Dalla Firenze del '500 agli Usa del dopoguerra. E ora la Cina
di Francesca Bonazzoli
Le gallerie semivuote di Chelsea e le migliaia di opere del nuovo museo di ShanghaiMa l'arte resta il modo di legittimare la forza economica
Tutti amano pensare all'arte come a qualcosa che riguarda la sfera più alta della sensibilità e dell'intelletto, ma la verità è che l'arte è sempre stata essenzialmente legata a soldi e potere. Ecco perché la si associa ad alcune illustri città. Nel 1504 la magnifica statua in marmo bianco del David scolpita da Michelangelo venne collocata in piazza della Signoria come segno di una politica che faceva dell'arte lo strumento dell'identificazione civica collettiva di Firenze. Poco dopo fu la Roma di Giulio II a voler affermare la grandezza e l'universalità della Chiesa con un programma filosofico che faceva coincidere la Bibbia con la storia antica. Era una nuova, possente architettura di pensiero che fondeva il paganesimo antico con i fasti della Chiesa, e per rendere visibile questa Roma Raffaello e Michelangelo crearono la «grande maniera» che detterà legge in tutta Europa.I pennelli di Tiziano e di Velázquez serviranno a esaltare la grandezza della monarchia di Madrid mentre per lo splendore di Parigi Napoleone creerà il museo dei musei, il Louvre. Infine, nel secondo Novecento è stato un altro grande impero, quello americano, a far uso dell'arte per «ripulire» in un bagno di legittimità la propria egemonia economica e bellica. L'Espressionismo astratto fu promosso proprio per diventare lo stile identitario di una nazione che dopo la grande vittoria militare voleva uscire dall'isolazionismo autarchico e agreste della scena americana ? la pittura realista degli anni Venti e Trenta ? e proporsi come la nuova avanguardia dell'arte mondiale di cui New York doveva diventare la capitale. Ancora una volta l'arte si legava a una città-stato come volto esportabile di un potere che la Pop Art renderà più che mai desiderabile. Oggi le cose stanno di nuovo cambiando. I centri del potere vanno dislocandosi a est, dall'India alla Cina. Il nostro mondo liquido non solo sposta continuamente il suo baricentro nelle nuove megalopoli dove si accumulano soldi e potere, ma è anche rimescolato dalla grande piattaforma orizzontale di Internet. L'arte si guarda online, si vende online, si discute online. Un unico centro non è più possibile, né necessario. Anche i galleristi hanno trasformato la loro attività da sedentaria a nomade, spostando la loro merce da una parte all'altra del globo, migrando fra fiere, biennali, mostre, aste e nei formati jpeg.Nemmeno un mese fa Jerry Saltz, il critico del New York Magazine, dedicava una lunga riflessione alla morte delle mostre nelle gallerie registrando come un tempo nei marciapiedi di Chelsea durante i fine settimana si creava una processione di gente che entrava e usciva da una galleria all'altra mentre oggi persino i vernissage vanno quasi deserti. «Non è mai successo nei miei trent'anni qui», lamentava sconsolato. Nei commenti al blog si leggevano reazioni analoghe di chi aveva vissuto la New York di Soho e poi Chelsea con gli happening notturni, le performance che coinvolgevano il pubblico, i visitatori che parlavano fra loro socializzando e scambiandosi idee.Il fatto è che oggi puoi vedere un'opera in 3D direttamente sul computer, ingrandirla nei dettagli, inviarla via mail con chi vuoi discuterne e il mercato ha concentrato l'arte nelle mani del business corporate, come le case d'asta o le poche grandi gallerie multinazionali, come la Gagosian. Alla fine, concludeva Jarry Saltz, la verità è che non c'è più un art world, perché il mondo dell'arte è diventato più una realtà virtuale che qualcosa di concreto. Anche l'egemonia di New York, ormai galleggia nel non luogo della globalità. Ma questo mondo liquido ha bisogno ancora di raccogliersi di quando in quando nelle pozze temporanee dove ristagnano soldi e potere. In questo momento la Cina può vantare cinquecento miliardari e per alcuni di loro, come Liu Yiquian e la moglie Wang Wei, mettere insieme migliaia di opere d'arte e costruirci attorno un museo (nel caso specifico il Long Museum di Shanghai) vuol dire dare autorevolezza alla propria ricchezza. La Cina è oggi nella posizione dell'America del dopoguerra. Ha bisogno di legittimare con la cultura il proprio boom economico per presentarsi come un interlocutore attraente e seducente al mondo che vuole conquistare.
«Corriere della Sera» del 23 aprile 2013
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