17 luglio 2007

L’incandescente comicità del dialetto pirandelliano

Ghiotti contrasti e iperboli grossolane: nel quarto volume di «Maschere nude» il drammaturgo di Agrigento cala il ricorso icastico alla propria lingua natia
di Enrico Groppali
La tentazione di evadere e insieme quella di rientrare nel proprio originalissimo lessico espressivo, piegando la nobiltà della lingua al colore estemporaneo del dialetto fino a magnificarla nella viva parlata dei personaggi, è una cartina di tornasole che ha toccato molti dei grandi autori dell’olimpo letterario. A eccezione di coloro che, ostentando un severo disprezzo per la lingua del popolo, hanno voluto dimostrare in un delirio d’onnipotenza di essere in grado di trasporre le loro ossessioni nell’aulica eleganza del francese, come accadde a Oscar Wilde con Salomé e a d’Annunzio nel Martyre de Saint Sebastien. Pirandello, invece, sensibile come non mai all’imperativo categorico della sua terra, ha ripudiato per tutta la vita la sfida adombrata in simili esercizi di stile, ripiegando doloroso e inquieto sui temi ossessivi prediletti - dall’adulterio alla pazzia - ai quali l’efficacia immediata della parlata schietta conferiva una sorta di arcana nobiltà. Come si evince dal quarto volume di Maschere Nude (Opere teatrali in dialetto, Mondadori, I Meridiani, pagg. 1919, euro 55, edito insieme alle ultime opere in lingua). Si pensi a Ccu’i nguanti gialli, sapiente traduzione in siciliano di Tutto per bene in cui, a differenza del testo in lingua, la condizione sfasata del duetto piccolo borghese agìto dalla volgare Donna Sabedda vedova Clarino e da Cocò, il figlio imbelle che si porta al guinzaglio come il più squallido dei tirapiedi, si manifesta fin dalle prime battute. In uno svariare di interiezioni beffarde e di pittoresche proteste solo in parte avvertibili nel copione in lingua. Dove l’ingresso nel salone delle feste, il giorno del matrimonio di Palma, conferisce alle insolite pretese dei personaggi, dato il modesto fraseggio italiano di questi parvenu delle classi alte, un che di sforzato e nevrotico. In un andamento di sapore burattinesco fortunatamente assente nell’elaborazione dialettale. Superbamente caratterizzata da iperboli grossolane e ghiotti contrasti di incandescente comicità.
Nel caso di Pirandello, poetico inventore di un dialetto che scopre, ridefinisce e nobilita nell’attimo in cui viene calato sulla gran pagina del teatro, il ricorso icastico e ferocemente beffardo alla propria lingua natia si scontra col revival della maschera popolare. I personaggi delle opere dialettali, infatti, non sembrano più le maschere nude cui ci ha abituato l’autore di Questa sera si recita a soggetto. Ma, se possibile, maschere colme dell’antica arguzia plautina che, invece di fissarsi nella tipologia della farsa, tornano ad assumere, appena svolto il compito di manifestarsi sulla scena del mondo, l’arcaica dignità delle maschere sacrali del mondo classico. Quelle che Pirandello in una famosa lettera a Ruggero Ruggeri, in occasione di una ripresa dei Sei personaggi, raccomandava di imprimere ai volti degli attori fino a dar loro «la poderosa consistenza e fissità d’espressione», che ritroviamo nei drammi di Sofocle. E ancora: il gran tema della complessità psicologica dell’uomo additato in quelle tre zone in cui, come tre corde d’orologio, è spartito il cervello, dette la zona seria, la zona civile e la zona pazza, di pertinenza del protagonista del Berretto a sonagli, viene affrontato da Pirandello nella versione in dialetto dell’opera cui si adeguerà in seguito, come in un calco, la versione in prosa. Specchio di un’inquietudine ossessiva che si placava solo nel ritorno alle origini del mito e della vita: Girgenti.
«Il Giornale» dell’8 luglio 2007

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