31 maggio 2013

Serianni: viva il punto e virgola

Intervista
di Roberto I. Zanini
La scuola, oggi più che mai «è la principale palestra dello scrivere in modo chiaro e argomentato. Una palestra delicatissima, in cui bisogna esercitarsi con sistematicità dalle elementari alle superiori». Ne è convinto Luca Serianni, docente di Storia della lingua italiana alla Sapienza e uno dei linguisti italiani più conosciuti anche a livello internazionale. «E se la scuola ha bisogno di modelli sui quali esercitarsi alla scrittura bella ed efficace, questi sono forniti dai testi giornalistici, in particolare gli editoriali». Sulla base di questa convinzione Serianni ha recentemente pubblicato per Laterza un interessante volume Leggere, scrivere, argomentare (pag. 192, euro 15) con l’obiettivo di fornire idee e suggerimenti innovativi per imparare il metodo e la logica della scrittura, «non solo per scrivere bene, ma anche per interpretare e comprendere un testo complesso».
Quali sono i più comuni problemi linguistici per i ragazzi, oggi?«A grandi linee si può dire che la comprensione di un testo scritto complesso è più ridotta nei giovani di oggi. La confidenza con internet favorisce una forte rapidità di lettura, ma quando ci si trova di fronte a un testo complesso e argomentato la conseguenza può essere il non capirlo».
Su cosa deve puntare di più la scuola di oggi per rendere i giovani capaci di scrivere e comprendere questo tipo di testi?
«Ci sono elementi particolarmente trascurati nell’insegnamento e quindi nel modo di scrivere comune. Il primo è certamente il lessico, che va arricchito anche attraverso gli esercizi che ho appena proposto. Poi la punteggiatura che è tradizionalmente debole nei giovani. Eppure è questione strategica nello scrivere, perché una buona punteggiatura gerarchizza le informazioni, le rafforza nel contesto e consente di formulare ragionamenti saldamenti scritti. In quest’ottica bisogna saper utilizzare anche i cosiddetti segni di pausa intermedi, cioè il punto e virgola e i due punti».
In che contesti si trovano le scritture peggiori?
«Il peggio si trova in quelle che chiamo le scritture acerbe, cioè di giovani e di adulti che non hanno maturato esperienza sufficiente, che non si esercitano sistematicamente. Per fare un esempio si può pensare ai verbali delle sedute di condominio o di certi incontri più o meno pubblici, a certe circolari burocratiche».
E il linguaggio giuridico?
«Diciamo che i caposaldi del diritto sono solitamente ottimi testi, ma più ci si allontana dai testi fondamentali e più ci si avvicina alle norme e ai regolamenti, più la scrittura peggiora, perde di chiarezza, rischia l’incomprensibilità».
E la lingua della tv?
«La lingua parlata ha altre leggi. Tutti noi nel registro colloquiale parliamo male e ci sono sufficienti non più di 2000 parole. Certo se in tv ci fosse maggiore attenzione... Ma non sopravvalutiamola da questo punto di vista: i giovani la guardano sempre meno».
Ma sono sempre su internet.
«Internet ha un suo modello proprio di lingua. Ma bisogna sempre pensare che i giovani hanno gli strumenti per non esserne condizionati. Ma, ripeto, anche in quest’ottica la scuola è la vera palestra di scrittura. Una palestra che ha nei giornali degli ottimi alleati. Anzi, direi che gli articoli di giornale sono i migliori strumenti di insegnamento».
Perché testi giornalistici e non letterari?
«Il motivo essenziale è che quello giornalistico può essere considerato oggi un buon modello di scrittura, per la capacità di centrare le problematiche che si vogliono esporre e fornire le chiavi di lettura per interpretarle».
E i testi letterari?
«Ho deciso di non utilizzarli perché ritengo che non debbano essere oggetto di esercizi di linguistica. Per sua natura il testo letterario è plurivoco, cioè ha più livelli di lettura interpretativa e un utilizzo di questo genere un po’ li svilisce. Penso che la letteratura debba essere lasciata al piacere della lettura in senso stretto».
Ma qual è lo scopo del suo libro?
«È di fornire un modello operativo e di esercitazione agli insegnanti, in particolare quelli delle superiori, per far comprendere come funziona un testo argomentativo, come si sviluppa nel ragionamento secondo gli obiettivi che si propone chi lo scrive».
Un vero e proprio manuale.
«Un po’ atipico, ma è un manuale, che partendo da testi largamente commentati ne propone lo smontaggio e il rimontaggio. Anche attraverso esercizi che risultano efficaci anche nel suscitare la curiosità degli studenti. Veri e propri esercizi tassonomici, cioè di collocazione e di comprensione della parola nel contesto, che ricordano un po’ anche l’enigmistica».
Può fare qualche esempio?
«Un tipo di esercizio è quello noto con la parola inglese cloze. Consiste nel cancellare una parola da un testo e chiedere a chi svolge l’esercizio di riempire lo spazio vuoto, liberamente o all’interno di una griglia. Un altro è quello di sostituire una parola di un testo e chiedere di individuarla. Un altro ancora è partire da una definizione e chiedere di individuare la parola pertinente».
Li ha sperimentati come efficaci?
«Ho illustrato questo metodo e i numerosi esercizi relativi in vari incontri con docenti e ho trovato grande interesse, soprattutto da parte degli insegnanti delle superiori. Allo stesso tempo si tratta di esercizi che nascono dalla mia esperienza universitaria».
Cosa si pensa di ottenere dagli studenti con simili esercizi?
«C’è senza dubbio, come ho detto, lo scopo linguistico della comprensione e della scrittura di testi complessi. Ma utilizzando testi giornalistici di stretta attualità si realizza anche lo scopo non secondario di aprire la scuola a temi di vario interesse e indispensabili a instillare la curiosità sul nostro stare al mondo nella società contemporanea».​
«Avvenire» del 23 maggio 2013

De Luca: elogio del camminare

di Erri De Luca
Ho avuto fino ai sedici anni il dono di estati sconfinate. Sbarcavo sull’isola il primo di luglio, ripartivo il 30 di settembre. Venivo dalla città spalancata sul golfo, ma costretta in una pressa di palazzoni e vicoli. Napoli conteneva la più fitta densità umana d’Europa, ci vivevamo da accatastati. Lo spazio era assegnato a turni, gremito anche di notte. Ci stavo e ci crescevo rattrappito per nove mesi all’anno.
L’arrivo di luglio mi estraeva dalle viscere della città e mi depositava sopra la magnifica superficie del sud, con tutto il largo intorno che potevo desiderare. Già la breve traversata faceva da spogliatoio dove deporre l’uniforme di cittadino. Un ordine opposto alla disciplina dei nove mesi, un "Rompete le righe", faceva saltare regole, orari e l’imballaggio di un corpo infilato in poco spazio. Sull’isola iniziava la libertà , che è prima di tutto un’esperienza fisica.
Lo sbarco coincideva con l’addio alle scarpe. I piedi uscivano dai lacci come due prigionieri che ottenevano di colpo il rilascio. All’inizio incerti, abbagliati, esitavano. Risentivano le asprezze del suolo, il rovente delle pietre, poi ispessivano la suola e potevano pure correre sugli scogli. Sull’isola iniziava il loro viaggio.
Nel mio vocabolario personale affido alla parola viaggio uno statuto speciale. Per me è quello che si fa a piedi. È viaggio la scalata, il pellegrinaggio, l’incolonnamento di migratori sulle piste di Africa e di Oriente, lo scavalcamento di frontiere dei contrabbandieri. Viaggio è quello che procede alla velocità del piede umano. Il resto non incluso in questo campo, si riduce per me a spostamento con mezzi di trasporto.
Da quando vado in giro e in gita a fare incontri pubblici, schizzando da una destinazione all’altra all’interno di treni e aerei, chiamo spostamenti queste traiettorie da palla di biliardo.
Sull’isola dell’infanzia e dell’adolescenza cominciava e finiva il viaggio, che è un diritto all’inselvatichimento dentro ogni educazione. Coincideva con il cambio di pelle, con il callo sotto i piedi scalzi. La libertà era un ispessimento della superficie.
La mancanza cronica di acqua dolce, che era solo piovana di cisterne, faceva bastare il mare per igiene. Il sale si incrostava addosso impregnando la pelle di salmastro. I capelli chiari diventavano gialli e interdetti al pettine. Solo una spazzola ruvida si apriva un varco nell’intrico a cespuglio. Il corpo, analfabeta cittadino, riprendeva confidenza con il nuoto, i tuffi, le salite sopra scogli a picco. I piedi riacquistavano il gioco di prestigio dell’equilibrio sulla barca da pesca, reggendo il tronco tra rollii e beccheggi. Se un’onda più forte costringeva all’appoggio delle mani, era una sconfitta da squalifica. Piccole ferite si disinfettavano a mare.
Dal bordo dell’isola gli occhi potevano viaggiare seguendo le navi di passaggio, le lampare notturne della pesca ai tòtani. Libertà erano i mari intorno e la messa a fuoco dell’orizzonte sgombero.
I pubblici poteri hanno visto le isole come reclusioni naturali, piantandoci dei penitenziari. Ho avuto invece la notizia opposta: le isole sono state per me il concentrato della libertà. Perciò sul loro suolo, più che in terraferma, è osceno l’edificio delle detenzioni. Le sbarre e il mare: è la più insolente contraddizione, più della fame innanzi a una tavola imbandita.
Da mare guardavo la cupa fortezza di Procida. Dietro le griglie spuntava a volte uno straccio per saluto a noi, liberi sulla barca. Rispondevo con la mia maglietta e con l’agitazione delle braccia al vento. Lassù dentro il perimetro sbarrato anche a togliersi le scarpe si restava nella camicia di forza degli anni di pena assegnati. Lì dentro la parola viaggio era proibita.
Infine il rientro in città a fine stagione rimetteva il corpo in esilio. I piedi scalzi e allargati rientravano con sforzo e resistenza nella scarpe, equivalente di manette ai polsi. Infilandole mi staccavo dall’isola e dal suolo della libertà.
«Avvenire» del 24 maggio 2013

14 maggio 2013

Aleksandr Solzenicyn: La dura scuola del comunismo

Inediti
di Aleksandr Solzenicyn
Era uscito allora un romanzo intitolato Avanti, tempo!, e perfino il Piano Quinquennale si dispiegava, tra rulli di tamburo, in Quattro Anni. E all’Istituto pedagogico inculcavano ai futuri insegnanti che la letteratura sovietica – e quindi anche loro – non dovevano rimanere indietro rispetto alle esigenze del Periodo della Ricostruzione.
Neanche a farlo apposta, nel mese in cui Nastja stava per dare le sue prime lezioni in classe, l’Associazione russa degli Scrittori proletari aveva adottato e resa pubblica una risoluzione: riguardava il modo di rappresentare i personaggi in letteratura e lanciava un appello ai «lavoratori d’assalto» dei cantieri a farsi essi stessi scrittori, affinché l’arte riflettesse in tempo reale le esigenze della classe operaia. E prese corpo anche una nuova concezione: la letteratura veramente rappresentativa dei tempi nuovi è quella che passa per il giornale murale o il manifesto di propaganda e assolutamente non quella dei romanzi.
Beh, un po’ troppo precipitoso, no?, c’era da restare senza fiato; come sarebbe «non quella dei romanzi»? e i romanzi che fine facevano? [...]
Ad Anastasija Dmitrievna vennero assegnati cinque gruppi di quinta, di dodicenni, con l’incarico di insegnante principale nella quinta A.
La sua prima lezione! Ma era la prima anche per gli scolari, che si erano appena lasciati alle spalle le classi iniziali per entrare al secondo livello: erano ormai «grandi» e ne potevano andar fieri! Quel primo settembre fu una radiosa giornata di sole.
Uno dei genitori aveva portato in classe dei fiori. Anche Anastasija Dmitrievna si era messa un vestito chiaro di seta grezza, le ragazze avevano degli abitini bianchi e anche molti dei ragazzi la camicia bianca delle feste. E questi musetti, questi occhi raggianti le davano la carica: finalmente, finalmente il suo sogno si era realizzato e poteva procedere per la stessa via di Marija Feofanovna… (E, di più, poteva adoperarsi affinché in questi tempi di imperante volgarità, quei ragazzi, crescendo, diventassero degli uomini di nobili sentimenti, non come quelli d’oggi). Si riprometteva, con molte, molte lezioni, di trasfondere nelle loro teste tutto ciò che lei stessa aveva preservato della grande e munifica letteratura russa!
E invece no!, nessuna possibilità, almeno adesso, di avviarsi in quella direzione: il programma di studio era rigidamente definito; in quattro parole: «Le gru rombanti / Davanti agli scavi…» e ad ogni momento ti poteva capitare un ispettore mandato dalle autorità scolastiche della provincia a controllare lo svolgimento delle lezioni. Bisognava cominciare dalla Turksib – allora in via di completamento, e far imparare a memoria come i treni s’erano messi a percorrere il deserto «… avanti e indietro, a spaventare / Uomini e armenti, / E a non farli andare / Per le lor vie carovaniere».
Poi, da programma, si doveva continuare con Magnitogorsk, quindi il cantiere della grande diga sul Dnepr’ e, appunto, il poema di Bezymenskij, dove si metteva in ridicolo un professore candidato al suicidio, in quanto esponente delle classi «uscenti» e superate. E ancora il poema sul ragazzetto indiano che ha sentito parlare di Lenin, la guida luminosa di tutti gli oppressi del mondo, e che va a piedi dall’India a Mosca per vederlo. [...]
Il programma del secondo anno contemplava il «nocciolo duro» della letteratura sovietica: La disfatta, Pietre da levigare (sulla collettivizzazione), Cemento (spaventoso, perché vi si proponevano a bambini di tredici anni impressionanti scene di possesso sessuale).
Tuttavia, ad esempio, nel Torrente di ferro venivano restituite con notevole laconicità ed efficacia le azioni delle masse nel loro insieme; e c’era forse mai stato qualcosa di simile nella letteratura russa? E ne La settimana il personaggio di Robejko suscitava simpatia quando, sforzando la voce minata dalla tubercolosi, esortava i contadini ad abbattere un boschetto appartenente al monastero, per potere col legname così ottenuto alimentare la locomotiva che avrebbe trasportato le sementi sui campi. (Solo un dubbio: l’anno precedente avevano dunque loro confiscato per l’ammasso tutte le riserve di sementi?).
E ogni giorno quelle quaranta paia di occhi infantili che fissavano Anastasija Dmitrievna, come avrebbe potuto non sostenere la loro fede? Sì, ragazzi, perdite e sacrifici sono inevitabili. Del resto tutta la nostra letteratura ha sempre esortato allo spirito di sacrificio. Qua e là, certo, si verificano atti di sabotaggio, ma l’inaudito slancio industriale in atto porterà a una felicità altrettanto inaudita. Quando crescerete ne potrete godere anche voi.
Ogni episodio, anche il più negativo, dovete considerarlo allo stesso modo del poeta che ne ha tanto giustamente colto la prospettiva. «Non è da meno al tempo che viviamo / E ci è compagno sulla via stessa, / Colui che in ogni dettaglio sa vedere / Della Rivoluzione Mondiale la promessa».
Quindi avevano soppresso anche i nuovi manuali adottati, riconoscendoli erronei e superati dalla realtà. Cominciarono a stamparne del tipo «a fogli volanti», vale a dire testi non rilegati su temi di stretta attualità e validi soltanto nel semestre in corso, che diventavano inutilizzabili già l’anno successivo. Gor’kij pubblicò su un giornale l’articolo «Agli umanisti», dove smascherava i suddetti e li esecrava, articolo che fu immediatamente inserito nel manuale a fogli volanti successivo: «È perfettamente naturale che il potere operaio e contadino schiacci i propri nemici come pidocchi!».
Spavento, sconcerto, senso di soffocamento: come proporre una cosa del genere ai bambini? E a che pro?
Ma Gor’kij era un grande scrittore, un classico russo anche lui conosciuto a livello mondiale, e come puoi pensare col tuo piccolo intelletto di poterti mettere a discutere con una simile autorità? E poi lui stesso scrive qualche riga più in là degli ignavi e dei benestanti: «Che cosa vuole dunque questa classe di degenerati?… unicamente una vita sazia, senza senso, sfrenata e irresponsabile». E ti viene in mente: «Alla larga dalla gente che si compiace delle proprie vacue chiacchiere e non fa nulla…». E non esortava forse Cechov a vigilare ogni giorno, armati di un piccolo martello, sulla nostra coscienza assopita? [...]
Poi arrivò un trimestre in cui non furono distribuiti fogli volanti per il manuale e neppure programmi obbligatori. L’inattesa vacanza di direttive sprofondò nello sconcerto le autorità scolastiche cittadine: significava un cambiamento di linea? E in attesa di chiarimenti ognuno venne autorizzato a insegnare quel che voleva, beninteso sotto la propria responsabilità.
La loro direttrice didattica nonché preposta all’educazione civica si mise a spiegare alle quinte, seste e settime dei passi scelti dal Capitale. Ma allora anche Anastasija Dmitrievna poteva scegliere a suo piacimento qualcosa tra i classici russi? Ma come scegliere la cosa giusta, per non sbagliare? Dostoevskij, no, non si poteva e poi per loro era ancora presto. Neanche Leskov, però, impossibile. Lo stesso per Aleksej Tolstoj – le tragedie La morte del Terribile e Lo zar Fëdor.
E anche di Puškin non tutto, naturalmente. Così come di Lermontov. (E quando i bambini le avevano chiesto di Esenin, aveva cambiato discorso e non aveva risposto, era severamente proibito).
D’altra parte, lei stessa non era più abituata a tanta libertà. Non riusciva più a esprimere i sentimenti di un tempo. L’incrollabile unitarietà e levigata coerenza della letteratura russa ora le appariva come screpolata da tutto ciò che lei stessa aveva letto, conosciuto e imparato a vedere in quegli ultimi anni. Ormai aveva paura a parlare di un autore o di un libro senza darne la caratterizzazione dal punto di vista classista. Compulsava dunque il Kogan e ci trovava «per quali aspetti quest’opera poteva considerarsi cooperante».
Ma al tempo stesso apparivano nuovi numeri delle riviste letterarie sovietiche e i giornali tributavano lodi a questa o quella nuova opera. E lei si sentiva stringere il cuore: non aveva davvero il diritto di far restare indietro degli adolescenti, era in quel mondo che essi avrebbero dovuto vivere e quindi bisognava aiutarli a entrarci.
«Avvenire» del 13 maggio 2013

Scuola, ci vuole anima

Le nuove tecnologie servono a poco senza un sostema educativo
di Roberto Carnero
Sono stati diffusi in questi giorni i primi dati relativi a una maxi-sperimentazione sull’uso delle tecnologie digitali a scuola. Il progetto si chiama Generazione Web Lombardia ed è partito l’estate scorsa su iniziativa della Regione che, insieme con il Ministero dell’Istruzione, ha stanziato complessivamente 12 milioni di euro, per dotare oltre 300 scuole superiori lombarde (licei, istituti tecnici, istituti professionali) di computer e tablet.
Prima di entrare nel dettaglio di quanto è emerso da questo primo anno scolastico di 'classi digitali', premettiamo, a scanso di equivoci, che siamo convinti che tale aggiornamento tecnologico sia positivo e necessario. I dati Ocse parlano chiaro: se a livello europeo la media degli studenti che utilizzano le tecnologie per studiare è del 48%, in Italia siamo appena al 30%. Da noi soltanto nel 16% delle classi c’è una lim (lavagna interattiva multimediale); nel Regno Unito sono all’80%. Tuttavia l’esperienza di questi mesi in Lombardia evidenzia alcune problematiche. Innanzitutto le licenze dei testi digitali hanno una scadenza: dopo un anno scolastico non sono più accessibili.
Dunque diventa impossibile andare a consultare, all’occorrenza, il volume dell’anno precedente o utilizzare il libro, poniamo, del fratello o della sorella maggiore. E qui siamo al capitolo risparmio per le famiglie, argomento tra i più gettonati dai fautori dei manuali elettronici al posto di quelli cartacei. È vero che un e­book costa meno di un tomo tradizionale (ma certamente non è gratuito: gli autori e le case editrici devono essere remunerati per il loro lavoro), però le scuole che hanno aderito alla sperimentazione si sono rese conto che mantenere in funzionamento centinaia di computer è piuttosto oneroso.
Da qui l’idea, dal prossimo settembre, di chiedere un contributo economico ai genitori. Altre criticità riguardano le connessioni web non sempre efficienti, quando nello stesso momento decine di classi di uno stesso istituto cercano di connettersi tramite i tablet. Anche in questo caso, per avere connessioni più potenti, si tratterebbe di spendere più soldi. Tutti questi che abbiamo citato sono aspetti che potrebbero essere migliorati e problemi che potrebbero essere risolti. Gli insegnanti che hanno partecipato alla sperimentazione sottolineano, però, anche una questione di ordine più generale, che ha a che fare con l’apprendimento in sé tramite strumenti multimediali: per molti ragazzi il tablet sul banco significa una potentissima possibilità di distrazione.
Quanti studenti, potendo decidere che cosa fare con il loro tablet, sceglierebbero di seguire un’impegnativa spiegazione di Storia o di Matematica? E quanti invece preferirebbero navigare in siti più ameni o magari chattare tramite skype con qualche loro compagno? Dunque, da parte dei docenti che stanno provando le meraviglie della 'scuola 2.0' emerge la richiesta di non sostituire del tutto i libri tradizionali con quelli elettronici e di non abbandonare completamente la carta a vantaggio dello schermo. Il manuale cartaceo può continuare a costituire il centro di un processo di apprendimento, integrabile, magari per i compiti e per lo studio domestico, con le nuove tecnologie.
I dati della sperimentazione lombarda danno ragione alle perplessità di molti, come il filosofo Giovanni Reale, autore, per l’Editrice La Scuola, di un pamphlet intitolato Salvare la scuola nell’era digitale (su queste pagine l’ha intervistato Roberto I. Zanini, lo scorso 1° maggio). Sarebbe illusorio e ingenuo pensare che la crisi della scuola possa essere affrontata soltanto attraverso l’introduzione delle nuove tecnologie. Queste sono strumenti, niente più. A volte pure con dei limiti. Ciò che davvero conta è ridare forza e autorevolezza a un sistema educativo e al quadro di valori su cui si fonda. E in questo il rapporto tra le persone, cioè tra gli insegnanti e gli studenti, sarà sempre più importante dell’utilizzo delle macchine.
«Avvenire» del 14 maggio 2013

Se il confessore diventa terapeuta

I colloqui con i sacerdoti cresciuti fino al 20% prima di Papa Francesco
di Paolo Rodari
L’Italia torna a confessarsi in Chiesa come dal terapeuta
Punto di rottura. O nuovo inizio. Da un anno a questa parte le chiese italiane, in testa i santuari mariani, registrano un fenomeno che pare senza sosta: il ritorno della confessione. Uomini, donne, soprattutto quaranta-cinquantenni, tornano a inginocchiarsi davanti a un sacerdote che, come scrisse nel XIII secolo il chierico inglese Tommaso di Chobham, «siede nel confessionale come Dio e non come uomo». Tornano a chiedere perdono perché — spiega il padre gesuita Francesco Occhetta — vedono soltanto in questo sacramento l’appiglio per rompere col passato, per ricominciare daccapo, fare nuova la propria esistenza». Non si tratta, dunque, di mera espiazione delle colpe. Anche, ma non solo. Né di trovare «una nuova etica» dentro il vivere quotidiano. Si tratta, soprattutto, «di cambiare cammino una volta per tutte». Spesso, dice Occhetta, «i peccati sono dolori che macerano nel profondo. Aborti mai confessati, ad esempio. Il sacramento permette di ricominciare, nonostante il dolore permanga. Ma i peccati sono diversi. E oggi, come secoli fa, è sempre il decalogo a essere disatteso». Dice monsignor Gianfranco Girotti, per anni numero due della Penitenzieria apostolica: «Al di là delle colpe gravi del passato — fra questi anche i tradimenti, le menzogne pronunciate a danno di altri, i torti comminati con l’intento di ferire e fare male — i fedeli cadono principalmente sui sette vizi capitali. È così da sempre: superbia, avarizia, lussuria (qui c’è la dedizione al piacere e al sesso), l’invidia, la gola, l’ira, e l’accidia (che non è depressione, quanto lasciarsi andare al torpore dell’animo fino a provare fastidio per le cose spirituali) albergano nella maggior parte delle confessioni di oggi».
Ancora prima dell’elezione al soglio di Pietro di José Mario Bergoglio, le chiese italiane hanno registrato un aumento di persone che chiedono di confessarsi attestabile circa intorno al venti per cento. Numeri certi non esistono, perché non esistono registri in merito nelle diocesi. Lo scorso febbraio, però, Civiltà Cattolica — la storica rivista italiana dei gesuiti — chiudeva un numero con un articolo intitolato proprio “Il ritorno della confessione”. Lo spunto era l’aumento dei penitenti riscontrato nelle principali basiliche romane, e insieme nei santuari italiani. Un aumento circoscrivibile all’ultimo anno, visibile a occhio nudo semplicemente contando le ore che i confessori hanno dovuto trascorrere chiusi all’interno dei confessionali. «La crisi economica è anzitutto crisi di valori», spiegano i gesuiti della Chiesa del Gesù, in centro a Roma. «Viviamo in una società in cui manca la figura del padre. Negli ultimi mesi la sofferenza causata da questo vuoto si è acuita inesorabilmente. E i nostri confessionali sono tornati a riempirsi. Dietro questo fenomeno c’è una nuova domanda di spiritualità. La domanda preme, finché rompe gli argini e implora risposte».
Point break, lo chiamano i surfisti. «Il punto di rottura di un’anima alla ricerca di Dio», la definisce padre Occhetta.
Dice san Gregorio di Narek, poeta, monaco, teologo e filosofo mistico armeno che «anche nella più oscura cisterna, brucia sempre una piccola fiamma. Voluta da Dio». È questa fiamma che spinge a uscire di casa e a entrare in un confessionale. Ma per dire cosa? Quali i peccati ricorrenti? La risposta non è semplice. Qualche giorno fa Papa Francesco ha ricordato che il confessionale «non è una lavanderia». Molti, evidentemente, la usano così. Un luogo in cui lavare le proprie colpe indicando uno dopo l’altro quali dei dieci comandamenti sono stati disattesi. «Tante volte — dice Bergoglio — pensiamo che andare a confessarci è come andare in tintoria per pulire la sporcizia sui nostri vestiti. Ma Gesù nel confessionale non è una tintoria. Confessarsi è un incontro con Gesù, ma con questo Gesù che ci aspetta, ma ci aspetta come siamo».
Non per tutti confessarsi è smacchiare i vestiti sporchi in una tintoria a gettoni. Esiste anche una tendenza opposta: la confessione come se fosse una seduta di analisi dallo psicologo.
Scrisse anni fa in merito più pagine monsignor Mario Canciani, ai tempi confessore di Giulio Andreotti, spiegando che i penitenti parlano soprattutto di «stress, impazienza e depressione». Dice: «Quasi ne chiedono scusa. Senza rendersi conto che non sono peccati».
Ancora Girotti spiega che «sempre più il confessionale viene usato come luogo in cui parlare di sé, dei propri problemi, in effetti un po’ come se si fosse a una seduta di analisi. Ma al di là di questi casi, e ai casi di coloro che confessano i peccati che potremmo impropriamente definire “classici”, noto che si offende Dio anche per altre vie, ad esempio con azioni di inquinamento sociale, rovinando l’ambiente, compiendo esperimenti scientifici moralmente discutibili. Per non dire poi della sfera dell’etica pubblica dove pure entrano in gioco nuovi peccati come la frode fiscale, l’evasione, la corruzione». Ma quel è il peccato più confessato? Girotti non ha dubbi: «Sempre lui, il peccato contro il sesto comandamento: non commettere atti impuri. La sfera sessuale sembra essere quella più difficile da domare, o forse rode la coscienza più di altre offese». Lo disse ancora Canciani: «Al di là di tutto, il peccato più disatteso resta quello relativo al sesto comandamento. È un peccato che si riferisce alla vita privata della gente. In questo campo, purtroppo, si nota un distacco tra ciò che insegna la Chiesa e il disordine nel quale vivono tante persone. Mi riferisco quindi non solo alla sfera sessuale, ma anche ai divorziati o a situazioni familiari complesse. La Chiesa deve però accogliere tutti con amore».
Recentemente il Centro Studi sulle Nuove Religioni ha pubblicato un’indagine sul sacramento della penitenza a seguito dell’elezione di Papa Francesco. L’insistenza del Papa sulla parola «misericordia» ha spinto molti a tornare a confessarsi, in scia al trend precedente all’elezione. Fra questi, dice l’indagine, tante coppie per la Chiesa «irregolari» che spinte dal “fuoco” di Bergoglio si sono decise per un nuovo cammino.
Aumentano i penitenti, certo, ma diminuiscono i confessori. La crisi di vocazioni sacerdotali rischia sempre più di far sì che la Chiesa non sappia rispondere alla domanda. Così, in alcune diocesi, c’è chi abbozza nuove soluzioni. Una di queste, molto discussa ma prevista dal canone 961 del codice di diritto canonico, è l’assoluzione a più penitenti insieme senza la previa confessione individuale. Il codice dice che essa non può essere impartita se non vi sia imminente pericolo di morte e al sacerdote o ai sacerdoti non basti il tempo per ascoltare le confessioni dei singoli penitenti. Insieme, può essere concessa se «vi sia grave necessità, ossia quando, dato il numero dei penitenti, non si ha a disposizione abbondanza di confessori per ascoltare, come si conviene, le confessioni dei singoli entro un tempo conveniente». La pratica comunitaria nacque in Belgio, nel 1947-48, in una comune parrocchia di operai. Durante la messa i fedeli, su invito del sacerdote, riflettevano sui propri peccati, se ne pentivano e venivano collettivamente assolti. Poi il Concilio Vaticano II ricalibrò la spinta, ribadendo che la confessione auricolare resta l’unica via di remissione dei peccati gravi. Ma intanto il ritorno alla confessione individuale da parte di molti fedeli lascia in secondo piano altre dispute. Anche perché, come scrive sempre Civiltà Cattolica, coloro che tornano a confessarsi lo fanno dopo aver dialogato «con la propria coscienza». Dice la rivista: «Si assiste a un ritorno silenzioso ma significativo alla confessione da parte della generazione dei quarantenni e cinquantenni, che ridanno valore al sacramento, a volte dopo anni di lontananza. Coloro che ritornano a confessarsi dichiarano di averlo fatto dopo aver riletto il Vangelo, dialogato con la voce della propria coscienza, incontrato testimoni credenti e credibili».
«La repubblica» del 13 maggio 2013

09 maggio 2013

Alert, su Internet libertà di stampa in pericolo

"L'Europa non è diventata un posto più sicuro per coloro che esprimono opinioni critiche. "Le misure per assicurare la sicurezza dei giornalisti da questi pericoli devono essere rafforzate". Blogger a rischio per quanto scrivono.
s. i. a.
Internet non sta garantendo maggiore libertà di stampa in Europa, anzi, al contrario ha creato uno spazio dove la libertà di espressione può in pratica essere limitata più di quanto non consentano gli standard internazionali. Questo è l'allarme che lancia il commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Nils Muiznieks, in occasione della Giornata mondiale della libertà di stampa, celebrata ogni anno il 3 maggio. "Mentre un sempre crescente numero di giornalisti usa internet per il proprio lavoro, l'Europa non è diventata un posto più sicuro per coloro che esprimono opinioni critiche", afferma Muiznieks. "Se è vero che i giornalisti possono raggiungere una più vasta audience e farlo più rapidamente, quando decidono di farlo ci sono vecchi e nuovi pericoli che li attendono", sottolinea il commissario riferendosi agli atti di violenza, le intimidazioni, i processi ingiustificati e il controllo a cui sono sottoposti coloro che diffondono notizie. "Le misure per assicurare la sicurezza dei giornalisti da questi pericoli devono essere rafforzate", avverte Muiznieks, affermando che questa protezione deve includere anche tutti coloro che in senso più ampio fanno informazione, quindi anche i blogger e i semplici cittadini che, come i giornalisti, sono a rischio per quanto scrivono. Questo perché, spiega il commissario, secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ciò che giustifica una maggiore protezione della libertà di espressione è il tipo di informazione data piuttosto che la persona che dà l'informazione. (ANSA)
«Wall street journal Italia» del 3 maggio 2013

Quando il web diffama non è libertà di stampa

di Fabio Folisi
La questione sollevata dalla presidente della Camera Laura Boldrini, vittima di ignobili attacchi sessisti e violenti sul web, è spinosa. Quando infatti dalla teoria si passa alla pratica, questioni come libertà d’espressione e Internet, che sembrano essere un binomio inscindibile, vacillano inevitabilmente e… giustamente. L’interpretazione che molti danno del web, è che debba essere una sorta di zona franca dove tutto è lecito, dove si può demolire e calpestare ogni diritto individuale, diffamare o minacciare, opprimere con pressioni psicologiche in nome di una presunta propria libertà d’azione. Allora, lo “strumento più libero e democratico che c’è” diventa un pericoloso dispositivo di oppressione e morte, una vigliacca pistola che può ferire ed uccidere al pari di quelle che sputavano fuoco negli anni di piombo. Il problema è semplice nella sua complessità. La domanda è: in rete devono valere o meno alcune semplici regole come quella che vuole che la propria libertà deve trovare il limite quando invade quella sacrosanta degli altri? Nuovo il mezzo, vecchio il problema, vetusto almeno quanto la comunicazione verbale e figurativa. Ma oggi i danni che può fare l’immediata visibilità del web non sono minimamente paragonabili a quelli di altri media del passato. Eppure internet è una occasione che l’umanità non ha mai avuto di propagazione di idee, di informazioni, di cultura. Il problema non è la “mediazione”, il problema è, semmai, quello di trovare delle regole che possano limitarne il potere offensivo e denigratorio. Ovviamente un sistema formidabile lo hanno in mano gli utenti, dare o meno credito all’autorevolezza della fonte, ma non basta, perchè le suggestioni alla credulità sono sempre in agguato. La libertà di stampa è certamente diritto costituzionale, ma non si può pensare di usare questo diritto come una clava. Allora anche il recente sequestro di un sito web, proprio a Udine, può diventare esempio di una discussione che andrebbe fatta. Secondo quanto specificato dal Gip nel decreto di sequestro preventivo, il blog in questione, utilizzava “tecniche di redazione dei messaggi e un linguaggio con un univoco obiettivo di gettare fango sulla persona offesa”. Il sequestro appare motivato soprattutto quando si scopre che, forse, per la consapevolezza di superare il limite, gli attacchi più virulenti venivano postati dallo stesso gestore del sito, spacciati come commenti anonimi dei lettori. Insomma oltre alla presunta diffamazione si prendevano in giro gli utenti e si millantavano accessi e visibilità irreali. Un comportamento che, sempre secondo il gip, necessita del sequestro in quanto «la libera disponibilità dei beni (il sito ndr) configura il pericolo di una reiterazione del reato, atteso che non si è trattato di un episodio isolato ma di un atteggiamento abituale che sta andando in scena ormai da mesi». Insomma l’oscuramento senza conoscere la vicenda potrebbe sembrare provvedimento abnorme, ma in realtà non lo è. Ora pur essendo stati anche noi vittime di virulenti attacchi personali proprio da quel sito, ci sentiamo di chiederne il ripristino, non perchè sia un insostituibile fonte di informazioni, anzi è stato spesso strumento fetente di lotta politica ad uso del potente di turno, ma per amore della democrazia. Si tratta, semmai, di chiedere precise garanzie di correttezza al gestore, che inizi rendendo invisibile l’archivio storico. Se invece continuerà a gridare all’attentato parlando di censura o, addirittura, facendo la “furbata”di sfidare la giustizia utilizzando un altro sito web, la posizione, temiamo, diventerà assolutamente indifendibile.
«Il quotidiano» del 4 maggio 2013

Quella libertà di stampa diversa a ogni latitudine

Oggi la giornata mondiale. Fare il giornalista in molti Paesi è sempre più un lavoro a rischio
di Mario Calabresi
Oggi, 3 maggio, è la giornata mondiale dedicata alla libertà e alla sicurezza dei giornalisti. La si celebra da dieci anni e alcuni mesi fa avevamo deciso che valeva la pena farlo con un numero speciale, dedicato a tutti quei giornalisti che ogni giorno rischiano la loro vita per raccontare e testimoniare. Oggi per noi, che dall’8 aprile non abbiamo notizie del nostro inviato Domenico Quirico entrato in Siria per una serie di reportage nell’area di Homs, questa scelta è ancora più significativa e urgente.
In ogni angolo del mondo ci sono giornalisti minacciati, picchiati, trascinati in tribunale per spingerli a smettere di «disturbare», rapiti, uccisi. Ci sono Paesi in cui il «pericolo» viene associato soltanto all’andare a raccontare le guerre all’estero e Paesi in cui ci vuole coraggio a descrivere ciò che accade sotto casa. Ci sono Paesi in cui le due cose convivono.
Se chiedi a un giornalista tedesco o inglese che cosa sia pericoloso, ti risponderà: andare in Iraq, in Pakistan o in Mali. Se rivolgi la stessa domanda a un russo o a un messicano, il primo ti risponderà che rischia la vita chi non si muove di casa ma ficca troppo il naso nelle manovre del potere e nei suoi affari, il secondo che raccontare il narcotraffico e le guerre della droga è il mestiere più pericoloso del mondo.
Ci sono posti in cui, il più simbolico è la Somalia, basta avere l’idea di aprire un giornale e di provare a fare cronaca quotidiana per rischiare di non vedere il tramonto.
In Italia invece la domanda ha tante risposte. Da noi se vuoi vivere tranquillo è consigliato non partire per la Siria, l’Afghanistan, la Libia ma anche non fare inchieste sulla ‘ndrangheta o la camorra e non importa se il tuo lavoro lo fai a Napoli, a Modena, nella Locride o nell’hinterland milanese. Ma non basta. Se vuoi evitare minacce, aggressioni e fastidi lascia perdere pure gli anarco-insurrezionalisti, evita di avere spirito critico ad una manifestazione contro la Tav e non metterti a presentare libri di dissidenti cubani. L’intolleranza verso un’informazione libera e critica ha facce e radici le più diverse tra loro. L’Italia ha poi la variante giudiziaria: da noi il sistema politico e quello affaristico hanno il vizio di usare l’arma delle querele come minaccia e la richiesta di risarcimenti esorbitanti e sproporzionati rispetto all’eventuale danno ricevuto per scoraggiare i cronisti, i direttori e gli editori e per renderli più gentili e «distratti».
Eppure il giornalismo non è mai stato attaccato, sminuito e dileggiato come in questi tempi, in cui viene accusato di essere parte della casta e indicato come complice del decadimento della politica e delle amministrazioni pubbliche. E dire che mai come negli ultimi anni il giornalismo italiano ha messo sotto accusa il sistema dei partiti, denunciando truffe, sprechi e privilegi e che se un’obiezione sarebbe da muovere non è alla timidezza ma alla mancanza di garantismo. L’onda del malessere e un certo qualunquismo dilagante non sembrano però essere capaci di fare distinzione alcuna.
Nell’ottobre dell’anno scorso – anno record per numero di giornalisti uccisi, 121, e incarcerati – ho partecipato a Londra, nella nuova sede della «Bbc», all’incontro tra i rappresentanti di oltre 40 media internazionali per discutere e sottoscrivere un documento in otto punti che parla di sicurezza, riconoscimento, solidarietà internazionale e di fine dell’impunità per chi perseguita o uccide un giornalista. Perché oggi nel mondo nove casi su dieci restano impuniti.
Ma un diverso impegno internazionale, che faccia sentire la pressione dell’opinione pubblica su quei regimi che opprimono la libertà di stampa, può fare la differenza, specie quando si tratta di carcerazioni e minacce. Perché non in tutti i Paesi lo Stato è qualcuno che ti può difendere: mentre illustravo il caso di Roberto Saviano e degli altri giornalisti italiani costretti a vivere sotto scorta sono stato interrotto dalla giornalista russa Galina Sidorova, che ha dato vita a Mosca alla Fondazione per il giornalismo investigativo, con queste parole: «Ma io non potrei mai farmi scortare dalla polizia, in Russia sarebbe la cosa peggiore: non potrei più lavorare liberamente, così sarei continuamente controllata ed è proprio dalla polizia che molti di noi si devono guardare».
A Londra, a rappresentare l’Italia, c’era «La Stampa»: prima di partire mi ero seduto proprio con Domenico Quirico a discutere come si può aumentare la sicurezza dei giornalisti che entrano in zone di guerra. Domenico era reduce da poco più di un anno di un rapimento, avvenuto alle porte di Tripoli alla vigilia della caduta del regime di Gheddafi. Alle mie domande aveva inizialmente opposto un lungo ed eloquente silenzio, perché secondo lui il pericolo non può essere evitato o sterilizzato, sarebbe illusorio pensarlo. «Certo – aveva sottolineato – i giornalisti che hanno una solida organizzazione alle spalle, che non devono barattare la loro sicurezza in nome del risparmio, che hanno la possibilità di lavorare con calma e prepararsi bene, partono un po’ più sereni. Ma per me il vero giornalismo non passerà mai da comitive organizzate e intruppate, difese da guardie armate, che passano e vanno come fossero turisti. Io preferisco essere solo, con le guide locali, per dare meno nell’occhio e lavorare senza farmi notare».
Lo stesso senso del giornalismo che muove Yoani Sánchez, dissidente e giornalista cubana, che intende questo mestiere come il contrario di quello dell’entomologo: «Noi non possiamo stare lontani dalla realtà, osservare dall’alto la vita delle formiche, usando la lente di ingrandimento per avere l’illusione di essere vicini. Noi dobbiamo invece assumere il punto di vista delle formiche, stare con i piedi ben ancorati a terra: essere cronisti del reale».
Per questo oggi, in attesa di pubblicare presto i suoi reportage dalla Siria, vi proponiamo una lunga intervista che Domenico ha rilasciato al mensile «Tracce» prima di partire, in cui è contenuta tutta la sua filosofia di lavoro.
Per questo abbiamo trascritto le convinzioni di Yoani Sánchez così come le ha raccontate domenica scorsa al Festival internazionale di giornalismo di Perugia e abbiamo raccolto le testimonianze di chi vive e scrive sotto il segno del pericolo e della paura, dal Messico alla Russia, dal Pakistan alla Somalia.
Come diceva più di un secolo fa Lord Northcliffe, giornalista e poi editore inglese: «La notizia è quella cosa che qualcuno, da qualche parte, non vuole sia pubblicata. Tutto il resto è pubblicità».
Questo numero speciale è dedicato a tutti quelli che ancora ci credono.
«La Stampa» del 3 maggio 2013

07 maggio 2013

Adolescenza e ribellione

di Alessandro D’Avenia
Se smettessi di fare l’insegnante non avrei più niente da raccontare, perché affronto venti ragazzi nel periodo di ribellione, che è la benedizione dell’adolescente, quando finalmente inizia a gestire la sua libertà, inizia a toccare con mano la sua unicità: questa è la finestra da cui entra la realtà delle storie che mi ispirano di più. sia il primo che il secondo romanzo raccontano storie di ribellione: il primo di fornte alla mallattia insipegabile della ragazza di cui è follemente innamorato, la seconda dal fatto che il papà se n’è andato di casa all’improvviso. la vita ci “presenta il conto” e noi inevitabilmente ci ribelliamo; però, poi, il più delle volte questa ribellione porta i ragazzi a trovare il senso di ciò che è accaduto. Se non ci fosse ribellione, non ci sarebbe neanche quella possibilità di perdono che poi dà senso a questi ‘non-sensi’ che la vita ci propone. A me piace del mondo dei ragazzi questa presa di posizione, secondo cui il mondo non ti sta bene: l’adolescenza è l’età in cui per la prima volta mettiamo in discussione tutto quello che i genitori ci hanno detto. Ed è la benedizione per il ragazzo: mentre il bambino si fa dire cosa fare e chi essere dai genitori, l’adolescente comincia a gestire la propria libertà e a toccare quell’unicità che è venuto a portare sulla terra. Questo comporta una ribellione, perché ha paura che altri continuino a dare significati che lui invece trovare da solo. È un passaggio necessario per approdare ad un senso della vita. Se non accadesse, il ragazzo la pagherebbe con l’omologazione.
Intervista a RaiScuola del 24 aprile 2013

Una generazione senza grammatica

I nostri adolescenti, anno 2013
di Pietro Citati
La cosa singolare è che parlano bene e che magari leggono anche tanti bei volumi
Per caso e per parentele, conosco molti ragazzi di dodici, tredici, quattordici, quindici anni. Sono incantevoli. Ciò che amo in loro è specialmente il fatto che non portano il peso della adolescenza, come molto spesso accadeva a me e ai miei amici, tantissimi anni fa. Per loro, l'adolescenza è una festa, un gioco: qualcosa di aereo e leggero, che essi inseguono velocemente senza raggiungerlo mai.Sono molto intelligenti: la mente li porta verso tantissimi oggetti; ogni oggetto suscita il loro interesse, senza esaurirsi. Leggono molto: uno di loro mi ha confessato, quasi vergognandosi, di aver letto quattro volte Il conte di Montecristo e due volte Delitto e castigo, libri che sciocchi adulti cercavano di togliere dalle loro mani, dicendo che «non erano adatti alla loro età». In realtà, erano adattissimi, perché assomigliavano alla loro intelligenza drammatica, ironica, paradossale.I ragazzi del 2013 hanno un difetto. Non sanno scrivere in italiano. Talvolta lasciano cadere sulla pagina espressioni divertenti e felici, che però si smarriscono e si disperdono subito. Non hanno il dono della sintassi: non sanno costruire un pensiero, seguendo le sue fasi e i suoi sviluppi interiori, passando scioltamente e velocemente da un punto all'altro, possedendo quell'armonia che la mente deve conoscere anche nei luoghi più ardui e convulsi. La loro pagina è un ammasso di parole, un groviglio di espressioni indeterminate e confuse. Non riescono a disporre i segni di punteggiatura: un punto, una virgola, un punto e virgola sono per loro esattamente la stessa cosa, appunto perché non posseggono il senso del ritmo e della separazione. Tutto lascia credere che non impareranno mai a scrivere con decoro: divenuti adulti, studenti all'università, o assunti in un posto di lavoro, continueranno a confondere il pensiero, ingarbugliando la sintassi e moltiplicando inutilmente le cerniere mentali.La cosa singolare è che parlano bene, con proprietà, lucidità, sveltezza: la parola parlata rivela la costruzione interiore dei loro pensieri; appena prendono in mano la penna o il computer, accade il disastro. Non sono certo della ragione di questo fenomeno. Come molti suggeriscono, essi sembrano aver abbandonato la civiltà scritta, mentre nuotano liberamente e felicemente in quella orale, che li affascina in mille modi. Ma è singolare che i molti libri letti non agiscano in nessun modo sui loro doni espressivi. In ogni caso, è un fenomeno gravissimo. Qualsiasi cultura ha bisogno di un fondamento scritto. Anche la civiltà omerica, che era molto più orale della nostra, scoprì un'espressione scritta di mirabile precisione e armonia, sebbene semplificasse la sintassi e la rendesse implicita.Non invidio i professori delle scuole medie, che ogni giorno si trovano di fronte a questo crollo e quasi scomparsa della tradizione scritta. Così in Gallia, nel sesto secolo, Gregorio di Tours compose la Historia Francorum violando barbaramente qualsiasi forma di sintassi latina. Il latino riprese la sua costruzione e la sua bellezza trecento anni più tardi, nella mirabile prosa di Giovanni Scoto. È probabile che l'italiano scritto ritrovi miracolosamente il suo splendore: perché è ancora pieno di forze e nutrimenti nascosti. Ma, intanto, cosa possono fare i professori delle medie coi loro allievi intelligenti e asintattici? Credo che ci sia una sola strada: far riassumere di continuo i romanzi e i racconti che essi hanno letto. Saper riassumere è un grande dono: si imita e si comprende una bella forma espressiva, la si scorcia robustamente, mentre si rispettano le sue proporzioni interiori.
«Corriere della Sera» del 29 aprile 2013

Quei 26 euro l'anno: tutti i musei pubblici d'Italia guadagnano meno del Louvre

I musei e gli incassi Arte Si possono offrire i siti gratis per attirare turisti che spenderanno nell'indotto. Ma da noi manca una strategia
di Gian Antonio Stella
Ventisei euro di incassi l'anno per ogni dipendente: è da apocalisse il bilancio dei musei e dei siti archeologici calabresi. Sparare solo sulla Calabria, però, sarebbe ingiusto. Sono i conti del nostro intero patrimonio culturale a esser tragici: tutte le biglietterie statali italiane messe insieme hanno fatto introiti nel 2012 per un centinaio di milioni. Il 25% in meno del Louvre da solo.
Sgombriamo subito il campo da una polemica: statue e dipinti, fontane e ville rinascimentali non hanno come obiettivo principale fare soldi. Prima vengono la tutela e la condivisione del patrimonio che ci hanno lasciato i nostri avi. Ed è giusto che sia così. Non c'è museo al mondo che possa reggersi sui biglietti. E se anche funzionassero da noi come nei Paesi più civili le cose di contorno che aiutano a produrre denaro (dalle caffetterie ai Bookshop, dai parcheggi al merchandising) non sarebbero sufficienti.Sia chiaro: è indecente che questi «optional» da noi siano trascurati. Ma in ogni caso anche là dove funzionano c'è comunque bisogno che le casse pubbliche (sapendo che poi gli investimenti rientrano generando ricchezza con tutto l'indotto intorno, dagli hotel ai caffè, dagli Internet point ai b&b) si facciano carico di una parte delle spese.Ma un conto è che lo Stato, le Regioni, i Comuni ci rimettano il 30%, un altro che ci perdano il 95%. E vista la nostra situazione finanziaria è stupefacente che il tema non venga preso di petto come la sua gravità obbligherebbe.Per cominciare, occorrerebbe far chiarezza nel caos anarcoide e incontrollabile degli ingressi liberi. Non è una questione di Nord e di Sud, dicono i dati ministeriali. È accettabile che entrino gratis uno su due dei visitatori dei musei in Campania e nove su dieci (1.347.316 contro 140.876) in Friuli-Venezia Giulia?«Noi tutti prendiamo più sul serio ciò che costa che non ciò che è gratuito», ha scritto Luciano De Crescenzo. Ed è assolutamente vero. In questo caso a maggior ragione perché comunque i costi dei custodi, del riscaldamento, della luce elettrica di ogni museo ricadono sulle spalle dei cittadini che devono sostenere il sistema con le loro tasse. Ma se diamo per scontato che sia interesse della società lasciar entrare gratis tutti gli studenti fino ai 25 anni o gli anziani (lo fanno anche il Louvre e tantissimi musei economicamente sani), una regola generale deve comunque esserci.La sproporzione tra quanti pagano il ticket in Calabria (uno ogni 18) o in Puglia (uno ogni tre) non ha senso. Come non hanno senso i paragoni fra le regioni del Nord, al di là del caso friulano: perché dovrebbero acquistare il biglietto il 67% dei turisti nei musei veneti e solo il 40% in quelli piemontesi e meno del 35% in quelli liguri? La media nazionale, del resto, è illuminante: per vedere i nostri tesori, i visitatori costretti ad aprire il portafogli sono solo 16 milioni su 36 e mezzo: venti entrano gratis.Per carità, uno Stato serio potrebbe farne una scelta strategica: a Las Vegas mangiare e dormire costa molto meno che nel resto dell'America perché gli albergatori sanno che i clienti lasceranno giù un mucchio di dollari ai tavoli di poker e alle slot-machine. E così si regolano da anni con i musei nazionali, come ricorda Il Giornale dell'arte, i britannici.È una questione di scelte: offri musei e siti archeologici e palazzi nobiliari gratis o quasi per attirare turisti sapendo che spenderanno poi nelle trattorie, nelle paninoteche, nelle locande, nelle botteghe. Il guaio è che nel nostro caso l'impressione netta è che a decidere sia la sciatteria, l'improvvisazione, la confusione totale. Senza un minimo di progetto. Di visione strategica.La stessa raccolta di dati è un casino. All'Ufficio statistica del ministero, per quanta buona volontà ci mettano, possono rastrellare i numeri di quasi tutto il Paese compresi il Friuli e la Sardegna, che sono Regioni autonome. Ma se chiedete loro quelli della Sicilia, della Val d'Aosta o del Trentino-Alto Adige, come abbiamo controllato ieri, vi risponderanno: «Non ne abbiamo la più pallida idea». Se il ministro vuole avere un quadro complessivo deve farselo comporre dalla segreteria, costretta a chiamare una ad una le repubblichine indipendenti. Cosa c'entrano, queste gelosie, con l'autonomia?Quasi tre mesi e mezzo dopo l'inizio del 2013, la Regione Sicilia non è ancora in grado di dire com'è andato il 2012. L'unico dato: nel primo semestre rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente gli incassi sono calati del 7,6%, i visitatori paganti del 10,6%. Quanto al 2011, spiccano dolorosamente i 400 turisti paganti (poco più di uno al giorno) all'Area archeologica di Megara Hyblaea, bella ma soffocata dalle pestilenziali vicine aree industriali. O il Museo archeologico Ibleo di Ragusa: 1,4 visitatori al giorno. Per non dire del museo archeologico di Marianopoli: due alla settimana. Per un incasso, se si tratta di adulti senza riduzioni, di un totale di quattro euro. Sedici al mese, 192 l'anno. Il sito di Ravanusa non è più in elenco: forse a causa delle perplessità sollevate dalla scoperta che nel 2009, a fronte di 340.000 euro di spese per gli stipendi dei dieci custodi e la manutenzione, aveva avuto nell'intero anno un solo visitatore. Uno.Come si può, davanti a questi numeri impressionanti, invocare l'intangibilità assoluta dello status quo e l'inamovibilità degli addetti che non si possono spostare da un sito archeologico all'altro, da un museo all'altro? Anche ammesso che lo Stato (dovremmo scoprire giacimenti di diamanti sui Nebrodi o in Valsugana...) potesse farsi carico di tutto, è accettabile che lo Stato copra gli stipendi annuali dei dipendenti del ministero dei Beni culturali recuperando dagli introiti per ogni addetto 9.251 euro in Toscana, 4.487 in Lombardia, 6.896 in Campania, 250 in Liguria e 56 in Molise?Per non dire, appunto, della sventurata Calabria dove gli incassi totali sono precipitati a 24.823 euro («numeri da chioschetto», ha scritto il Quotidiano della Calabria) e parallelamente, come raccontavamo l'altro giorno, i costi per il restauro del Museo archeologico si sono triplicati in tre anni salendo a 33.010.835 euro. Vale a dire che, con gli incassi di oggi, il recupero avverrebbe in 1.329 anni. Meno male che prima o poi, nonostante i ritardi, torneranno al loro posto i Bronzi di Riace. E il sole, finalmente, farà capolino anche sugli incassi reggini ...
«Corriere della Sera» dell'11 aprile 2013

La strategia turistica

Il settore e l'improvvisazione
di Antonio Preiti
Il turismo è una cosa seria. Sono veri i soldi che crea: scegliete il calcolo che preferite, ma a Roma siamo sempre sopra il 15 per cento del Pil. Nel centro storico della Capitale un euro su quattro arriva, in un modo o nell'altro, dai nostri ospiti.Sono veri i posti di lavoro che genera, la professionalità che rivela; sono vere le imprese, gli alberghi, i ristoranti, i negozi che pullulano di gente che parla un altra lingua. Ma il turismo non è trattato come una cosa seria. E questo, davvero, è un piccolo mistero.Chiunque ha la sua teoria sulla strategia turistica, anche senza aver neppur lontanamente letto un libro in materia, chiunque sale in cattedra, non solo metaforicamente, mettendo in fila un rosario di luoghi comuni, chiunque prende responsabilità nella direzione politica o tecnica del settore, semplicemente in quanto uomo di mondo, che viaggia e conosce.Un settore che genera un euro su cinque della nostra ricchezza collettiva meriterebbe, invece, studi, strategie, pensiero strutturato, ben superiore a quello di cui oggi disponiamo. Un solo esempio: le statistiche sul turismo sono ferme agli arrivi e alle presenze che, se si trattasse del mercato automobilistico, significherebbe che tutta la scienza consiste nel contare il numero delle auto in circolazione. Al massimo si arriva a dividerli tra turisti della cultura, del business, dei congressi, chiudendo gli occhi sulla circostanza, sin troppo evidente, che si sceglie Roma proprio per la sua celebrità culturale, che risuona in ogni motivazione del viaggio.Semmai la domanda andrebbe rovesciata: cosa sappiamo davvero del turismo?Poco di quello che pensano i nostri ospiti. Poco della qualità dei nostri standard. Poco di quello che si aspettano di trovare entrando in un museo. Poco ancora sappiamo del panorama competitivo, del virtuale che nella cultura comincia a battere il reale; dei Louvre che si aprono negli Emirati Arabi; poco sappiamo di come i social media cambiano i comportamenti; poco sappiamo di come realmente Roma sia percepita dagli altri; poco sappiamo di come contrastare la disintermediazione che su internet appiattisce tutto sul prezzo; mai e poi mai sappiamo dell'impatto delle attività promozionali. Poco sappiamo, in una parola, del mondo reale che ci gira intorno, mentre siamo oscurati, nella mente, prima che nella vista, dalla piccola retorica della nostra primazia («caput mundi») e delle risposte che diamo noi stessi, per conto degli altri.Facciamo una cosa seria. Mettiamo idealmente in fila gli elementi che costituiscono la grande impresa collettiva che è l'industria dell'ospitalità: gli aeroporti, i trasporti urbani, i taxi, gli alberghi, i ristoranti, l'intrattenimento, le stazioni ferroviarie, i musei, i parchi; com'è messa Roma in ciascuna situazione? Perché non è vero che sia tutto uguale. Questo scandaglio è da fare non per dare i voti, ma per acquisire consapevolezza, creare volontà, stabilire necessità.
«Corriere della Sera» del 21 aprile 2013

Le città del potere insidiate da quella globale di Internet

Dalla Firenze del '500 agli Usa del dopoguerra. E ora la Cina
di Francesca Bonazzoli
Le gallerie semivuote di Chelsea e le migliaia di opere del nuovo museo di ShanghaiMa l'arte resta il modo di legittimare la forza economica
Tutti amano pensare all'arte come a qualcosa che riguarda la sfera più alta della sensibilità e dell'intelletto, ma la verità è che l'arte è sempre stata essenzialmente legata a soldi e potere. Ecco perché la si associa ad alcune illustri città. Nel 1504 la magnifica statua in marmo bianco del David scolpita da Michelangelo venne collocata in piazza della Signoria come segno di una politica che faceva dell'arte lo strumento dell'identificazione civica collettiva di Firenze. Poco dopo fu la Roma di Giulio II a voler affermare la grandezza e l'universalità della Chiesa con un programma filosofico che faceva coincidere la Bibbia con la storia antica. Era una nuova, possente architettura di pensiero che fondeva il paganesimo antico con i fasti della Chiesa, e per rendere visibile questa Roma Raffaello e Michelangelo crearono la «grande maniera» che detterà legge in tutta Europa.I pennelli di Tiziano e di Velázquez serviranno a esaltare la grandezza della monarchia di Madrid mentre per lo splendore di Parigi Napoleone creerà il museo dei musei, il Louvre. Infine, nel secondo Novecento è stato un altro grande impero, quello americano, a far uso dell'arte per «ripulire» in un bagno di legittimità la propria egemonia economica e bellica. L'Espressionismo astratto fu promosso proprio per diventare lo stile identitario di una nazione che dopo la grande vittoria militare voleva uscire dall'isolazionismo autarchico e agreste della scena americana ? la pittura realista degli anni Venti e Trenta ? e proporsi come la nuova avanguardia dell'arte mondiale di cui New York doveva diventare la capitale. Ancora una volta l'arte si legava a una città-stato come volto esportabile di un potere che la Pop Art renderà più che mai desiderabile. Oggi le cose stanno di nuovo cambiando. I centri del potere vanno dislocandosi a est, dall'India alla Cina. Il nostro mondo liquido non solo sposta continuamente il suo baricentro nelle nuove megalopoli dove si accumulano soldi e potere, ma è anche rimescolato dalla grande piattaforma orizzontale di Internet. L'arte si guarda online, si vende online, si discute online. Un unico centro non è più possibile, né necessario. Anche i galleristi hanno trasformato la loro attività da sedentaria a nomade, spostando la loro merce da una parte all'altra del globo, migrando fra fiere, biennali, mostre, aste e nei formati jpeg.Nemmeno un mese fa Jerry Saltz, il critico del New York Magazine, dedicava una lunga riflessione alla morte delle mostre nelle gallerie registrando come un tempo nei marciapiedi di Chelsea durante i fine settimana si creava una processione di gente che entrava e usciva da una galleria all'altra mentre oggi persino i vernissage vanno quasi deserti. «Non è mai successo nei miei trent'anni qui», lamentava sconsolato. Nei commenti al blog si leggevano reazioni analoghe di chi aveva vissuto la New York di Soho e poi Chelsea con gli happening notturni, le performance che coinvolgevano il pubblico, i visitatori che parlavano fra loro socializzando e scambiandosi idee.Il fatto è che oggi puoi vedere un'opera in 3D direttamente sul computer, ingrandirla nei dettagli, inviarla via mail con chi vuoi discuterne e il mercato ha concentrato l'arte nelle mani del business corporate, come le case d'asta o le poche grandi gallerie multinazionali, come la Gagosian. Alla fine, concludeva Jarry Saltz, la verità è che non c'è più un art world, perché il mondo dell'arte è diventato più una realtà virtuale che qualcosa di concreto. Anche l'egemonia di New York, ormai galleggia nel non luogo della globalità. Ma questo mondo liquido ha bisogno ancora di raccogliersi di quando in quando nelle pozze temporanee dove ristagnano soldi e potere. In questo momento la Cina può vantare cinquecento miliardari e per alcuni di loro, come Liu Yiquian e la moglie Wang Wei, mettere insieme migliaia di opere d'arte e costruirci attorno un museo (nel caso specifico il Long Museum di Shanghai) vuol dire dare autorevolezza alla propria ricchezza. La Cina è oggi nella posizione dell'America del dopoguerra. Ha bisogno di legittimare con la cultura il proprio boom economico per presentarsi come un interlocutore attraente e seducente al mondo che vuole conquistare.
«Corriere della Sera» del 23 aprile 2013

La cultura, il turismo e quella sfida da vincere

Perché è giusto che il titolare di questo dicastero abbia una visione d'insieme (e conti in Consiglio dei ministri)
di Gian Antonio Stella
L'impresa affidata al ministro Bray: tenere insieme le potenzialità italiane
Riuscirà il nuovo ministro a far convivere Raffaello e Mr. Tourist? La sfida che ha davanti Massimo Bray, il primo ministro dei Beni culturali e del Turismo della nostra storia, è da brividi. Ma va vinta.Per troppo tempo, infatti, la sacrosanta tutela dei nostri tesori d'arte e la gestione (meglio: mala-gestione) delle nostre potenzialità turistiche sono state tenute rigorosamente separate. Contrapposte. Come se l'una escludesse l'altra. Peggio: come se l'una fosse nemica acerrima dell'altra.Se il direttore editoriale dell'enciclopedia Treccani e della rivista dalemiana Italianieuropei, nonché anima della fondazione «Notte della Taranta», sarà all'altezza del compito è tutto da vedere. E anche se non mancano i plausi per la scelta sorprendente, non è solo Ernesto Galli della Loggia ad avere perplessità. Auguri. Sinceri. A lui e agli italiani, troppe volte delusi dal modo in cui i big politici hanno snobbato questi ministeri, visti come secondari rispetto a quelli «di serie A».L'unione di Beni culturali e Turismo (magari con l'aggiunta del dicastero dell'Ambiente e del paesaggio, come proponeva il Corriere) proprio a questo dovrebbe servire: a dare al titolare di questi settori la possibilità di avere una visione d'insieme. E più ancora la statura, l'energia e il peso politico per battere i pugni sul tavolo in Consiglio dei ministri spiegando anche ai più sordi quanto sostengono non vecchie gentildonne amanti delle belle arti ma lo stesso Sole 24 Ore, il giornale di Confindustria.E cioè che perfino i grandi progetti come il ponte sullo Stretto «presentano moltiplicatori di reddito inferiori a quelli evidenziati dai progetti culturali: due volte contro 4-5 volte». Il piano industriale del nuovo Louvre nell'area degradata di Lens prevede che i soldi investiti ne fruttino sette volte tanti. Quelli stanziati per il Guggenheim di Bilbao, dice un rapporto Ue, si sono moltiplicati in soli 7 anni per 18.Sia chiaro: il primo compito di un ministro dei Beni culturali italiani non può che essere la conservazione e la tutela di quel patrimonio straordinario che abbiamo (forse immeritatamente) ereditato e che conserviamo spesso con una sciatteria e un'avarizia che gridano vendetta. E certo vanno evitate come la peste follie stile Las Vegas come la costruzione d'una Pompei virtuale accanto alle rovine archeologiche abbandonate al degrado o gli spot coi Bronzi di Riace che scappano dal museo per andare in spiaggia o la realizzazione di una finta città greca coi finti templi e la finta agorà e perfino un finto Davide di Michelangelo previsti dal progetto «Europaradiso» a Crotone. Alla larga.Una miriade di esempi virtuosi sparsi per il mondo, però, ci dicono che è possibile conciliare il rispetto, la cura e la tutela dei tesori d'arte con una gestione agile, accorta, lungimirante e redditizia di quello che sta affermandosi come il grande affare del terzo millennio. Spiega la Ue (comunicazione 352/2010) che il turismo è «la terza maggiore attività socioeconomica europea, dopo il settore del commercio e della distribuzione e quello della costruzione. Se si considerano i settori attinenti, il contributo del turismo al Prodotto interno lordo risulta ancora più elevato: si ritiene, infatti, che sia all'origine di più del 10% del Pil dell'Unione Europea e che fornisca circa il 12% dell'occupazione totale».È in enorme espansione, il turismo mondiale. L'anno scorso, i viaggiatori che hanno fatto una vacanza all'estero hanno superato per la prima volta il miliardo. E noi, che nel 1970 eravamo la prima destinazione del pianeta e oggi stiamo malinconicamente al quinto posto dietro Francia, Spagna, Stati Uniti e Cina, stiamo sprecando un'occasione storica. Basti dire che, come ricorda Silvia Angeloni in «Destination Italy», secondo il «Country Brand Index 2012-2013» elaborato da FutureBrand su 118 Paesi, il «marchio» Italia è il primo al mondo per «l'attrattività legata alla cultura», il primo per il cibo, il terzo per lo shopping e nel complesso rappresenta «la prima destinazione dove i turisti vorrebbero andare». Eppure nella classifica finale, a causa di molti altri fattori come il rapporto qualità-prezzo, siamo solo quindicesimi.Di più: pur avendo l'Italia più siti Unesco (47) di tutti, spiega uno studio PricewaterhouseCoopers che se noi ricaviamo dai nostri 100, Spagna e Brasile ricavano dei loro 130, la Gran Bretagna 180, la Germania 184, la Francia 190, la Cina addirittura 270. Il triplo.Sapete quanti italiani sono occupati nel turismo in senso stretto? Ce lo dice il World Travel & Tourism Council: 869 mila, sette volte e mezzo più degli addetti della chimica. Se calcoliamo anche l'indotto 2.231.000, cioè mezzo milione in più di tutta la metalmeccanica. Eppure, la cultura e il turismo sono rimasti per anni ai margini degli interessi di tutti i governi. E ognuno si è arrangiato per conto proprio. Regione per regione, campanile per campanile. Senza un minimo di visione più larga. Come se proprio la cultura e il turismo non fossero le nostre grandi ricchezze.
«Corriere della Sera» del 289 aprile 2013