31 agosto 2010

Incresciosa messa in scena o forse solo un boomerang

Il «proselitismo» del colonnello
di Marco Tarquinio
Amiamo l’idea di un Mediterraneo «mare comune» dei popoli che gli vivono attorno, specchio di culture e di economie amiche e in serena collaborazione, metaforica e concreta via di comunicazione anche tra le religioni dopo essere stato per secoli tramite di ostilità, di terrori e di reciproche invasioni militari. Abbiamo perciò accolto come una buonissima notizia, due anni fa, la «riconciliazione» tra Italia e Libia dopo un lunghissimo e aspro contenzioso, frutto della politica coloniale italiana e dei suoi misfatti – per molto tempo taciuti – contro le popolazioni libiche e delle dolorose ingiustizie subìte – e in troppo breve tempo dimenticate – dagli italiani spogliati di tutto e cacciati dalle loro case in terra libica.
Viva la nuova stagione e il conseguente fiorire – tra gran sfoggio di amicizia e qualche tenace sospetto – di intese e di commerci tra Roma e Tripoli. Viva anche la chiusura di certe rotte marine della sofferenza e della morte per migranti d’Africa e dei cinici traffici dei nuovi mercanti di esseri umani, sebbene inevitabile e dolente il pensiero corra ai "respinti e basta", agli uomini e alle donne e ai bambini in fuga dalle guerre e dalla persecuzione che si arenano nei deserti di Libia e nessuno riconosce e nessuno accoglie secondo umanità e secondo le leggi che le nazioni civili si sono date.
Ma incontrarsi serve comunque. Serve sempre. E la solenne visita che il colonnello Gheddafi sta effettuando per la seconda volta nella capitale italiana è ovviamente un’occasione d’incontro e di reciproca conoscenza. Sperabilmente di crescita, di chi più ha da crescere, nella comprensione del valore della democrazia e dei diritti umani. Un avvenimento con aspetti sostanziali e circostanze, per così dire, volutamente folkloristiche. Ma anche con momenti incresciosi e urtanti. Come l’incontro per una sessione di propaganda islamica (a sfondo addirittura europeo) tra il leader libico e hostess appositamente reclutate. Messa in scena organizzata, quasi di soppiatto, un anno fa e questa volta lanciata, invece, come spettacolare prologo agli incontri più strettamente politici con le autorità italiane.
Viene da chiedersi – e tanti, in effetti, se lo sono chiesti – a quale leader d’un Paese di tradizione e maggioranza cristiana sarebbe stato concesso di predicare e battezzare in un Paese di tradizione e maggioranza islamica. Anche se è una domanda insensata. Prima di tutto, perché ai politici cristiani mai verrebbe in mente di farlo e, subito dopo, perché neanche a preti e missionari cristiani viene consentito di farlo mentre ai cristiani semplici (che siano lì per lavori servili o per affari o per prestazioni professionali qualificate) è addirittura interdetto – tranne che in poche eccezioni – di proclamarsi tali a parole e segni.
Nella tollerante e pluralista Italia, in questo nostro Paese di profonde e vive radici cristiane e capace di una positiva laicità, nella Roma cattolica, Gheddafi ha potuto invece fare deliberato spettacolo di «proselitismo» (anche grazie a un tg pubblico incredibilmente servizievole e disposto a far spiegare alle otto di sera della domenica che il colonnello ha esercitato il «dovere» di «ogni musulmano: convertire» gli altri). Non sapremmo dire in quanti altri Paesi tutto questo avrebbe avuto luogo o, in ogni caso, avrebbe avuto spropositata (e stolida) eco.
Probabilmente è stato un boomerang, una dimostrazione di quanto possano confondersi persino in certo islam giudicato non (più) estremista piano politico e piano religioso. Certamente è stata una lezione. Magari pure per i suonatori professionisti di allarmi sulla laicità insidiata...
«Avvenire» del 31 agosto 2010

Le sfide per la neutralità di Internet

di Juan Carlos De Martin *
Il 9 agosto scorso Google (ricerca, pubblicità e altri servizi online, 22 mila dipendenti, 24 miliardi di dollari di fatturato) e Verizon (telefonia fissa e mobile negli Usa, 310 mila dipendenti, 157 miliardi di dollari di fatturato) hanno pubblicato una proposta congiunta relativa alla regolamentazione di Internet. Ora che sono passate tre settimane è possibile fare un primo bilancio delle reazioni. Innanzitutto, notiamo che raramente così poche parole, neanche due pagine, ne hanno causate così tante altre in così poco tempo: una ricerca con le parole chiave «google verizon proposal», infatti, restituisce più di tre milioni di risultati su Google e oltre un milione su Bing (il motore di ricerca di Microsoft). E se il web ha ruggito, la carta stampata non è stata da meno, con tutte le principali testate nazionali (questa inclusa) e internazionali impegnate a riferire gli estremi del dibattito - talvolta schierandosi, in genere su posizioni scettiche o critiche, come il New York Times. Perché una reazione così veemente a una proposta apparentemente così tecnica? I motivi principali sono due. Il primo motivo è che la proposta tocca, oltre al resto, un principio fondativo della rete, ovvero la sua cosiddetta «neutralità», proponendo di attenuarla in due contesti assai importanti (sia pure, come ha poi precisato Google, come mero compromesso temporaneo). Il secondo motivo è che, fino alla proposta con Verizon, Google era stata una sostenitrice «senza se e senza ma» della neutralità della rete, posizione rafforzata anche dall’avere come vice presidente dell'azienda uno dei padri storici di Internet, Vint Cerf. I cambi di direzione di una multinazionale, soprattutto se relativi ad argomenti scottanti, fanno ovviamente notizia, e quindi le reazioni alla proposta dei due colossi sono più che comprensibili.
Ma cosa è la «neutralità della rete» e perché è un argomento scottante? Una delle regole fondamentali di Internet è che gli utenti pagano esplicitamente solo per accedere alla rete, ovvero, per diventare - con il loro computer, smart phone o tavoletta - un nodo della rete stessa. L'accesso naturalmente costerà di più o di meno a seconda della dimensione del «tubo» dati e di altri aspetti del servizio. Ma una volta diventati nodi della rete, tutti gli utenti, che siano blogger o governi, possono raggiungere, sia in trasmissione sia in ricezione, qualsiasi altro nodo, senza più incontrare, ai guadi e ai valichi, gabellieri di sorta. L'importanza - e anche la naturalezza - di questo principio può essere illustrata da un'analogia automobilistica. Sarebbe concepibile che un operatore autostradale - oltre a far pagare a tutti, come è normale, l'accesso alla sua infrastruttura - stringesse anche accordi con marche automobilistiche, per esempio Renault e Toyota, e riservasse alle vetture di tali marche una o più corsie preferenziali, costringendo tutte le altre automobili ad affollarsi nelle corsie rimanenti? Oppure, sarebbe concepibile che ai caselli si ispezionassero i bagagliai, facendo accedere alla corsia preferenziale solo chi trasportasse, per esempio, libri Adelphi o banane Chiquita? Gli esempi fanno probabilmente sorridere tanto sono improbabili. Eppure, nonostante le naturali differenze del caso, è di qualcosa di simile che si sta parlando quando si discute di «neutralità della rete» e dei relativi punti della proposta Google-Verizon.
Ecco perché non condivido il collegamento che lo scorso 18 agosto su questo giornale Luca Ricolfi ha stabilito tra la proposta americana e problemi, per usare le sue parole, di eccesso di libertà positiva (la «libertà di») e di carenza di libertà negativa (la «libertà da»). Non condivido il collegamento perché la proposta Google-Verizon tocca in realtà altri aspetti (le Renault e le Toyota), ma non condivido neanche ampi tratti della sua analisi delle libertà in rete (tralasciamo la critica a Internet come «mondo aperto, magico e buono», dato che da più di un decennio è arduo trovare qualcuno con idee simili). I problemi, infatti, che lamenta Luca Ricolfi - le informazioni inaccurate, i contatti indesiderati, le interruzioni, eccetera - sono, da una parte, problemi naturali, per quanto a volte fastidiosi, in società che hanno scelto di essere aperte come le nostre, e dall’altra parte hanno già numerose soluzioni, a vari livelli. Soluzioni tecnologiche: filtri anti-spam, opzioni di privacy, sistemi di rating, filtri di classificazione automatica della posta elettronica e altro ancora. Soluzioni lato utente: in proposito cito solo, oltre all'ampia letteratura su come usare con efficacia e moderazione la posta elettronica, la possibilità, alla portata di chiunque, di imparare a valutare l'attendibilità di un sito Web proprio come nei secoli scorsi abbiamo imparato a valutare l'attendibilità di libri, case editrici, giornali, riviste e volantini. Soluzioni sociali: si stanno rafforzando e meglio articolando - basta dare tempo al tempo - norme di comportamento relative alle varie attività online, come già successo in passato per ogni invenzione largamente diffusa.
Tecnologia, maggior discernimento e norme sociali più evolute renderanno forse l'esperienza Internet perfettamente «libera da»? Certamente no. E andrà benissimo così. Perché è di gran lunga preferibile muoversi tra il rumore e la polvere di una piazza Internet forse caotica, ma libera e vitale, decidendo ciascuno di noi individualmente a quale angolo fermarci e a chi dare ascolto (e credito), piuttosto che essere ridotti a scegliere da un menu patinato di contenuti (o di contatti) preconfezionato o, comunque, filtrato. E poco importa che il confezionatore sia lo Stato (la Cina ci prova da anni e non è purtroppo la sola) o entità private come Google, Verizon, Apple o Microsoft. Dopo l'invenzione di Gutenberg ci è voluto qualche secolo, ma alla fine abbiamo capito qual è la risposta giusta a simili proposte: grazie, ma no grazie.
*docente del Politecnico di Torino

«La Stampa» del 31 agosto 2010

Assalto "democratico" per far tacere Dell'Utri

Insulti e spintoni al festival Parolario di Como. Annullato l'incontro sui Diari del Duce. Dopo Pansa ormai lo squadrismo culturale è un'abitudine. Cronaca di un pomeriggio irreale
di Luigi Mascheroni
Ieri la stupidità e l’intolleranza han­no espugnato un’altra piazza d’Italia, Pa­ese nel quale notoriamente l’uso politi­co della storia e i processi pubblici ai po­l­itici raggiungono livelli di faziosità altro­ve impensabili. A Como un gruppo di contestatori ha impedito a Marcello Del­­l’Utri di tenere una conferenza sui diari di Mussolini (veri e presunti, in questo caso poco importa): l’incontro, calpe­stando la volontà di ascoltare della mag­gior parte dei presenti, è stato annullato. E così hanno trionfato la più folle delle censure preventive e il più pericoloso dei divieti, quello di parola.
Parlare in pubblico, esprimendo le proprie idee, è uno dei più sacri fra i dirit­ti costituzionali. E chi limita tale diritto si macchia di un crimine vergognoso. Hanno diritto di parola i politici di de­stra come quelli di sinistra, gli intellet­tuali progressisti come quelli conserva­tori, i cattolici come gli atei, un missino co­me un partigiano, gli ex briga­tisti come i neo-fascisti. E un uomo pubblico, che ha la fa­coltà di parlare davanti al Se­nato della Repubblica italia­na, non può parlare nella piazza di un festival lettera­rio? È concesso- e giustamen­te - il diritto di parola e persi­no di esprimere giudizi mora­li a chi è stato condannato in via definitiva per aver rapito e ucciso Aldo Moro, o per aver armato la mano agli assassini di un commissario di polizia, però non si permette a un po­litico condannato per mafia di leggere le pagine di un li­bro. Strano Paese, l’Italia. Stra­no e incomprensibile davve­ro.
E ancora più strano e in­comprensibile se si riflette sul fatto che a voler vietare un diritto costituzionale come la libertà di espressione sia sta­to il «Comitato per la difesa della Costituzione» e che co­loro che hanno boicottato la manifestazione pubblica (e tutte le associazioni conni­venti che hanno firmato il vo­lantino di boicottaggio che gi­rava ieri a Como, tra le quali l’Anpi, l’Acli, l’Arci, Cgil, il «Senato delle Donne»...) lo hanno fatto in nome del più calpestato degli insegnamen­ti di Bertolt Brecht: «Felice il Paese che non ha bisogno di eroi». E ancora più felice quello che può fare a meno degli ignoranti e dei fondamentali­sti. Come, appunto, sono co­loro che scambiano la lettura pubblica di una pagina dei diari del Duce per una apolo­gia di fascismo, che è come ac­cusare di nazismo un profes­sore universitario che legga in classe un passo del Mein Kampf . O come se si incarce­rasse, per istigazione al delit­to, chi ieri pomeriggio grida­va contro Dell’Utri «Devi esse­re appeso per piedi».
Da piazzale Loreto sono passati invano 65 anni. E inva­no, a risentire slogan come «Lotta dura senza paura», è passato anche il Sessantotto. A non riuscire a passare in­vece sono purtroppo la tolle­ranza e il dialogo, gli unici ve­ri antidoti al fanatismo politi­co e intellettuale, che come si sa è il peggiore preludio alla violenza. Come dimostrò lo stesso Mussolini, che in fatto di censure e regimi non scher­zava, prima si proibisce a qualcuno di parlare in pubbli­co, poi se necessario - come nel caso Matteotti- lo si mette a tacere in segreto.
Chi è più fascista e mafio­so? Dell’Utri invitato da una amministrazione cittadina a parlare dei diari di Mussolini o i contestatori che glielo proi­biscono con insulti o minac­ce? E chi era più fascista e ma­fioso? Lo storico Giampaolo Pansa o le bande di vecchi e giovani «partigiani» che, asse­tate ieri come oggi del sangue dei vinti, lo hanno pedinato per anni a ogni presentazio­ne pubblica dei suoi libri «re­visionisti »? Chi era più fascista e mafio­so? Lo scrittore Roberto Savia­no o i giovani «imprenditori» che non volevano che presen­tasse il suo Gomorra a Casal di Principe, in terra dei Casa­lesi? Chi era più fascista e mafio­so? Il giornalista Antonio Ca­rioti o gli estremisti di sinistra che a San Giuliano Terme e a Livorno gli negarono la sala consigliare per presentare il suo libro Gli orfani di Salò , che non avevano neppure let­to, credendolo un testo che esaltava la Rsi? Chi era più infantile e ridico­lo? Federico Moccia o gli stu­denti romani che il marzo scorso lo hanno contestato, zittendolo, in quanto scritto­re- spazzatura? Chi si dimostrò più intolle­rante e fanatico? Papa Ratzin­ger o i professori e i loro allie­vi che lo obbligarono, nel 2008, ad annullare il suo di­scorso alla Sapienza?
Lo squadrismo culturale, come la cronaca troppo fre­quentemente testimonia, è sempre vigile.E l’arte della in­timidazione preventiva non perde occasione di manife­s­tarsi nelle espressioni più cu­riose e incoerenti. Come quando,nel nome dell’antifa­scismo, si rifiuta di ascoltare le memorie- vere o verosimili che siano - di chi quel fasci­smo fondò, gettando una na­zione in un regime. Come se chiudendo occhi e orecchie, tutti i crimini ideologici scom­parissero d’incanto. Invece che ripetersi in maniera ag­ghiacciante come è accaduto ieri a Como.
«Il Giornale» del 31 agosto 2010

La casta degli storici che non insegna nulla

Gli accademici snobbano tutti i libri contro la versione "ufficiale" da loro accreditata. E così i revisionisti impazzano: il caso dell'anti-risorgimento
di Marcello Veneziani
Egregi storici di professione che liquidate con disprezzo i testi e le persone che a nord e a sud criticano il Risorgimento e ne descrivono massacri e malefatte, dovreste tentare un’autocritica onesta e serena. So che è difficile chiedere a molti di voi l’umiltà di rimettere in discussione le vostre pompose certezze e il vostro sussiego da baroni universitari, ma tentate uno sforzo. Se oggi escono libri e libercoli a volte assai spericolati, poco documentati e rozzi nelle accuse, nostalgici del passato preunitario, lo dobbiamo anche a voi. Se nei libri di testo e di ricerca, se nei corsi di scuola e d’università, se nei convegni e negli interventi su riviste e giornali, voi aveste scritto, studiato e documentato i punti oscuri del Risorgimento, oggi non ci troveremmo a questo punto. E invece quasi nessuno storico di professione e d’accademia, nessun istituto storico di vaglia ha mai sentito il dovere e la curiosità di indagare su quelle «dicerie» che ora sbrigate con sufficienza.
Ho letto e ascoltato con quanto fastidio - e cito gli esempi migliori - Giuseppe Galasso, Galli della Loggia, Lucio Villari parlano della fiorente pubblicistica sul brigantaggio, i borboni, i massacri piemontesi e i lager dei Savoia. Ne parlano con sufficienza e scherno, quasi fossero accessi di follia o di rozza propaganda. Poi non si spiegano perché tanta gente affolla e plaude i convegni sull’antirisorgimento, a nord o a sud, e disprezza il Risorgimento, se un libro come Terroni di Pino Aprile sale in cima alle classifiche, se nessuno sa dare una spiegazione e una risposta adeguate alle accuse rivolte ai padri della patria. Curioso è il caso di Galasso che prima accusa i suddetti antirisorgimentali di scrivere sciocchezze e poi dice che erano cose risapute; ma allora sono vere o no, perché non affrontarle per ricostruirle correttamente o per confutarle? Ed è un po’ ridicolo criticare le imprecisioni altrui, ridurle ad amenità, e poi non batter ciglio se il suo articolo, professor Galasso, viene titolato sul Corriere della Sera «Nel sud preunitario», mentre il brigantaggio di cui qui si tratta si riferisce all'Italia postunitaria. Par condicio delle amenità.
Ma il problema riguarda tutto un ceto di storici boriosi, che detengono il monopolio accademico e scolastico della memoria. Perché avete rimosso, non vi siete mai cimentati col tema, non volete sottoporvi alla fatica di rimettere in discussione quel che avete acquisito e sostenuto una volta per sempre? Detestate i confronti e perfino la ricerca che dovrebbe essere il vostro pane e il vostro sale. Il risultato è che per molta gente questi temi sono scoperte inedite.
Per la stessa ragione, non è possibile trovare sui libri di storia, nei testi scolastici e universitari o nei vostri interventi sui giornali, le pagine infami che seguono alla rivoluzione napoletana del 1799 con intere città messe a ferro e fuoco, migliaia di morti ad opera dei giacobini rivoluzionari. Celebrate i collaborazionisti delle truppe francesi ma omettete i loro massacri, le città rase al suolo. Non è ideologica anche la vostra omertà? O ancor peggio, poi non vi spiegate, voi storici titolati del Novecento, perché libri come quelli di Giampaolo Pansa esplodano in libreria con centinaia di migliaia di lettori: ma perché voi, temendo l’interdizione dalla casta, non avete avuto il coraggio di riaprire le pagine sanguinose della guerra partigiana, il triangolo rosso e gli eccidi comunisti. Così fu pure per le foibe. Poi con disprezzo accademico sbrigate questi libri come pamphlet giornalistici, roba volgare e imprecisa. Ma quei morti ci sono stati sì o no, e chi li uccise, e perché? Quelle ferite pesano ancora nella memoria della gente sì o no? Che coesione nazionale avremo, caro Galli della Loggia, nascondendo vagoni di scheletri negli armadi?
Sul Risorgimento non avete il coraggio di rispondere a quelle domande e così contribuite in modo determinante a rendere le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia come uno stanco rituale, estraneo agli italiani, dominato dai tromboni e dalle stucchevoli oleografie. Salvo poi scrivere stupefatti e indignati che il Paese non partecipa, è assente, è refrattario. Ma non vi accorgete che lo diventa se continuate con il vostro manierismo e le vostre omissioni?
Come forse sapete, sono tutt’altro che un detrattore del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, anzi sono un fautore di lunga data dell’identità italiana, quando eravamo davvero in pochi a difenderla. Sono convinto che il processo unitario fosse necessario, che molti patrioti fossero ardenti e meritevoli d’onore, e che l’idea stessa di unire l’Italia fosse il sacrosanto coronamento di un’identità, di una storia, vorrei dire di una geografia, di una cultura e di una lingua antiche. Ma per rendere autentica quell’unità non possiamo negare le sue pagine oscure e pure infami, non possiamo negare le sofferenze che ne seguirono e lo sprofondare del sud nei baratri della miseria, della malavita e dell’emigrazione. Quella malavita organizzata che dette una mano ai garibaldini come poi agli sbarchi americani. Sono convinto che l’Unità d’Italia non portò solo guai ma modernizzò il Paese, lo alfabetizzò e lo fece sviluppare; e considero meritevoli di rispetto i cent’anni e passa che seguirono all’Unità d’Italia, la nascita dello Stato italiano e di una dignitosa borghesia di Stato, la graduale integrazione dei meridionali nello Stato, il loro grande contributo alla scuola e all’università, alle prefetture e alle forze dell’ordine, alla magistratura e all’alta dirigenza dello Stato, all’impiego pubblico e militare. Non possiamo buttare a mare più di un secolo di storia per qualche decennio finale di parassitismo.
Ma bisogna avere il crudo realismo di narrare anche l’altra faccia della storia; per amor di verità, per rispetto di quei morti e per riportare dentro l’Italia gli eredi di coloro che subirono l’Unità. Perché resta ancora da costruire un’Italia condivisa e non da dividere un’Italia già costruita.
«Il Giornale» del 31 agosto 2010

30 agosto 2010

Pico, dottore in Qabbalah e amor profano

Giulio Busi: la rinascimentale vita di un curioso enciclopedico, anima controversa, disperatamente umana
di Alessandro Defilippi
Autunno 1494. Sono i giorni in cui Carlo VIII di Francia, sulla strada per Napoli, entra in Firenze, dopo che i Medici, nella figura di Piero, figlio del rimpianto Magnifico, ne sono stati cacciati. Il 17 novembre, nella città toscana, muore, per cause non accertate, Giovanni Pico della Mirandola, umanista, cabbalista, sospetto d'eresia, fiero nemico dell'astrologia quanto amico dei neoplatonici. Figura ancora oggi simbolicamente significativa, se di un uomo dotato di prodigiosa memoria si diceva che era come Pico; almeno sino all'avvento della rivoluzione digitale,che ci ha purtroppo assolto dall'arte del ricordare. Alla sua morte, Giovanni - o meglio, Pico, come tutti lo chiamiamo- è un estroso trentunenne, di molti amori e ancor più letture e amicizie. È nato a Mirandola, presso Modena, e proviene da un ambiente di parentele e legami sopraffini, daiGonzaga agli Este, ai Boiardo di quel Matteo Maria autore dell' Orlando innamorato.Masoprattutto è uno dei personaggi che, in quell'incipiente Rinascimento (le Americhe vengono scoperte due anni prima della sua scomparsa), determina le nuove coordinate della cultura occidentale. Di Pico, dunque, scrive Giulio Busi in un libro singolare e affascinante, degno peraltro dell'autore. Busi è docente a Berlino, dove dirige l'Istituto di Giudaistica, ed è autore o curatore di testi sopraffini,comeMistica ebraica, curato insieme a Elena Loewenthal. Busi accoppia al rigore del filologo - assoluto, questo, basti compulsare il ricchissimo apparato di note - a un' imprevista verve di narratore. Unmemorialista, verrebbe da dire, se non che Busi narra, come se vi fosse stato presente, i fatti e i pensieri occorsi a personaggi del quindicesimo secolo. E che personaggi: dallo stesso Pico, che l'autore spolvera di ogni ragnatela accademica, a Marsilio Ficino, da Lorenzo de' Medici al Poliziano, fino a quel fecondo milieu di ebrei e di marrani (come venivano chiamati gli ebrei convertiti al cristianesimo) che affolla il nostro Rinascimento. Il Pico di Busi è un curioso enciclopedico, un ricercatore di sapienza. Sapienza che va a scovare persino nella Qabbalah ebraica e negli insegnamenti di personaggi discutibili e spericolati, come Flavio Mitridate, alias Guglielmo Raimondo Moncada, ebreo convertito di Caltabellotta, che per Pico compila e traduce una biblioteca di testi cabbalistici. È anche però un amante focoso, che ci viene descritto durante il tentativo di rapimento della bella Margherita, e una sorta di arbiter elegantiarum. Autentico prototipo di quella fantasia di uomo assoluto che fu di quei tempi, è fondamentalmente, pur nei suoi difetti, impietosamente evidenziati dall'autore, un ricercatore dell'assoluto. Ricerca mescolata a un furioso bisogno di dimostrarsi il migliore, che lo condurrà a pericolose disavventure, come quando certe sue Conclusiones, proposizioni filosofiche, anziché la sospiratafama gli donerannoun'accusa di eresia da parte di papa Innocenzo VIII (legato, tra l'altro, agli autori del famigerato Malleus Maleficarum e allo stesso Torquemada) e una conseguente, salvifica fuga in Francia. Personaggio complesso e controverso, disperatamente umano, Pico ci appare dunque ben degno di stare al centro di un'opera letteraria. Colpisce, come detto sopra, la padronanza narrativa di Giulio Busi, che costruisce il suo romanzo-saggio su episodi salienti, scene di notevole intensità, filtrate da uno stile che ricorda, per alcuni manierismi, certa avanguardia. Il miglior complimento che un lettore non tecnico possa fare al libro è che ne dispiace una certa brevità, e che forse Busi avrebbe potuto osare di più (e chissà che un giorno non decida di farlo), spingendosi più risolutamente sul versante di un romanzo storico ricco, oltre che di eventi e di esattezza, di idee e di domande.
«La Stampa», supplemento «Tutto libri» del 28 agosto 2010

Giovani scrittori, imparate dall'America

Il dibattito sui nuovi autori italiani: molti di loro sono velleitari. Oltreoceano c'è chi come la Morgan dimostra un altro spessore
di Maurizio Cucchi
È giusto, nel vastissimo mare dei romanzi di nuovi autori che negli ultimi anni appesantiscono i banchi dei librai, cercare di fare il punto della situazione, di capirci qualcosa soprattutto da un punto di vista letterario, in un tempo che sembra privilegiare solo i numeri e le vendite. Il supplemento domenicale del Sole 24 Ore ha interpellato in questo senso vari critici, mettendo in moto un'idea di riflessione necessaria (sull'argomento è intervenuto anche Cordelli sul Corriere). Iniziative come queste sono utili, purché non si arrivi (come oggi si tende a fare da più parti) a stilare classifiche, che sono in fondo la negazione della critica e la brutta copia delle classifiche di vendita. Ho apprezzato anche l'intervento di Andrea Cortellessa, che sottolineava giustamente la maggiore vitalità (e direi libertà) della poesia giovane rispetto alla narrativa under 40, anche se le sue scelte coincidono solo in parte con le mie e se penso che definire la Biagini caposcuola sia piuttosto improprio.
Venendo ai narratori, devo dire che la ricerca ossessiva della novità e del talento giovanissimo ha contribuito a rendere più caotico il panorama complessivo. Tanto che oggi le motivazioni che muovono un narratore non sembrano più, essenzialmente, quelle di praticare un'arte, ma di trovare il modo di pervenire a un generico successo. Molte, insomma, le presenze velleitarie o acerbe, molti i romanzi che sanno più di sociologia spicciola che di letteratura e dunque di poesia e ricerca di scrittura e stile. Certo molto mi sfugge, visto che nelle tantissime uscite distribuite in libreria è difficile orientarsi, a meno di non leggere nient'altro; e dunque sono certo di aver perso molto del meglio. Ma è anche vero che la frequente nascita di «grandi stelle» rende un po' troppo funzionale il paesaggio della nostra narrativa al sistema del varietà totale nel quale quotidianamente siamo immersi.
Non certo per snobismo, ma per semplice curiosità e per una felice combinazione, mi è capitato di leggere in questi giorni estivi l'opera prima di una scrittrice americana nata, se non sbaglio (la notizia biografica del libro non indica l'età), nel 1976. Si tratta di Catherine E. Morgan, autrice di Tutti i viventi (Einaudi, pp. 204, € 18,50), romanzo molto bene accolto e premiato negli Stati Uniti, e che pure nella semplicità della sua storia, e nella sua linearità, mi è parso un libro di qualità insolita e di già evidente maturità espressiva. L'autrice non cerca scorciatoie o astuzie persuasive. Racconta di due giovani nel Kentucky, che si mettono assieme dopo una tragedia che ha cancellata la famiglia di lui, Orren, che è un ruvido contadino intenzionato a vivere nella fedeltà alle origini, nella continuità con il lascito familiare, mentre la ragazza, Aloma, è più vibrante e sensibile, amante della musica e pianista.
Il lettore viene coinvolto da una scrittrice che riesce a far comprendere, in ogni dettaglio, l'importanza decisiva, nell'esperienza umana, del rapporto diretto e fisico con il reale; rapporto di cui oggi sempre più siamo spossessati. C'è qualcosa di poeticamente ruvido e concreto nelle sue descrizioni, nel suo modo di rappresentare un mondo periferico e quasi astorico. Un mondo, quello del cuore degli Stati Uniti, che ha dato molta grande narrativa. la Morgan ha certo ben presenti Carson McCullers e Flannery O'Connor. Ma non può certo non aver amato l'immenso William Faulkner, o anche il più vicino Cormac McCarthy. Da un lato, nel suo racconto, il contadino legatissimo alla terra, dall'altro la ragazza che ama l'arte, che si realizza nella gioia del contatto con una tastiera di pianoforte e che troverà anche il fascino di una spinta ideale nella figura di un giovane prete di campagna. Ma, appunto, le due diverse realtà di Orren e Aloma sentono il bisogno oscuro di relazionarsi, di coesistere e sovrapporsi, alimentandosi reciprocamente.
Io credo che questa scrittrice possa costituire un esempio molto interessante, non tanto come modello possibile a cui rifarsi. Quanto per la dimostrazione che mi sembra dare di una ricerca che non può non essere condivisa da un vero scrittore: quella della paziente costruzione di un'opera nella verità personale, nella forza dello stile, nella tenace pratica di un'arte straordinaria come è quella del narrare. Considerando pubblicità e successo immediato come puri accidenti, come conseguenze marginali, e dunque del tutto secondarie.
«La Stampa» del 10 agosto 2010

Il buon padre Sigmund

Escono in Germania le lettere inedite di Freud ai figli
di Andrea Affaticati
Un affettuoso patriarca che crede nei legami, nel matrimonio, nelle gravidanze anche non programmate. Altro che demolitore della famiglia
"Da tempo intuivo che, nonostante la tua nota ragionevolezza, fossi preoccupata per il tuo aspetto esteriore e dunque di non trovare un marito. Tutto questo mi ha fatto sorridere, primo perché mi appari bella, secondo perché so che al giorno d’oggi non è più la bellezza della forma a determinare il destino di una ragazza, ma la sua personalità”. A scrivere, non è una madre amorevole alla figlia ventenne in piena crisi di identità, ma un padre. Non un padre qualsiasi, tant’è che lo scrivente ricorda che “il fatto poi che tu sia mia figlia, non ti dovrebbe certo nuocere”. La destinataria di questa e di altre decine di missive è Mathilde, primogenita di Sigmund Freud. Le lettere del padre della psicoanalisi ai suoi figli in carne e ossa sono ora pubblicate in un ponderoso volume, quasi 700 pagine, appena uscito presso l’editore Aufbau Verlag, “Unterdess halten wir zusammen - Briefe an die Kinder” (“Per il momento restiamo uniti - Lettere ai figli”).
La raccolta – curata da Michael Schröter – getta nuova luce su un Freud assolutamente privato. Molto si sa, infatti, del suo rapporto con l’ultimogenita Anna, anche grazie al carteggio pubblicato nel 2006. Ma qual era il rapporto con gli altri figli? Con Mathilde, Martin, Sophie, Oliver, Ernst? Lo raccontano queste lettere, divise per destinatario e in gran parte inedite. Una corrispondenza iniziata tra il 1907 e il 1918, quando i figli hanno tra i 19 e 26 anni. E anche se alcuni critici tedeschi si sono rammaricati dell’assenza delle lettere dei figli, le risposte di Freud lasciano spesso e facilmente intuire il contenuto, le domande, i racconti delle lettere a lui indirizzate. E nonostante la “lacuna della controparte”, questa raccolta getta luce su un aspetto caratteriale di Freud che giustifica pienamente la domanda formulata nell’introduzione al volume: “Quanto l’umanità che traspare da questa corrispondenza è all’origine della psicoanalisi come teoria e, ancora di più, della pratica psicoanalitica?”.
Freud amministrava la propria famiglia nel più classico stile del patriarca. E la cosa stupirà soltanto chi ancora dà credito alla rozza vulgata che ha percorso il secolo breve, che lo ha sempre voluto nemico per antonomasia della famiglia come del matrimonio e, anzi, padre (psichico) della rivoluzione dei costumi. I figli maschi dovevano studiare, le femmine dovevano prepararsi al matrimonio. Sul quando e con chi, necessitavano dell’approvazione del padre. Ciononostante, quando Mathilde decide di fidanzarsi senza prima chiedergli il permesso, Freud mostra una tolleranza rara a quei tempi e in quel ceto sociale: “Non ho un altro pretendente in serbo per te, e trovo sia tuo diritto guardarti intorno da sola. Solo ti ricordo che sei giovane e non c’è fretta per il grande passo”. E’ una famiglia allargata quella di cui Freud si prende cura: oltre alla sorella della moglie, accoglierà e sosterrà via via nuore, generi e nipoti. Un amico del figlio Martin, Hans Lampl, anche lui futuro psicoanalista, annota: “Freud aveva un senso della famiglia molto sviluppato, tipicamente ebreo, direi.
Per lui la famiglia va soccorsa, sostenuta, se necessario anche economicamente”. Proprio per questo senso di unione (il titolo della raccolta “Per il momento restiamo uniti” è una frase che Freud scrive al genero Max, poco prima dell’avvento del nazismo) le lettere di Freud hanno alcuni temi fissi, tutt’altro che scardinatori della tradizione: i soldi, la salute. A Martin, che si trova in un campo di prigionia, nel febbraio del 1919 scrive: “Tutto quello che ora guadagnerò come diritti d’autore lo metto via per te, così quando tornerai a mani vuote, avrai qualcosa”.
Accetta alcune decisioni dei figli anche se vanno contro il suo volere. Per esempio quella di Martin di arruolarsi volontario in guerra. Lo ammonisce, però, di non confonderla “con un soggiorno sportivo”. E’ il punto di riferimento per tutti i familiari “nelle situazioni di crisi”. Rassicura Sophie rimasta incinta per la terza volta, dopo che lui le aveva consigliato di fare più attenzione, viste le ristrettezze economiche in cui vive con il marito e i due figli: “Se pensi che sia turbato dalla notizia ti sbagli di grosso… Accetta il mio consiglio, accogli serenamente questo figlio e non rovinare a te e a Max l’attesa con cattivi pensieri. E anche per il futuro non dovete preoccuparvi. Gli affari, nonostante la guerra e il nostro impoverimento, hanno ripreso ad andare…”.
E quando, meno di un anno dopo, Sophie morirà, Freud troverà parole altrettanto calorose per il genero: “Mio carissimo Max… Ho l’impressione di non aver mai scritto una lettera più superflua di questa… Non provo nemmeno a consolarti, così come tu non puoi fare nulla per noi… Questa tragedia non cambia nulla nei sentimenti per te, resterai nostro figlio, fintanto che tu lo vorrai…”. Era la famiglia il faro attorno al quale si orientava la vita di Freud, come questo volume ha il merito di evidenziare e come lui stesso ha messo nero su bianco qualche giorno prima della sua partenza per Londra. Il 12 maggio del 1938 scriveva al figlio Ernst: “Due idee fisse mi tengono in vita in questi tempi tristi, vedere tutti voi riuniti e – to die in freedom”.
«Il Foglio» del 5 agosto 2010

E Orlando sfuriò con 10 figli a Parigi

di Paola Mastrocola
Orlando cavalcò a lungo e alfine trovò una radura, un piccolo spiazzo all’angolo di due strade con tavolini e sedie di metallo smaltato, che si chiamava Cafè d’Antan. Parcheggiò il cavallo, si sedette esausto e ordinò un pastis, con molta acqua. Era una dolcissima serata di fine estate. La Senna scorreva placida, solcata dai lenti bateau­mouche pieni di turisti, e i tetti delle case si arrossavano leggermente al sole del tramonto.
Avevano vinto! Dopo tutti quegli anni, estenuanti duelli, battaglie campali, notti insonni, cavalcate, boschi selvaggi e radure, castelli, anelli fatati, maghe e orche assassine, finalmente la guerra era finita, Orlando aveva appena ucciso in duello il re Agramante e ora si godeva il meritato riposo. Giusto un aperitivo e due olive. In silenzio, beato, contemplando tutto quel viavai frenetico di gente, auto, vélo che chiassosamente gli brulicavano intorno. A un certo punto, vide da lontano una giovane donna che correva e si sbracciava proprio nella sua direzione.
Aveva lunghi capelli biondi, un po’ scarmigliati, e un vestitino corto attillato, color fragola. Prima che lui potesse fare o dire alcunché, la donna si era già accomodata al suo tavolino e lo salutava ora con grande trasporto, informandosi della sua salute e mostrandosi molto felice di rivederlo.
Anzi, dicendo che lo aveva cercato per mari e per monti, per prati e per colline, per valli e per foreste e per tutte le strade di Francia, Inghilterra, Albracca, Alamagna e Demogir, e adesso non le pareva vero, era per lei una fortuna insperata averlo finalmente ritrovato.
Orlando strabiliò. Non riusciva a capire chi mai fosse quella donna, se l’avesse mai incontrata e dove. Se ne rimaneva quindi in silenzio, basito, la bocca spalancata che non riusciva a richiudere, come un pesce appena pescato, boccheggiante. Gli ricordava pur vagamente qualcuno, ma non sapeva chi.
Gli sembrava come d’averla conosciuta tanto tempo fa, e gli pareva di sentire, dentro di sé, la spina di una qualche nostalgia mista ad un accorato, soffuso dolore. Come una ferita che, nonostante ormai rimarginata, ora tornasse seppur lieve a bruciacchiargli un po’. «Ci conosciamo dunque, signora?», le chiese.
La donna a una siffatta domanda rimase col bicchiere a mezz’aria, incerta, sgomenta. Come poteva accadere che Orlando…? «Sono Angelica!» disse. E Orlando, carezzandosi la barba e guardando in cielo come a trovar lassù qualche barlume di verità e non trovandolo affatto, andava dicendo come tra sé e sé: «Angelica… Angelica… Angelica chi?». Incredibile!
Dunque Orlando aveva dimenticato…!
Angelica non se ne capacitava.
Quell’uomo che l’aveva inseguita ovunque, che sbavava per lei, che aveva sostenuto i più terribili duelli… Ma non sapeva niente Angelica, e come avrebbe potuto?
Se n’era tornata nel Catai con quel suo Medoro, come poteva sapere quali pazzie Orlando combinò nel mondo a causa sua?
Né poteva sapere che poi recuperò il senno, annusandolo da un’ampolla, e di lì divenne un uomo… assennato. Ah, meraviglioso caso! Era bastato appropinquare il naso al vaso, tirar su d’un fiato… ed ecco il senno ritrovato!
Orlando, insomma, era diventato così assennato che s’era dimenticato!
D’altronde, sia detto qui tra di noi, cosa può mai essere il senno se non l’oblio delle nostre passioni? Come potrebbe altrimenti albergare in noi amore e assennattezza insieme, se non trionfasse a un certo punto la seconda a scapito del primo? Angelica non si perdette d’animo.
Ora che aveva ritrovato il suo Orlando, non voleva certo riperderlo. Andò un attimo in toilette, si rassettò il vestitino, tirò fuori dalla borsetta la busta dei trucchi e cominciò a incipriarsi, pettinarsi, passarsi il rossetto sulle labbra e il rimmel blu sulle ciglia, e tornò al tavolino, più decisa che mai a riprendersi quel cavaliere che chissà perché non s’era preso allora… Come diavolo aveva fatto a innamorarsi di quel mentecatto di Medoro, un semplice soldato semplice che poi, una volta diventato re del Catai, guarda come l’aveva trattata, da un giorno all’altro scaricata per quella sciacquetta diciottenne… Ah, quante sere aveva passato a piangere, e rimpiangere tutti quei bei cavalieri armati che le venivano dietro come mosche, e lei sdegnosa ingrata e presuntuosa peggio di una diva di Holliwood! Ma adesso basta, aveva ritrovato Orlando, il migliore di tutti, e non se lo sarebbe fatto scappare mai più. Ticchettando sui tacchi a spillo, tornò a sedersi al tavolino, sorrise, sbatacchiò le ciglia un po’ di volte e… fatta! Orlando ci ricascò come un salame.
Senza ricordare d’averla amata tanto, al punto da diventare pazzo furioso per amore, né d’essersi imbestiato tanto da correre nudo per il mondo, attaversare a nuoto il mare fino in Africa, uccidere passanti con la sola colpa di trovarsi sul suo cammino. Non ricordava. E per questo le sorrideva, estasiato di tanta bellezza e anche un poco fiero che una donna tale s’interessasse a lui. Ah, gran bontà de’cavalieri antiqui! Ché non si cade mai una volta sola imbelli negli stessi tranelli... e, gira gira, i desideri son sempre quelli. E così fu che Orlando e Angelica si sposarono una domenica mattina a Parigi. Presero in affitto un alloggetto, ebbero subito un figlio, e poi un altro. E per mantenerli, presero a lavorare dodici ore al giorno, Angelica come barista e Orlando come commesso viaggiatore. Tutto andò piuttosto bene, all’inizio. Poi vennero altri otto figli, così che in tutto faceva dieci. Dieci figli da portare all’asilo, a scuola, al liceo, ai corsi di recupero, a inglese, a danza, in piscina, a cavallo… Fu così che diventarono pazzi. Tutti e due, ma soprattutto lui. Orlando divenne veramente furioso. Cominciò a essere intrattabile, tirava piatti addosso a tutti in cucina, sferrava padellate a destra e a manca, usciva nudo sul balcone, rubava nei supermercati senza accorgersene, entrava nei cinema e si metteva a urlare, si sdraiava sulla linea di mezzeria dei boulevards in pieno traffico. Un giorno, più disperata che mai, Angelica chiamò il famoso cugino Astolfo. Gli spiegò tutto per bene, gli disse che non era colpa sua questa volta, che lei non ci poteva niente, che era la vita, la società, il progresso, chi lo sa … Gli chiese, per carità, aiuto! E come? chiese Astolfo, che era andato in pensione e si godeva la vita a Sharm-el-Sheik. Be’ ecco, se tu potessi ancora una volta per favore andare sulla Luna… sai, a riprendergli quel famoso senno… Astolfo la lasciò parlare. Sì, certo che si ricordava. Come no… la Luna, gran bel posto! Anche un bellissimo viaggio! L’avrebbe rifatto volentieri. E poi, per quel suo simpatico cugino, questo e altro. Solo che… Solo che, per far tutte quelle vacanze lì, hotel, gite nel deserto, snorkeling e cene a lume di candela… sì, insomma, si era venduto l’Ippogrifo! E come si può arrivare sulla Luna d’un sol fiato… senza cavallo alato? Fu così che gentilmente Astolfo si defilò, e suo cugino Orlando pazzo furioso restò.

«Angelica chiamò in soccorso Astolfo perché tornasse sulla luna a prendere il senno del marito. Ma lui, pensionato a Sharm-el-Sheik, aveva ormai già venduto l’Ippogrifo»

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L’«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto si situa nella tradizione cavalleresca medioevale.
Pubblicato nel 1532, composto da 46 canti in ottave, in una trama dai destini incrociati fa ruotare intorno a Orlando, colui «che per amor venne in furore e matto», vari personaggi:
Angelica, Bradamante, Ruggiero, Astolfo. È un poema del movimento e dello spazio, il racconto di un sogno che diventa percorso iniziatico di conoscenza. Negli ultimi quarant’anni è stato riscoperto nella sua modernità da scrittori e registi che ne hanno tratto importanti interpretazioni. Calvino nel 1968 gli dedica alcune trasmissioni radiofoniche, il cui testo diventa nel 1970 l’«Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino». Edoardo Sanguineti collabora col regista Luca Ronconi per la «mascheratura» teatrale dello spettacolo che debutta nel 1969 e avrà successo in tutt’Europa, compreso il «travestimento/tradimento» tv in 5 puntate dell’Orlando che Ronconi dirige per la Rai per il quinto centenario della nascita di Ariosto.

Avvenire» del 29 agosto 2010


Dopo la provocazione di Wired ecco come il web inizia una nuova vita

di Luca Tremolada
Vent'anni dalla sua nascita e il World Wide Web è in declino. Questo l'incipit della copertina del numero di settembre di Wired Usa dal titolo provocatorio «Il Web è morto, lunga vita a Internet». La storia, commentata ieri sulle pagine del Sole 24Ore e pubblicata sul sito prende spunto da un grafico di Cisco che mostra come negli ultimi dieci anni la percentuale di traffico internet sul Web sia drasticamente diminuita a vantaggio di altri utilizzi come applicazioni, programmi di condivisione, video e altre attività che poco hanno a che vedere con la navigazione.
La tesi viene sostenuta da Chris Anderson, ex direttore di Wired, e dall'editorialista Michael Wolff diviso solo dalle motivazioni che hanno portato a questa trasformazione.
«Ti svegli e controlli la posta sull'iPad – scrive Anderson – con un'applicazione. Durante la colazione ti fai un giro su Facebook, su Twitter e sul New York Times, altre tre applicazioni. Mentre vai in ufficio, ascolti un podcast dal tuo smartphone. Un'altra applicazione. Al lavoro, leggi i feed RSS e parli con i tuoi contatti su Skype e attraverso l'Istant messaging. Altre applicazioni. Alla fine della giornata, torni a casa ti siedi a cena, ascolti musica sulla web radio Pandora, giochi con il servizio online della console Xbox, guardi un film in streaming su Netflix. Hai passato l'intera giornata su internet, ma non sul web. E non sei il solo».
Quella tra il web, inteso come quell'insieme di tecnologia orientate alla navigazione, e le applicazioni sviluppate da soggetti privati che vivono dentro internet non è una distinzione da poco. Secondo Anderson infatti «una delle più importanti svolte nel digitale è stata proprio il passaggio dal mondo aperto del Web a quello di piattaforme chiuse o semi chiuse che usano internet soltanto come mezzo per trasportare». Un passaggio a cui ha contribuito anche il successo dell'iPhone che attraverso le apps ha creato un sistema che Google non può aggredire e che non sempre parla l'Html, il linguaggio del Web. Ma in definitiva i veri responsabili saremmo noi, gli utilizzatori della rete che abbiamo preferito la semplicità delle piattaforme chiuse alle logiche della rete. In sostanza la tesi di Wired è che il Web non è il culmine della rivoluzione digitale ma solo una fase. Il centro dei media interattivi si allontanerebbe sempre di più dall'Html con il rischio che in futuro continueremo ad avere pagine internet, così come oggi continuiamo ad avere cartoline e telegrammi.
Anche per Michael Wolff il Web è in declino ma per ragioni differenti. Secondo l'editorialista di Vanity Fair sostanzialmente sta vincendo il capitalismo che fa profitti. Rispetto al passato il denaro dei capital venture si concentra su chi già domina la rete. Preferiscono Facebook al posto di puntare su altri social network perché sanno che con i suoi 500 milioni di utenti Fb è molto di più del più grande sito del Web. «Secondo la società di analisi Compete - scrive Wolff - nel 2001 i primi dieci siti più visitati negli Stati Uniti producevano il 31 per cento del traffico totale, il 40 per cento nel 2006, il 75 per cento nel 2010». Chi perde è la rete, o meglio la natura aperta del Web responsabile di quella straordinaria stagione di innovazione che abbiamo conosciuto fino a oggi. «Se stiamo scegliendo di chiudere con la logica del web aperto – osserva - è almeno in parte per l'ascesa dei business man, più inclini a ragionare in un'ottica di o-tutto-o-niente dei media tradizionali piuttosto che con la logica utopistica e collettivista del web».
Le due tesi sembrano studiate per stimolare una reazione in Rete. E così è stato. I più puntuali si sono dimostrati Techcrunch , Boing Boing e Gizmodo che ieri hanno reagito alla provocazione di Wired concentrandosi più che sulle tesi sul grafico di Cisco. Secondo Rob Beschizza leggendo meglio i dati, il traffico Web diminuisce in termini relativi solo perché aumenta quello dei video (YouTube). Se consideriamo il sito di condivione di Google Web allora il traffico al posto di diminuire aumenta. E anche tanto, passando da 1 exabyte a 7 exabytes tra 2005 il 2010.
«Il Sole 24 Ore» del 19 agosto 2010

Diritti umani sotto scacco

di Elena Molinari
Nel ventesimo secolo il dibattito sui diritti umani è entrato a far parte della cultura politica e legale a livello internazionale. E il rispetto dei diritti civili e politici delle persone è diventato per la prima volta oggetto di preoccupazione per la comunità internazionale. Questa maggiore consapevolezza appare oggi minacciata dalla necessità di molti Paesi occidentali di proteggersi da attacchi terroristici, da infiltrazioni di gruppi estremisti e dai conflitti armati combattuti all’interno dei confini di un Paese. David Kretzmer, docente di Diritto internazionale all’Universita’ Ebraica di Gerusalemme e membro per otto anni del comitato Onu per i Diritti umani, da anni si chiede come applicare le leggi sui diritti in contesti in evoluzione e non ben definiti. O all’interno di Paesi che non accettano l’autorità degli organismi internazionali. Kretzmer affronterà questo tema durante un intervento il 24 agosto al Meeting di Rimini.

Professor Kretzmer, una società democratica che si sente minacciata dall’interno può imporre limiti ai diritti dei suoi cittadini?
Ci possono essere limiti, ma devono essere necessari e proporzionali alla minaccia reale, non a quella avvertita. Di solito i diritti che vengono limitati per primi sono quelli d’espressione. Ma qui bisogna fare un distinguo fra i divieti alla libertà d’espressione imposti da un’istituzione, come un’università, che in certi casi possono essere giustificati, e quelli imposti dallo Stato stesso, che lo sono raramente.

In che categoria rientra il caso del divieto di portare il burqa imposto dal governo francese?
È una questione di libertà di religione. La loro religione, non una scelta individuale, impone alle donne musulmane di coprirsi il capo, quindi un divieto del genere crea un conflitto di coscienza. Fatico a vedere il valore di un tale bando, persino all’interno di un’istituzione. Infatti, il comitato per i Diritti umani dell’Onu ha stabilito che il divieto alle donne a coprirsi la testa è una violazione della loro libertà di religione.

Il comitato per i Diritti umani dell’Onu non ha potere coercitivo: che strumenti ha per migliorare il rispetto delle sue raccomandazioni da parte degli Stati che lo riconoscono?
È vero, ma le sue raccomandazioni non vanno inascoltate. Anche i Paesi più problematici oggi almeno tendono a spiegare perché non implementano le raccomandazioni del comitato. Del resto non si può fare molto di più. Il sistema internazionale non è disposto ad andare nella direzione di una maggior coercizione. I trattati istitutivi degli organismi internazionali sono siglati dagli Stati, e gli Stati sono riluttanti ad accettare che un’istituzione esterna possa costringerli a rispettare le sue raccomandazioni, soprattutto sul tema dei diritti umani, che tocca aree sensibili. Nel caso di Paesi omogenei, come in Europa, gli Stati sono invece più disposti a riconoscere i poteri di un organismo esterno.

Quali forze possono spingere oggi un Paese a rispettare i diritti civili e politici dei suoi cittadini?
In Europa e negli Stati Uniti le organizzazioni non governative hanno un ruolo enorme, perché usano le ricerche degli organismi per i diritti umani per legittimare le loro richieste ai governi. Questo meccanismo ha creato una forte spinta al cambiamento. Ma nei Paesi dove non esiste una società aperta non ci sono forze di questo tipo».

Lei ha scritto che nei conflitti armati non internazionali, che si svolgono all’interno dei confini di uno Stato, le leggi umanitarie internazionali non sussistono da sole. Quali norme si possono applicare in questi casi?
I conflitti fra uno Stato e un’entità non statale, come un gruppo terrorista, sono tenuti al rispetto dei diritti umani. Ma non necessariamente alle leggi internazionali sui diritti umani. La difficoltà è nel trovare un equilibrio. Il problema principale è l’uso di forza letale quando una valida alternativa esiste. Non è possibile accettarlo nei conflitti fra entità non statali, mentre è accettabile nelle guerra tradizionali.

Iraq e Afghanistan rientrano in questa categoria?
Sono situazioni sfumate, ma assomigliano più a guerre tradizionali. In Afghanistan, ad esempio, la guerra aveva inizialmente natura internazionale, anche se si potrebbe dire che dopo la prima elezione politica di un governo locale sia diventato un conflitto interno. In realtà le forze Nato non agiscono a nome del governo afgano, non prendono ordini da Kabul.

Gli Usa sono stati accusati di aver ammorbidito la pressione sui diritti umani nei confronti di Cina e Russia, poiché la loro influenza economica è cresciuta. È d’accordo?
La Cina non è parte dell’accordo internazionale Onu per il rispetto dei diritti civili e politici, quindi le sue azioni non sono monitorate dal comitato Onu. Viene monitorata da organismi di natura più politica, come il consiglio Onu per i Diritti umani, erede della commissione per i Diritti umani. Il problema con queste istituzioni è che la loro azione è influenzata da considerazioni politiche e dalla pressione degli Stati membri. Ed è innegabile che gli Stati Uniti hanno allentato la loro pressione sulla Cina perché va contro i loro interessi economici. La Russia viene invece monitorata dal comitato, che non l’ha mai trattata teneramente. Ma anche in questo caso la pressione politica esterna, soprattutto dagli Usa, è calata e non aiuta una maggiore applicazione delle sue raccomandazioni.
«Avvenire» del 13 agosto 2010

De Mauro: «Colpa dei padri se i giovani parlano come parlano»

di Maria Serena Palieri
Maria Giuliana Bigardi, direttrice dell’ufficio scolastico di Treviso, nei giorni scorsi ha lanciato su queste pagine l’allarme-lingua: dal suo osservatorio di Nord-Est il mondo giovanile appare in un drammatico regresso, il cui sintomo è l’uso sempre più ristretto che gli studenti fanno di tempi e modi verbali. Vado, non andrò, faccio, non farei... Siamo alla «generazione presente indicativo»? E, se sì, quali rischi questo comporta? I cervelli dei più giovani. senza ginnastica verbale, si contraggono? Lo chiediamo a Tullio De Mauro, in quanto linguista, ma anche in quanto ex-ministro della Pubblica Istruzione. «Detto così» obietta De Mauro, «ci mette fuori strada. Come nell’intera società italiana, anche nel linguaggio vi sono e si scontrano tendenze contraddittorie. E anche nel mondo giovanile. Mai in tremila anni abbiamo condiviso in pari grado il riferirci a una stessa lingua. Le generazioni giovani in realtà hanno toccato livelli di istruzione ignoti a padri e nonni, le ragazze specialmente. Le prove oggettive Invalsi accennano perfino a piccoli miglioramenti, poca cosa, certamente, dinanzi alla massiccia persistente presenza di insufficienze nel controllo di lettura e matematica. Ma la società adulta (ormai lo sappiamo con dati oggettivi) ha livelli nettamente peggiori, e gli insegnanti ne subiscono le conseguenze, ma stentano a prenderne coscienza. La disattenzione della classe politica non li aiuta».

La lingua, dite voi linguisti, è un corpo vivo. L’ultima frontiera, la contrazione dell’italiano sul modello del linguaggio sms, è un processo fisiologico oppure patologico?
«Sta diventando patologico il dislivello italiano (adulto, anzitutto) tra esigenze di conoscenza di realtà sociali e culturali di crescente complessità e la generalizzazione del dominio di strumenti linguistici, matematici, intellettuali che sarebbero necessari. Ho accennato a dati oggettivi sui livelli di alfabetizzazione della società adulta. L’ultima indagine comparativa internazionale colloca l’Italia al penultimo posto tra i paesi esaminati, prima soltanto della Sierra Leone. E conclude con un dato d’insieme di cui (sai dirmi perché?) nessuno vuol parlare: solo il 20% degli adulti ha gli strumenti linguistici (e matematici) per orientarsi nelle complessità di una società moderna. L’uso linguistico comune non può non soffrirne. Le eccellenti prestazioni linguistiche di alcuni saggisti e di molte scrittrici e scrittori e di poeti interessanti come Mariani o Montalto (ci sono anche loro, i poeti) o l’efficace chiarezza del parlato televisivo di un Dorfles o degli Angela sono in controtendenza».

Dagli anni Sessanta, con l’introduzione della media dell'obbligo, l’Italia, per alcuni decenni, è cresciuta, è diventata più alfabetizzata, dunque più consapevole. Questo «progresso» è ancora in corso oppure stiamo andando all'indietro?
«Accanto all’espansione della scolarità di base - attenzione: espansione tra le giovani generazioni - dagli anni Settanta in poi (ancora nel 1970 metà dei ragazzi non raggiungeva la licenza media), già nei vent’anni precedenti un ruolo formativo e linguistico decisivo aveva svolto la televisione. Ma le pessime leggi dei primi Novanta, mela avvelenata dell’ultimo centrosinistra, hanno spinto tutte le reti, anche pubbliche, alla ricerca di pubblicità e pubblico e quindi all’imbastardimento violento e ottundente dei contenuti, con effetti devastanti su tutta la nostra cultura nel senso ampio di questo termine».

Ecco, se andiamo all’indietro, chi ha la colpa maggiore, la tv, la politica, le famiglie,la scuola?
«Da tre anni ogni settimana per un settimanale faccio una schedina su quel che va succedendo nei sistemi scolastici in giro per il mondo. E posso, devo dirti che nessun paese del mondo, dall’Africa nera compresa agli altri paesi europei, dal Venezuela alla Corea, ha una classe politica e imprenditoriale (avevo sperato molto, ma invano, nella signora Marcegaglia) così tetramente sorda alle esigenze di scuola, università, ricerca come è sorda la nostra attuale. E siccome non riusciamo a selezionare un diverso ceto dirigente portiamo tutti una parte di responsabilità».

Se è vero che i ragazzi tendono a privilegiare il presente indicativo e rifuggono da altri modi e altri tempi, questo cosa vuol dire? È un processo di «americanizzazione»? Oppure, anche dal punto di vista linguistico, a prevalere è l’«eterno presente» di cui parlava Guy Debord a proposito della società dello spettacolo?
«Ma no, non corriamo. Il presente indicativo lo privilegiava anche Giulio Cesare. Lasciate ai linguisti e filologi l’accertamento di dati complicati, delicati. In particolare il sistema verbale italiano è una brutta bestia e perfino scrittori in auge (giornalisti, per la verità) ogni tanto inciampano in qualche “pervenirono” (una bella forma analogica che forse tra un secolo sarà norma, ma per ora no, non lo è)».

Tullio De Mauro cosa consiglia, in quanto linguista, in quanto docente, in quanto ex-ministro, in quanto padre? E, alla fine, in quanto persona di buon senso?
«Aggiungiamo anche: in quanto nonno e nonno di ben tre nipotine. C’è una cosa che in molti (circa un quarto della popolazione) possiamo fare senza troppa spesa e impegno: dire in giro quanto è bello, quanto ci ha conquistato l’ultimo bel libro che abbiamo letto. Poi, procurarci buoni libri e leggerli e col tam tam propagandarli (si sa che è il mezzo accertatamente migliore, assai meglio di recensioni e pubblicità). Più impegno richiede convincere gli amministratori locali a fare qualche tavola rotonda in meno e sforzarsi di aprire e far funzionare una biblioteca di pubblica lettura in ogni paese e in ogni quartiere delle città. È ancor più difficile attrarre l’attenzione della classe politica sulle necessità di investimento per scuola, università, ricerca, biblioteche di conservazione e ricerca, teatri, sale di concerto, orchestre decenti. Da economisti e seri studiosi dello sviluppo apprendiamo che tutto questo paga, dove si ottiene, ma anche costa e impone un riassetto dell’intero bilancio statale. Non è questione di ministri dell’istruzione o cultura, è questione di capi del governo, come in Germania o Usa, Venezuela o Francia, è questione di radicale diversa progettazione dello sviluppo del nostro paese. Qui c’è, potrebbe esserci, gloria per tutti».
«L’Unità» del 12 agosto 2010

Tucidide, Polibio, Giulio Cesare la guerra narrata dai guerrieri

Dalla lotta tra Sparta e Atene alle conquiste romane: la nuova collana del «Corriere»
di Luciano Canfora
Gli antichi ritenevano attendibili solo i testimoni oculari
Diodoro di Sicilia, vissuto al tempo di Giulio Cesare, scrisse una Biblioteca storica, cioè un’opera che, già nel titolo, rivelava di essere fondata sulla lettura di altre opere: una summa delle opere storiche più accreditate, compattata in un’unica narrazione. Il più intenso elogio dell’impresa di Diodoro lo fece, al tempo di Vespasiano, Plinio il Vecchio, quando scrisse che, finalmente, con l’opera di Diodoro, i Greci avevano «smesso di scherzare». Ad un gigantesco compilatore come Plinio quella doveva sembrare la ricetta giusta anche nel campo dello scrivere storia. Ma a lungo la convinzione opposta aveva prevalso. E anche dopo, persino chi scriveva storie universali sapeva che la parte più impegnativa e più vera era quella in cui il narratore parlava di cose del tempo suo, possibilmente viste direttamente.
Addirittura, con la consueta sua durezza, Polibio diceva in tono di scherno che, se lo storico è un pigro o un parassita, si trasferisce in biblioteca e racconta daccapo ciò che già altri hanno narrato prima di lui. Una volta compiuto il non faticoso spostamento, non gli resta che mettersi comodamente disteso e darsi alla caccia degli errori dei suoi predecessori. Sembra la caricatura della moderna fabbricazione di titoli concorsuali. La distinzione che Polibio ha in mente non è necessariamente tra chi ha assistito direttamente ai fatti che racconta e chi lo fa di seconda mano, ma piuttosto tra lo storico che ha una profonda e personale esperienza politico-militare e lo storico da biblioteca. Polibio di esperienza politica e militare non difettava: aveva combattuto; era stato anche preso come ostaggio e trasportato con altri notabili achei a Roma; in tale scomoda posizione aveva visto e frequentato il «circolo degli Scipioni»; aveva accompagnato Scipione Emiliano nelle campagne spagnole (culminate, nel 133, nell’assedio terribile di Numanzia). Ma messosi a scrivere una grande storia di come Roma aveva «unificato il mondo» — e perciò storia universale — aveva incominciato con la prima guerra punica, di cui non poteva certo avere nozione diretta essendosi quel conflitto concluso (241 a.C.) ben prima che lo storico nascesse. Ciò non toglie che, con la sua grande esperienza della guerra e della politica, Polibio si sentisse ben in grado di padroneggiare anche quella remota materia per raccontar la quale ha dovuto anche lui «recarsi in biblioteca».
Vi è però, nella mentalità antica, soprattutto nella Grecia classica ma anche nelle epoche successive, la convinzione radicata secondo cui solo il racconto di ciò che è stato direttamente visto può essere considerato vero. È la ben nota superiorità dell’occhio sull’orecchio di cui parla Erodoto nella «novella di Gige» posta subito al principio della sua opera. Da questo convincimento discende, conseguentemente, l’idea — molto radicata nel mondo classico — che la storia contemporanea, dei fatti contemporanei, è quella che può davvero aspirare ad essere considerata vera. Massimo teorico di questa concezione fu Tucidide, vissuto nella seconda metà del V secolo a. C. e narratore analitico della grande guerra (27 anni!) tra Atene e Sparta che torna oggi ad essere studiata da politologi e polemologi anglosassoni, non di rado appassionati fautori della «scoperta dell’ombrello».
Tucidide addirittura teorizza che la storia passata non si può nemmeno scrivere, la si può al più arguire per «indizi». Tucidide fu protagonista in prima persona e con alte responsabilità di comando in operazioni militari di grande rilievo e foriere di conseguenze gravi (la caduta di Amfipoli, 424/423 a. C.). E nondimeno fu diretto testimone di una necessariamente piccola parte dei fatti che si svolsero, in tutti i teatri di operazioni, nel corso dei 27 anni dell’interminabile conflitto. Perciò egli elabora una ben articolata teoria su come si debbano vagliare le fonti: o meglio le testimonianze di altri testimoni oculari ai quali lo storico, quantunque protagonista egli stesso, deve necessariamente ricorrere. Diversamente da Erodoto però, egli non descrive il processo di verifica che ha via via attuato: si limita a darne il risultato. Solo una volta dice esplicitamente dov’era mentre si svolgevano i fatti: ma noi possiamo sospettare che numerose altre volte egli parla di cose viste. Ci tiene però affinché il lettore consideri vero il suo racconto in ogni sua parte. E il suo grandissimo prestigio già presso gli antichi è dovuto, tra l’altro, anche a questo.
Anche Cesare nei suoi Commentarii tende a dare l’impressione di un racconto tutto vero e tutto fondato su cose viste. A ciò contribuisce il suo ruolo di capo indiscusso e stratega dell’intera campagna (sia in Gallia che nella guerra civile). E nondimeno i suoi collaboratori non acriticamente subalterni sapevano che molte delle cose che narrava erano fondate sui rapporti dei suoi ufficiali. Asinio Pollione, che pure era un cesariano (quantunque critico e spiritualmente indipendente), scrisse che Cesare aveva «a torto creduto» una serie di fatti che aveva perciò narrato in modo inesatto. E se fosse vissuto di più — soggiungeva — si sarebbe corretto riscrivendo i Commentarii. Cosa incredibile a dir vero, dato il loro obiettivo innanzi tutto di strumento di propaganda. E Cicerone, in una maliziosa pagina del Brutus, si spinge a dire che quei Commentarii sono talmente perfetti che nessuno avrebbe osato utilizzarli come base per una propria opera storica!
Se l’autopsia non è costantemente integrata dall’indagine sul non visto, gli inconvenienti possono essere addirittura paradossali. Il caso più famoso è quello dei «Diecimila» mercenari greci che nel 401 a. C. combatterono a Cunassa, nel cuore della Mesopotamia, per scalzare Artaserse e portare sul trono di Persia il fratello di lui — e rivale — Ciro il giovane. Uno di quei mercenari, l’ateniese Senofonte, ha raccontato quella epopea, in un libro, l’Anabasi, che già gli antichi consideravano con qualche cautela. Nella battaglia il fronte di combattimento era stato così ampio che i Greci poterono credere davvero di aver vinto (e nel loro settore effettivamente avevano vinto), ma solo il giorno seguente appresero che invece la battaglia era persa.
L’impresa dei «Diecimila» era stata una imprevista e sconcertante prova generale di come si potesse con relativa facilità penetrare sin nel cuore dell’impero persiano senza trovare resistenza fin quasi alle porte della capitale. Un sapiente politologo — l’ateniese Isocrate —, il quale caldeggiava un’impresa panellenica contro la Persia, se ne rese conto e lo scrisse in un importante intervento propagandistico, il Panegirico. Poi cominciò a suggerire l’impresa a importanti leader, e finalmente a Filippo re di Macedonia, padre di Alessandro Magno. Ma Filippo, quando ormai progettava seriamente l’impresa, fu fatto fuori da una congiura di palazzo capeggiata dalla moglie, protesa ad accelerare l’ascesa al trono del giovanissimo Alessandro. Il quale effettivamente, e con rapidità «napoleonica», realizzò l’impresa. Per eternarla, volle al suo seguito squadre di storici «di corte». E così nacque un genere particolarmente insidioso, quello degli storici che avevano, sì, visto e magari partecipato all’impresa che narravano, ma scrissero non solo da storici bensì anche da cortigiani. Con quale danno per la verità ognuno può intendere.
«Corriere della sera» del 21 agosto 2010

Da Ground Zero ai rom, in gioco i diritti dell'uomo

di Giuliano Amato
La polemica che ha investito Barack Obama, per la sua iniziale presa di posizione a favore della costruzione di una moschea a Ground Zero, e poi l'espulsione dei rom dalla Francia sono solo la spia di un fondamentalissimo problema, che quasi quotidianamente mette in gioco la fedeltà a se stesse delle nostre democrazie. Obama ha fatto un'affermazione che in sé e per sé dovremmo ritenere ovvia: «Noi siamo l'America, questi sono i nostri valori e ad essi ci dobbiamo attenere».
Eppure, nel contesto di sentimenti popolari che dopo l'11 settembre identificano con il terrorismo il mondo musulmano, l'affermazione del presidente americano è stata contrastata nel suo stesso partito, timoroso di perdere ulteriori consensi.
I rom sono una minoranza con storia, tradizioni, aspettative. Le condizioni in cui vivono da decenni in società che non hanno più bisogno dei loro cavalli e delle loro qualità artigiane, hanno accentuato la loro segregazione, il degrado dei loro insediamenti, la microcriminalità come fonte di sussistenza. Le maggioranze vogliono solo liberarsene e i governi, nonostante le convenzioni e i trattati che per ragioni di civiltà prevedono tutt'altro, prima o poi le assecondano. E proprio qui è il punto. La democrazia è fondata su principi di civiltà che sono la sua ragion d'essere e la distinguono da altri regimi. Ciò nondimeno in essa le ragioni del consenso e le ragioni della (sua) civiltà finiscono molto spesso per divergere.
Volete qualche altro esempio tratto dalla nostra esperienza in Italia? Intanto gli stessi rom, e lo sappiamo bene. Ricordo solo che la maggioranza di centro-sinistra fu molto tiepida con me quando volevo un disegno di legge per riconoscere i loro diritti e togliere tanti di loro dall'assurdo limbo di una vera e propria inesistenza giuridica (che per ciò stesso non permette di trovare lavoro). Poi ci sono le carceri, che nella patria di Beccaria dovrebbero privare il detenuto della sola libertà personale, mai degli altri diritti che discendono dalla sua dignità di essere umano. Ma in molte delle nostre carceri, non fosse altro che per il loro sovraffollamento, quei diritti sono violati ogni ora del giorno e della notte. Eppure il tema non è mai fra quelli per cui si muovono le maggioranze, che guardano alla questione con tutt'altre finalità.
I somali che tentano di raggiungere le nostre coste sono persone che avrebbero in Italia diritto d'asilo. Noi li fermiamo prima che arrivino, chiediamo alla Libia di occuparsene e non facciamo l'unica cosa che la nostra civiltà ci chiederebbe di fare: andare noi a verificare in Libia l'autenticità della loro posizione (o farla verificare lì dall'organizzazione delle migrazioni) e portarli in Italia. Le ragioni del consenso non consentono a nessuno dei grandi partiti di sostenere una tale soluzione.
Così come le ragioni del consenso impediscono di prendere atto che gli stessi immigrati illegali, i paria della nostra comunità nazionale, sono titolari di diritti e con loro lo sono i loro figli, giacché l'istruzione, la salute, l'assistenza legale, la sicurezza sul lavoro sono diritti non del cittadino, ma della "persona". Gli immigrati illegali sono almeno persone? Nessuno osa negarlo, e tuttavia quanti di noi sono pronti a trarne le conseguenze?
C'è chi è pronto a farlo, ma sono sempre i meno, mai i più. Non a caso i temi che ho ricordato sono oggetto di campagne di minoranza, come quelle del movimento radicale, da anni campanello d'allarme delle nostre coscienze. E non a caso nell'assetto istituzionale delle democrazie si distingue fra istituzioni maggioritarie elettive, nelle quali prevalgono le ragioni del consenso, e istituzioni non maggioritarie di garanzia, in primo luogo le corti, nelle quali dovrebbero prevalere le ragioni della civiltà codificate proprio in quei diritti a cui le maggioranze sono meno sensibili.
È già molto per le ragioni della civiltà se vi sono minoranze libere di sostenerle e giudici abilitati a farle valere, quando esse si incarnano in obblighi e diritti. Ma una democrazia finisce prima o poi per ammalarsi se le maggioranze non si aprono mai alle minoranze e disattendono le decisioni dei giudici, che ne contestano le scelte in nome di un principio superiore.
Insomma, i famosi checks and balances funzionano a dovere, e con loro funziona a dovere il sistema democratico, se ci sono interazione e quindi reciproca permeabilità fra le istanze di cui essi sono portatori e quelle di cui si fanno carico le maggioranze. Se c'è invece impermeabilità e quindi divaricazione perdurante, alla lunga tutto il sistema si deteriora, perché le minoranze o si estremizzano o si estinguono e i giudici, che non possono distanziarsi senza limiti dalla sensibilità delle maggioranze, finiscono per acquietarsi.
I leader illuminati delle minoranze lo sanno e sanno perciò trovare mediazioni e compromessi con le maggioranze. E anche la giustizia possiede le formule interpretative che permettono di salvaguardare i diritti individuali meno graditi alle stesse maggioranze, lasciando un qualche spazio ai limiti voluti da queste. Si pensi alla Corte europea dei diritti dell'uomo, che distingue fra diritti non suscettibili di alcun bilanciamento, come il diritto a non subire torture, e diritti, come quello a non vedersi sequestrato un film, davanti ai quali possono in certi casi prevalere i sentimenti religiosi dominanti nella comunità interessata.
Il problema è se flessibili sono anche le maggioranze e pronte esse stesse a interagire. Gli esempi per la verità non mancano e uno recente è la Spagna, dove la Corte costituzionale aveva censurato nel 2007 una legge che comprimeva quasi tutti i diritti degli immigrati illegali (salvo la scuola per i loro bambini) e una nuova disciplina è stata approntata nel 2010 che accoglie in buona parte le sue preoccupazioni.
Si tratta dunque di un circolo virtuoso possibile, che tale rimane però sino a quando nelle maggioranze prevalgono le qualità che trovereste naturali in una democrazia, la misura e il realismo. Ma attenti. Già 45 anni fa Richard Hofstadter ci spiegò la tendenza della politica, negli stessi paesi democratici, a diventare - lui diceva - paranoica e quindi a puntare per affermarsi sulla denuncia dei complotti, sulla demonizzazione dei nemici e sulla diffusione dell'ostilità e della paura ("The Paranoid Style in American Politics", New York 1965). Quando ciò accade, l'assimilazione fra talune minoranze e il nemico è la cosa più facile. E su chi conduce battaglie di civiltà cade prima il silenzio che isola, poi l'ostilità che comprime.
Un metro dunque per misurare la salute delle nostre democrazie lo abbiamo. Se ancora c'è chi si batte per ragioni di civiltà che contrastano con le ragioni del consenso, vuol dire che c'è vita. Ma se intorno c'è e rimane un pervicace silenzio, forse stiamo già entrando in paranoia.
«Il Sole 24 Ore» del 22 agosto 2010

Con Anna Rice la gnosi attacca la Chiesa

di Massimo Introvigne
Con Anne Rice, la scrittrice americana di romanzi dell’orrore, non ci si annoia mai. Nata cattolica, è diventata miscredente dopo la morte di leucemia della figlia di sei anni, Michèle, nel 1972. Nel 2005 è tornata pubblicamente nella Chiesa cattolica. Il mese scorso ha abbandonato altrettanto pubblicamente la Chiesa – e il cristianesimo in genere – in nome, ha affermato, della scienza, dell’aborto e dei diritti degli omosessuali. La Rice è diventata famosa nel 1976 con 'Intervista col vampiro' (1976) dove, molto prima di 'Twilight', ha inventato un nuovo accostamento postmoderno ai vampiri, trovando buone ragioni per il loro stile di vita. I vampiri – spiegava – certamente uccidono, ma lo fanno perché questa è la loro natura. E che cosa c’è di meno politicamente corretto che negare a qualunque essere di comportarsi secondo la sua natura? Il vampiro è immorale. Ma nel mondo postmoderno chi mai sa più che cosa sia veramente morale? La Rice tiene a essere considerata non una mera scrittrice d’intrattenimento, ma un’autrice capace di produrre autentica letteratura e perfino una nuova teologia. Le pretese letterarie sono legate a quello che è forse il suo unico capolavoro: 'The Witching Hour' del 1990 ('L’ora delle streghe'), enorme saga di una famiglia di New Orleans le cui primogenite sono dotate di poteri magici, così legata alla città in cui la scrittrice è nata e vive che il paragone con 'Via col vento' per Atlanta non sembra esagerato. Ma la scrittrice considera il suo libro migliore 'Memnoch il diavolo' (1995), che pure ha venduto molto poco, dove il vampiro Lestat incontra il diavolo, che lo conduce nella Palestina dei tempi di Gesù Cristo, in Paradiso e all’Inferno e gli espone una complessa teologia gnostica. Fiasco ripetuto con 'Servant of the Bones' (1996) e 'Violin' (1997): la trama non piace a chi si aspetta semplici romanzi horror e si trova invece di fronte a complesse riflessioni sulla Cabala. La Rice si è trovato nel classico dilemma di una scrittrice popolare che aspira a essere riconosciuta come autrice 'colta'. I suoi romanzi popolari vendono, ma non piacciono ai critici. I suoi romanzi 'colti' sono lodati dai critici, ma non vendono. Sarebbe naturalmente scortese mettere in dubbio la sincerità del suo ritorno al cattolicesimo del 2005. Ma certo è servito a rilanciare una scrittrice in declino. Tuttavia il pubblico cattolico non ha premiato i suoi romanzi a sfondo religioso. Sembrano compitini svolti più o meno di malavoglia, mentre in America non mancano romanzieri cattolici capaci di creare trame appassionanti, da Michael O’Brien all’appena defunto Ralph McInerny. Questi nuovi insuccessi hanno giocato forse un ruolo nella decisione di lasciare la Chiesa sbattendo la porta e tranciando giudizi radicalmente negativi sul cristianesimo. Anne Rice è una scrittrice religiosa, forse da sempre. La sua religione, però, non è mai stata il cristianesimo ma uno gnosticismo radicato nella tradizione esoterica e presentato nei toni 'politicamente corretti' del New Age.
«Avvenire» del 24 agosto 2010

Praga e la doppia anima del Pci

di Victor Zaslavsky *
La primavera di Praga ha rappresentato un conflitto, verificatosi su più livelli, tra gruppi conservatori e riformisti sia dentro il blocco sovietico sia all'interno del Movimento comunista internazionale (Mci). Le riforme economiche, che la nuova dirigenza sovietica Brezhnev-Kossygin iniziò a realizzare dopo l'allontanamento di Kruscev, erano indirizzate verso una moderata liberalizzazione. Tali provvedimenti, in maniera inaspettata per i loro promotori, impressero nei Paesi dell'Europa Orientale un potente impulso al riformismo, che uscì dal ristretto ambito economico per intaccare il nucleo strutturale degli ordinamenti politici.
Nel 1968 l'epicentro del riformismo si registrò in Cecoslovacchia. I riformatori cechi eliminando alcune caratteristiche del regime di tipo sovietico, quali la nomenclatura, la censura e il controllo sui mezzi di comunicazione di massa, tentarono di costruire un «socialismo dal volto umano». Il Pci, il più grande partito comunista dell'Europa Occidentale, si affrettò a mostrare il proprio sostegno al corso riformista di Alexander Dubcek in contrasto con la posizione filosovietica assunta nel 1956 dopo la rivolta ungherese. Il programma dei riformatori cechi apriva al Pci ampie possibilità di rafforzare la propria influenza e fu accolto con entusiasmo dalla sua dirigenza.

Il ruolo dei dirigenti italiani
Nel maggio 1968 Luigi Longo visitò la Cecoslovacchia. Il suo viaggio fu concepito come «un'aperta manifestazione di solidarietà politica dei comunisti italiani nei confronti della nuova direzione cecoslovacca». Al suo ritorno, Longo riferì alla Direzione del Pci che erano «fuori questione il carattere socialista del sistema, l'appartenenza al campo socialista e i rapporti di amicizia con l'Urss», menzionando tuttavia anche segnali di «una certa diffidenza della classe operaia» verso l'orientamento della nuova dirigenza cecoslovacca. Contemporaneamente Enrico Berlinguer, futuro segretario del Pci al posto di Longo, visitò l'Ungheria per accertare quanto serie fossero le minacce sovietiche al corso riformista del Pcc (Partito comunista cecoslovacco). Entrambi i leader italiani tornarono con la convinzione che non vi fossero motivi di apprensione. Secondo quanto disse Longo: «Non dovremmo preoccuparci... Il nostro sostegno al rinnovamento in Cecoslovacchia trova assai soddisfatti quei compagni». In realtà, com'è evidente dalla documentazione di parte sovietica, la reazione dell'Urss agli avvenimenti cecoslovacchi fu completamente opposta alle conclusioni dei dirigenti del Pci.
La crescente preoccupazione di Mosca verso ciò che stava accadendo in Cecoslovacchia era rafforzata dalla pressione dei leader dei Paesi socialisti. Già il 21 marzo 1968 Brezhnev informò il Politburo che Gomulka, Kadar e Zivkov avevano richiesto «che il Pcus prendesse provvedimenti per regolarizzare la situazione in Cecoslovacchia, ma senza indicare in concreto quali fossero queste misure». Al momento dell'ingresso delle truppe in Cecoslovacchia il 19-20 agosto, si trovavano in villeggiatura in Unione Sovietica più di 250 leader dei partiti comunisti dei Paesi capitalisti, verso i quali la dirigenza del Pcus mise immediatamente in atto un «lavoro di chiarificazione».
A Roma erano rimasti solo alcuni membri della Direzione del Pci, compreso Giorgio Napolitano. In contatto telefonico con Longo a Mosca, il 21 agosto essi emisero il primo comunicato del Pci in cui veniva espresso un «grave dissenso» rispetto all'intervento, definito «ingiustificato», e dichiararono la propria solidarietà con la politica di rinnovamento intrapresa dal Pcc, sottolineando però «profondo, fraterno e schietto rapporto» con il Pcus. Il 23 agosto tutti i membri della dirigenza del Pci tornarono a Roma. Nella riunione della Direzione alcuni membri espressero un giudizio critico senza precedenti verso le azioni del Pcus. Per esempio, Terracini dichiarò che la parte sovietica aveva compiuto un errore colossale e che egli si rifiutava di identificare il socialismo con il Pcus. Giancarlo Pajetta propose di rivedere il rapporto del Pci verso i finanziamenti sovietici, per avere la possibilità di svolgere una politica autonoma e perché «ci sono dei prezzi che non possiamo pagare».

I nuovi documenti
Longo tentò di smussare gli angoli, riaffermando la necessità di «differenziarci fortemente dalla canea imperialistica e reazionaria, tendendo a strappare alla reazione le forze socialiste e democratiche». Si appellò al ritorno alla vecchia formula di Togliatti dell'«unità nella diversità» come il principio dei rapporti interpartitici nel Mci. Il 2 settembre il Politburo indirizzò ai partiti comunisti dei Paesi capitalistici attraverso i canali del Kgb una lettera circolare, in cui si tentava di mostrare «la necessità e l'urgenza» dell'invio delle truppe alleate. Scritto nello spirito della falsificazione staliniana, il documento dichiarava, ad esempio: «È stato accertato che le forze controrivoluzionarie disponevano di una grande quantità di armi. Solamente nei primi giorni dai nascondigli e dagli scantinati sono state sequestrate alcune migliaia di fucili automatici, centinaia di mitragliatrici, decine di bazooka. Sono stati ritrovati anche mortai e altre armi pesanti». Nella lettera veniva nuovamente ripetuta la dottrina di Brezhnev sulla sovranità limitata dei Paesi socialisti.
La nuova documentazione dagli archivi moscoviti fornisce un quadro chiaro della natura delle informazioni che giungevano a Mosca dall'Italia. Così, alcuni giorni dopo l'intervento, un diplomatico sovietico inviò a Mosca il resoconto di un incontro con un collega polacco, che a sua volta riceveva informazioni direttamente da uno dei membri del CC del Pci.
La situazione nel Pci veniva descritta nel modo seguente. Nella maggioranza delle organizzazioni di base erano stati espressi «incomprensione e disaccordo» con la posizione della dirigenza del Pci sulla Cecoslovacchia: «Tra i semplici iscritti è molto diffusa l'opinione che l'Unione Sovietica e gli altri quattro Paesi socialisti hanno adottato misure drastiche nel caso cecoslovacco proprio perché avrebbero avuto serie ragioni per farlo». Dopo una settimana lo stesso diplomatico sovietico s'incontrò con l'ambasciatore polacco in Italia, il quale riferì a Mosca che nella dirigenza del Pci «le tendenze social-democratiche al suo vertice sono forti» e lo stesso partito «è infestato da elementi piccolo-borghesi e social-democratici».
Alla fine di dicembre il vicedirettore del Kgb presentò al CC del Pcus le conclusioni alle quali era giunta la propria organizzazione sulla base di un'analisi sintetica delle informazioni sulla situazione interna al Pci. Queste possono essere così riassunte: la posizione del Pci sugli avvenimenti in Cecoslovacchia è sottoposta a dura critica da parte di un notevole gruppo di membri del partito, in particolare, di comunisti con elevata anzianità e di cariche inferiori, soprattutto nelle organizzazioni operaie e contadine; l'intellighenzia di partito, gli attivisti delle federazioni e la gioventù studentesca sostanzialmente appoggiano la posizione della dirigenza del Pci sulla questione cecoslovacca; singoli dirigenti del Pci (segue riferimento ad Amendola, Terracini e Pajetta) nelle discussioni private sono favorevoli all'indebolimento dei legami con i partiti comunisti dei cinque Paesi socialisti che hanno mandato le truppe in Cecoslovacchia.

La leva dei finanziamenti
Non vi è dubbio che le informazioni sulla situazione all'interno del Pci rafforzarono la certezza della dirigenza sovietica che la resistenza del partito italiano non dovesse durare a lungo, e non solo perché tra i dirigenti esisteva una forte corrente filosovietica, ma anche perché la base appoggiava Mosca e non i propri leader.
Quali strumenti aveva in mano Mosca per agire sul Pci? Il primo e più immediato era la riduzione dei finanziamenti. Il Pci fu sempre al primo posto tra i partiti comunisti dei Paesi capitalistici per l'entità delle somme di denaro ricevute dal Pcus. Dopo che nel 1968 sorsero divergenze tra il Pcus e il Pci a proposito della questione ceca, i leader sovietici utilizzarono immediatamente la leva dei finanziamenti. Quando il rappresentante del Pci Armando Cossutta s'incontrò in ottobre con Boris Ponomarev, responsabile per il Politburo dei rapporti con i partiti comunisti occidentali, questi gli espresse subito «meraviglia, delusione e sdegno» per le posizioni di alcuni membri della dirigenza del Pci, accusandoli di vicinanza alla socialdemocrazia. Toccando il tema delle sovvenzioni al Pci, senza formalità Ponomarev affermò che le nostre «tasche non sono inesauribili» e che «in questo momento vengono in prima fila gli aiuti al Vietnam, a Cuba, ai Paesi arabi».
Nel 1969 i finanziamenti diretti, stanziati nella misura di 7 milioni di dollari, furono congelati e bloccati a 3,7 milioni. Le sovvenzioni rimasero allo stesso livello fino al 1972 quando, su richiesta di Longo, Mosca aumentò il finanziamento diretto alla cifra di 6,2 milioni di dollari. Mosca minacciò di chiudere un'altra, anche più importante, fonte di finanziamento al Pci: i rapporti commerciali delle ditte italiane con l'Unione Sovietica, stipulati grazie all'intermediazione del Pci, per i quali le stesse ditte pagavano al partito una percentuale fissa sul costo delle transazioni. Mosca aveva inoltre uno strumento di pressione sulla dirigenza del Pci ancora più potente: la minaccia di una scissione del partito, da cui sarebbe uscita la maggioranza filosovietica. Anche i dirigenti del Pci sapevano che la loro posizione di "riprovazione" della condotta sovietica godeva di un sostegno limitato.
Su tutti i membri della direzione produsse indubbiamente una profonda impressione la relazione di Napolitano sugli umori nel partito, presentata alla riunione del 23 agosto 1968: i dirigenti locali approvavano «all'unanimità o quasi» il comunicato che parlava di un «grave dissenso tra il Pci e il Pcus», mentre la base era favorevole a Mosca. Così, sin dall'inizio vi era nella leadership comunista una diffusa consapevolezza della necessità di sanare al più presto il conflitto con l'Urss.

La ricerca della terza via
Il culmine del dissenso del Pci era rappresentato dalla posizione di Berlinguer, che nel settembre 1968 previde addirittura «l'eventualità di una lotta politica con i compagni sovietici». Longo potè definire l'intervento in Cecoslovacchia «un tragico errore», ma fino alla fine continuò a insistere sul fatto che nel «grande scontro che è in atto tra socialismo e capitalismo... noi staremo sempre dalla parte del socialismo, dei Paesi e dei partiti che hanno realizzato il socialismo». Senza dubbio, i finanziamenti sovietici ebbero un ruolo importante nell'incapacità di troncare con l'Urss, perché la rottura con il Pcus, secondo le parole di Longo, avrebbe condotto «a gravi limitazioni politiche e materiali».
Ma più importante fu il fattore identitario dei comunisti, fondato sull'anticapitalismo e la demonizzazione della socialdemocrazia. Nei decenni seguiti alla Primavera di Praga nel Pci si formò e si consolidò una «cultura della crisi» sui generis, secondo cui la crisi è presente ovunque nel mondo capitalistico e nei rapporti internazionali, senza che ci si accorgesse che la sua origine e il suo epicentro si trovavano nel blocco sovietico e nel Mci. L'identità comunista condusse all'incapacità di rendersi conto della natura della crisi e spinse i comunisti italiani alla ricerca di una mitica "terza via" tra il sistema sovietico e la socialdemocrazia, a un eurocomunismo privo di vita, all'antiamericanismo virulento e all'elogio del Terzo mondo come sorgente della rivoluzione anticapitalistica.
Anche i più liberali tra i comunisti italiani, come Amendola, non si decisero a condannare le violazioni sovietiche di sovranità e dei diritti umani, poiché questo «avrebbe potuto aiutare le forze di destra» o mettere in discussione la politica di distensione. Una delle posizioni fondamentali più contraddittorie dei comunisti italiani fu il riconoscimento dei diritti dei popoli oppressi del Terzo Mondo alla difesa delle proprie prerogative fino alla lotta armata, nello stesso momento in cui tale diritto veniva rifiutato alle vittime dell'aggressione sovietica. Come giustamente concluse Cernyaev, uno dei responsabili del Pcus per i rapporti con i partiti comunisti occidentali, negli ultimi anni questi partiti «avvertirono l'inutilità del movimento comunista sia per la maggior parte dei Paesi in cui era ufficialmente presente, sia - fatto fondamentale - per la stessa Unione Sovietica». Non essendo in condizione di giungere a una rottura con il fallimentare sistema sovietico, il Pci condannò se stesso alla scomparsa.
* Victor Zaslavsky, scomparso da non molto, è stato docente alla Luiss e autore di «Il consenso organizzato» (1981), «Dopo l'Unione Sovietica» (1991), «Pulizia etnica. Il massacro di Katyn» (2006) e, con Elena Aga-Rossi, nel 2007 «Togliatti e Stalin» (tutti editi da Il Mulino)
«Il Sole 24 Ore» del 4 giugno 2008

Classici, maestri del desiderio

di Edoardo Castagna

INTERVISTA A IVANO DIONIGI
La lezione della storia, dalla classicità a oggi? «Che non tutti i desideri sono ugualmente legittimi. Per esserlo, devono avere un fondamento». Il latinista Ivano Dionigi, rettore dell’Università di Bologna che proprio sul tema del desiderio nella cultura classica interverrà il 23 agosto al Meeting di Rimini, indica anche un possibile percorso per recuperarlo, questo fondamento legittimo: «Oggi siamo sempre squilibrati: o tutti volti al passato in un acefalo conservazionismo, oppure tutti volti al futuro. Invece, quello che ci occorre è mantenere un doppio sguardo, capace di uscire dalle secche dei dualismi tra umanisti e scienziati, tra conservatori e innovatori, tra credenti e non».

In che cosa la concezione classica del desiderio differisce da quella contemporanea?
«In latino desiderium vuol dire de sideribus: smettere di contemplare le stelle e rimanerne con la voglia. Oggi diremmo rimpianto, nostalgia dell’esperienza fatta in passato – di una persona, di una cosa, di un’idea. Al contrario, per noi il "desiderio" richiama ciò che ci sta davanti, il futuro».

Un diversa concezione del tempo?
«Sì, ciclica anziché lineare. È l’ideologia del cerchio, il mito dell’eterno ritorno. Basti pensare a Virgilio, che sogna il ritorno dei Saturnia regna, dei regni di Saturno e dell’età dell’oro: con Augusto, novello Saturno. Roma, la Roma dei patres, la Roma del mos maiorum, è la culla stessa della conservazione e del passato, tanto che la parola stessa novum è sinonimo di pericolo. L’homo novus è un soggetto da tenere a bada – e che di norma finisce male, come Cicerone. L’iconoclasta Lucrezio che predica le novae res, la rivoluzione, viene demonizzato; il mito degli Argonauti alla ricerca del Vello d’oro è nefas, una cosa nefasta, empia, perché si violano i confini delle res notae. Giasone prima, Ulisse dopo cercano nuove terre, infrangono le vecchie leggi per cercarne di nuove: e questo è sacrilego».

Il futuro è esclusivamente negativo?
«Più che altro il concetto di futuro non esiste proprio. La filosofia ellenistica di Roma, stoica ed epicurea, mira a curare l’animo. È la signoria del presente, e quindi l’assenza del futuro. Nello stoicismo di Seneca l’istante contiene la totalità; tutto viene interiorizzato, e l’imperativo categorico è "Vivi il presente". Il futuro, al contrario, è destabilizzante perché non è in nostro possesso. Il desiderium, insieme agli altri sentimenti – la gioia, il dolore, la paura – fa parte dei pathos, le passioni, i sentimenti: valori negativi. Il sapiens, il saggio, non muta, vive nella costanza; invece la gioia, il dolore, la paura e il desiderio creano dei motus animi che tolgono la tranquillità. Il motto degli stoici è "Nec spe nec metu", non bisogna agire né in base alla speranza né al timore, perché sono i sentimenti collegati al futuro. La classicità non conosce la speranza, un’innovazione introdotta dal cristianesimo».

In continuità o in rottura con la tradizione classica?
«Io sono tra quelli che pensano che il cristianesimo non si innesta nella classicità, anche se perfino i Padri erano divisi su questo punto. Ma credo che parlare di continuità significhi far torto sia alla classicità sia al cristianesimo. Invece ci sono almeno tre linee di divergenza. La classicità si fonda sui cardini della ciclicità del tempo, del predominio del presente e dell’autonomia del saggio – secondo il principio del finito e della misura, in una visione totalmente antropocentrica. Invece il cristianesimo vive nel tempo lineare, con la cesura rappresentata dalla venuta di Cristo; vive nel futuro, il tempo della speranza; e vive nella grande Alterità. L’antichità non conosce né speranza né salvezza, come ben ci mostra la tragedia greca; di fronte alle pulsioni l’unica risposta era la rinuncia, la disciplina, la ragione (Epicuro). I classici non sono solo fondativi del presente, ma anche antagonisti».

Un antagonismo che però ci insegna comunque qualcosa...
«Oggi, guardando la storia, vediamo i disastri generati dai desideri senza fondamento perseguiti da vari -ismi, dall’illuminismo al marxismo. Ora che hanno mostrato il fianco, possiamo recuperare la lezione classica del modo, del finito, della misura, della costanza. Ancora con Seneca: «Sapiens non mutat sententiam».
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INTERVISTA A MORENO MORANI
L'uomo antico è l’uomo della ricerca continua, incessante, del senso. Senza trovarlo. Moreno Morani, ordinario di Glottologia all’Università di Genova, al Meeting si confronterà con Ivano Dionigi sul desiderio nella cultura classica «partendo da quest’idea del desiderio come nostalgia – precisa, come ciò che non si ha ancora o che non si può più avere: la risposta, chiara e definitiva, alla domanda sul significato della vita».

Un domanda destinata a rimanere senza risposta?
«Quello che qualifica la cultura classica, il suo aspetto più importante e per noi più interessante, è questa ricerca continua – che percorre come un filo tutta l’esperienza dell’antichità – del senso della propria vita. E, nello stesso tempo, la percezione che è impossibile arrivare a una risposta definitiva con i mezzi che la ragione pone a disposizione dell’uomo. I Greci hanno inventato il logos, una delle parole più importanti e nobili di tutta la tradizione occidentale perché contiene l’idea della comunicazione tra gli uomini, l’idea della ragione, l’idea della possibilità di creare ragionamenti articolati; valorizzano quindi la ragione per tutto quello che può dare, eppure arrivano anche alla conclusione che la ragione non è in grado di rispondere a tutto, è uno strumento limitato».

Molte risposte parziali, nessuna complessiva?
«Sì, molte risposte che però non arrivano mai fino alla fine. A farlo sarà il cristianesimo, che si pone sia in continuità, sia come scarto rispetto alla classicità».

In che senso?
«È evidente un fortissimo scarto nel tipo di risposta che il cristianesimo dà ai problemi dell’uomo, completamente diversa da quello che la cultura classica poteva attendersi. Da questo punto di vista è paradigmatico l’episodio dell’incontro di Paolo con i Greci sull’Areopago (Atti 17): quando espone l’annuncio cristiano, in risposta non ottiene che derisione e disprezzo. Un greco non può accettare l’idea che Dio possa incarnarsi e farsi uomo, diventare carne con tutti i limiti propri dell’umanità; magari lo può sognare e desiderare, ma non concepirlo».

E la continuità?
«C’è anche quella, in un altro senso. Il cristianesimo ha usato spesso strumenti inventati dai pagani, dalla filosofia alle scienze. Ha cioè saputo recuperare dal paganesimo tutto quello che il paganesimo aveva inventato di buono, ma è anche andato al di là: l’uomo cristiano ha un’idea di cronos più ampia e ricca, proprio in grazia della Rivelazione, e quindi sul tempo dice cose che la cultura pagana non può neppure immaginare».

Quali?
«L’idea della creazione, che comporta anche la creazione del tempo. Per l’uomo pagano i primordi del tempo sono occupati da mostri e caos, ma non c’è creazione del tempo. Di conseguenza, per lui il tempo non è che una successione di momenti, mentre il cristiano è proiettato verso la fine dei tempi».

Altre differenze?
«L’uomo antico ha una percezione del limite molto più forte di quella del moderno, che invece coltiva false certezze. La scienza ha fatto passi enormi, specialmente negli ultimi decenni, ma così l’uomo ha perso di vista quel limite che, invece, rimane pur sempre. Mentre per l’uomo greco, ma anche latino, l’idea del limite è continuamente presente; sa che la vita è breve, che l’uomo è limitato, che al problema del dolore e della morte non si può sfuggire. L’uomo moderno cerca di dimenticarlo in grazia appunto di una sua capacità tecnica superiore: ma alla fin fine i problemi dei Greci sono tuttora i nostri, quelli comuni all’umanità da sempre».
«Avvenire» del 19 agosto 2010