovo antisemitismo, sotto forma di antisionismo e di odio per Israele e che, allo scopo, non si fa scrupolo di usare il negazionismo. Per contrastarla, il mito dell’unicità della Shoah non serve. Al contrario. Al posto della circolare francese, occorrerebbe una circolare europea che prescriva in tutte le scuole la lettura di Vita e destino di Vasilij Grossman.
«Il Giornale» del 2 settembre 2011