17 luglio 2007

Educazione, i laici che fanno?

Parla Julia Kristeva:«Per agire nel XXI secolo economia e scienza non bastano: la scuola deve aprirsi ad arti e religioni contro i riduzionismi»
di Daniele Zappalà
«Il pensiero cristiano è una chance enorme contro l'uniformismo imperante. Negli ultimi anni c'è stata un'evoluzione di fondo del tessuto democratico nell'accesso alla parola, la quale diventa sempre più un luogo plurale»
«Trovo che oggi la pulsione di morte sia più forte di quella d'amare, ma faccio lo stesso la scommessa di puntare sulle forze che legano e non su quelle che slegano». Gli accenti pascaliani sulla bocca di Julia Kristeva non sorprenderanno i lettori che in tutto il mondo hanno già attraversato le opere dell'eclettica intellettuale francese nata in Bulgaria: linguista, semiologa, psicanalista, scrittrice, militante di un femminismo aperto e tollerante. Umanista e non credente, la Kristeva è però convinta che «l'umanesimo è un figlio del cristianesimo». L'interesse di sempre per il pensiero cristiano è particolarmente presente nel recente Il bisogno di credere (Donzelli), opera nata da una conferenza tenuta all'arcivescovado di Parigi e impostata come un dialogo fra sguardo laico e cristiano.
Professoressa, il suo testo parte dal problema della sofferenza ma parla anche di amore. Perché?
«In una prospettiva analitica, ho cercato di spiegare in che modo lo psicanalista osserva da un punto di vista antropologico le diverse varianti dei legami amorosi che possono permettere la creatività. Anche chi non crede in Dio, crede nell'amore e ciò mi pare oggi il più grande elemento di persistenza della nostra civiltà cristiana. Ma molto spesso, quest'atto di fede nell'amore è dell'ordine della soddisfazione, del piacere o di una sorta di riparazione e non di quest'infinita sublimazione che mi pare così centrale nell'amore cristiano. Un amore che è anche compassionevole e che può dunque accompagnare la persona nella sofferenza in modo complementare rispetto alla solidarietà laica».
Cosa intende per sublimazione?
«La visione cristiana del divino come amore mi pare il fermento, il motore di una sublimazione. È perché sono amato che vengo creduto e che quest'atto di fede può divenire un impulso per lo sviluppo delle mie pulsioni verso i linguaggi e la facoltà di comunicare. Quest'amore è un'onda portante della creatività».
Per il pensiero cristiano, l'amore può irrorare integr almente e trasformare l'identità dell'individuo. Qual è il suo sguardo in proposito?
«Leggendo attentamente i testi cristiani, sono rimasta colpita dalla grande diversità dell'esperienza amorosa che vi si può trovare. L'amore in san Bernardo mi pare diverso rispetto a quello in san Tommaso o in Duns Scoto. Questa diversità potrà a mio parere permettere al cristianesimo di rispondere alle forme nuove d'amore, diverse secondo le epoche e le civiltà. Ho a volte l'impressione che i cristiani non siano sufficientemente fieri di questa polifonia. Al contrario, credo che ogni visione unica e troppo globale dell'amore rischia di ridurlo a un'apparenza consolatrice».
Cosa intende per "bisogno di credere"?
«Credo che esista un bisogno pre-religioso di credere e nell'esperienza psicanalitica può essere ricercato attorno alla cosiddetta identificazione primaria del figlio col padre. Non si tratta del padre edipico, quello dei divieti. Ma del padre dell'amore, dato che l'autorità paterna è un connubio fra il padre della legge e questo padre che ama. L'acquisizione del linguaggio richiede già questa fiducia di sé che ci viene data dal padre che ama. Leggendo la Seconda lettera ai Corinzi, sono rimasta colpita da san Paolo che dice "ho creduto e ho parlato": frase che può essere certo interpretata in mille modi diversi, ma che nell'ottica dell'analista ricorda il fatto che è impossibile parlare se prima non si crede».
La sua riflessione ruota da sempre attorno alla parola. La stessa che vari intellettuali giudicano oggi in crisi soprattutto rispetto all'immagine. Che ne pensa?
«Credo che la parola sia sempre in crisi, che la crisi sia davvero costitutiva della parola. Questa crisi prende oggi volti che possono apparire sconcertanti, soprattutto quando sono fatti di distruttività e di forze di morte. Si può però pensare anche il contrario. È proprio perché ci si avvicina sempre a questi stati critici così infernali, che cerchiamo di condividere le parole. È una forma non di r esistenza alla morte, ma di sublimazione e di superamento di questa pulsione di morte. Quando si dice che al posto di Proust oggi abbiamo solo le trasmissioni televisive, occorre ricordare anche che si è passati nel frattempo dal dieci all'ottanta per cento di giovani con un diploma secondario. C'è dunque un'evoluzione di fondo del tessuto democratico nell'accesso alla parola, la quale diventa sempre più un luogo plurale».
Può farci un altro esempio?
«Penso ancora al pensiero cristiano, secondo il quale non si può fare una graduatoria dei successi e dei fallimenti individuali. Ho lavorato di recente a Parigi con persone handicappate, autistici che cantano. Anche se ciò non ha certo nulla a che vedere con Mozart, resto sempre abbagliata di fronte alla parola di questi giovani che attraverso il canto riescono ad accedere a una comunicazione verbale».
Immagini, parole, simboli di ogni tipo affollano le nostre giornate. Orientarsi nel mondo dei segni è davvero più difficile che in passato?
«Esistono almeno due tendenze. Una che aggiunge nuovi segni, spesso artificiali. Ma al contempo esiste anche una tendenza all'uniformizzazione e un autentico rischio di riduzionismo. Il vero problema è in realtà quale educazione occorre dare all'individuo del XXI secolo. In proposito, accanto ai linguaggi del calcolo, dell'economia e della scienza, credo che la scuola dovrebbe oggi aprirsi sempre più anche ai linguaggi delle arti e delle religioni».
«Avvenire» del 10 luglio 2007

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