Oggi la giornata mondiale. Fare il giornalista in molti Paesi è sempre più un lavoro a rischio
di Mario Calabresi
Oggi, 3 maggio, è la giornata mondiale dedicata alla libertà e alla sicurezza dei giornalisti. La si celebra da dieci anni e alcuni mesi fa avevamo deciso che valeva la pena farlo con un numero speciale, dedicato a tutti quei giornalisti che ogni giorno rischiano la loro vita per raccontare e testimoniare. Oggi per noi, che dall’8 aprile non abbiamo notizie del nostro inviato Domenico Quirico entrato in Siria per una serie di reportage nell’area di Homs, questa scelta è ancora più significativa e urgente.
In ogni angolo del mondo ci sono giornalisti minacciati, picchiati, trascinati in tribunale per spingerli a smettere di «disturbare», rapiti, uccisi. Ci sono Paesi in cui il «pericolo» viene associato soltanto all’andare a raccontare le guerre all’estero e Paesi in cui ci vuole coraggio a descrivere ciò che accade sotto casa. Ci sono Paesi in cui le due cose convivono.
Se chiedi a un giornalista tedesco o inglese che cosa sia pericoloso, ti risponderà: andare in Iraq, in Pakistan o in Mali. Se rivolgi la stessa domanda a un russo o a un messicano, il primo ti risponderà che rischia la vita chi non si muove di casa ma ficca troppo il naso nelle manovre del potere e nei suoi affari, il secondo che raccontare il narcotraffico e le guerre della droga è il mestiere più pericoloso del mondo.
Ci sono posti in cui, il più simbolico è la Somalia, basta avere l’idea di aprire un giornale e di provare a fare cronaca quotidiana per rischiare di non vedere il tramonto.
In Italia invece la domanda ha tante risposte. Da noi se vuoi vivere tranquillo è consigliato non partire per la Siria, l’Afghanistan, la Libia ma anche non fare inchieste sulla ‘ndrangheta o la camorra e non importa se il tuo lavoro lo fai a Napoli, a Modena, nella Locride o nell’hinterland milanese. Ma non basta. Se vuoi evitare minacce, aggressioni e fastidi lascia perdere pure gli anarco-insurrezionalisti, evita di avere spirito critico ad una manifestazione contro la Tav e non metterti a presentare libri di dissidenti cubani. L’intolleranza verso un’informazione libera e critica ha facce e radici le più diverse tra loro. L’Italia ha poi la variante giudiziaria: da noi il sistema politico e quello affaristico hanno il vizio di usare l’arma delle querele come minaccia e la richiesta di risarcimenti esorbitanti e sproporzionati rispetto all’eventuale danno ricevuto per scoraggiare i cronisti, i direttori e gli editori e per renderli più gentili e «distratti».
Eppure il giornalismo non è mai stato attaccato, sminuito e dileggiato come in questi tempi, in cui viene accusato di essere parte della casta e indicato come complice del decadimento della politica e delle amministrazioni pubbliche. E dire che mai come negli ultimi anni il giornalismo italiano ha messo sotto accusa il sistema dei partiti, denunciando truffe, sprechi e privilegi e che se un’obiezione sarebbe da muovere non è alla timidezza ma alla mancanza di garantismo. L’onda del malessere e un certo qualunquismo dilagante non sembrano però essere capaci di fare distinzione alcuna.
Nell’ottobre dell’anno scorso – anno record per numero di giornalisti uccisi, 121, e incarcerati – ho partecipato a Londra, nella nuova sede della «Bbc», all’incontro tra i rappresentanti di oltre 40 media internazionali per discutere e sottoscrivere un documento in otto punti che parla di sicurezza, riconoscimento, solidarietà internazionale e di fine dell’impunità per chi perseguita o uccide un giornalista. Perché oggi nel mondo nove casi su dieci restano impuniti.
Ma un diverso impegno internazionale, che faccia sentire la pressione dell’opinione pubblica su quei regimi che opprimono la libertà di stampa, può fare la differenza, specie quando si tratta di carcerazioni e minacce. Perché non in tutti i Paesi lo Stato è qualcuno che ti può difendere: mentre illustravo il caso di Roberto Saviano e degli altri giornalisti italiani costretti a vivere sotto scorta sono stato interrotto dalla giornalista russa Galina Sidorova, che ha dato vita a Mosca alla Fondazione per il giornalismo investigativo, con queste parole: «Ma io non potrei mai farmi scortare dalla polizia, in Russia sarebbe la cosa peggiore: non potrei più lavorare liberamente, così sarei continuamente controllata ed è proprio dalla polizia che molti di noi si devono guardare».
A Londra, a rappresentare l’Italia, c’era «La Stampa»: prima di partire mi ero seduto proprio con Domenico Quirico a discutere come si può aumentare la sicurezza dei giornalisti che entrano in zone di guerra. Domenico era reduce da poco più di un anno di un rapimento, avvenuto alle porte di Tripoli alla vigilia della caduta del regime di Gheddafi. Alle mie domande aveva inizialmente opposto un lungo ed eloquente silenzio, perché secondo lui il pericolo non può essere evitato o sterilizzato, sarebbe illusorio pensarlo. «Certo – aveva sottolineato – i giornalisti che hanno una solida organizzazione alle spalle, che non devono barattare la loro sicurezza in nome del risparmio, che hanno la possibilità di lavorare con calma e prepararsi bene, partono un po’ più sereni. Ma per me il vero giornalismo non passerà mai da comitive organizzate e intruppate, difese da guardie armate, che passano e vanno come fossero turisti. Io preferisco essere solo, con le guide locali, per dare meno nell’occhio e lavorare senza farmi notare».
Lo stesso senso del giornalismo che muove Yoani Sánchez, dissidente e giornalista cubana, che intende questo mestiere come il contrario di quello dell’entomologo: «Noi non possiamo stare lontani dalla realtà, osservare dall’alto la vita delle formiche, usando la lente di ingrandimento per avere l’illusione di essere vicini. Noi dobbiamo invece assumere il punto di vista delle formiche, stare con i piedi ben ancorati a terra: essere cronisti del reale».
Per questo oggi, in attesa di pubblicare presto i suoi reportage dalla Siria, vi proponiamo una lunga intervista che Domenico ha rilasciato al mensile «Tracce» prima di partire, in cui è contenuta tutta la sua filosofia di lavoro.
Per questo abbiamo trascritto le convinzioni di Yoani Sánchez così come le ha raccontate domenica scorsa al Festival internazionale di giornalismo di Perugia e abbiamo raccolto le testimonianze di chi vive e scrive sotto il segno del pericolo e della paura, dal Messico alla Russia, dal Pakistan alla Somalia.
Come diceva più di un secolo fa Lord Northcliffe, giornalista e poi editore inglese: «La notizia è quella cosa che qualcuno, da qualche parte, non vuole sia pubblicata. Tutto il resto è pubblicità».
Questo numero speciale è dedicato a tutti quelli che ancora ci credono.
In ogni angolo del mondo ci sono giornalisti minacciati, picchiati, trascinati in tribunale per spingerli a smettere di «disturbare», rapiti, uccisi. Ci sono Paesi in cui il «pericolo» viene associato soltanto all’andare a raccontare le guerre all’estero e Paesi in cui ci vuole coraggio a descrivere ciò che accade sotto casa. Ci sono Paesi in cui le due cose convivono.
Se chiedi a un giornalista tedesco o inglese che cosa sia pericoloso, ti risponderà: andare in Iraq, in Pakistan o in Mali. Se rivolgi la stessa domanda a un russo o a un messicano, il primo ti risponderà che rischia la vita chi non si muove di casa ma ficca troppo il naso nelle manovre del potere e nei suoi affari, il secondo che raccontare il narcotraffico e le guerre della droga è il mestiere più pericoloso del mondo.
Ci sono posti in cui, il più simbolico è la Somalia, basta avere l’idea di aprire un giornale e di provare a fare cronaca quotidiana per rischiare di non vedere il tramonto.
In Italia invece la domanda ha tante risposte. Da noi se vuoi vivere tranquillo è consigliato non partire per la Siria, l’Afghanistan, la Libia ma anche non fare inchieste sulla ‘ndrangheta o la camorra e non importa se il tuo lavoro lo fai a Napoli, a Modena, nella Locride o nell’hinterland milanese. Ma non basta. Se vuoi evitare minacce, aggressioni e fastidi lascia perdere pure gli anarco-insurrezionalisti, evita di avere spirito critico ad una manifestazione contro la Tav e non metterti a presentare libri di dissidenti cubani. L’intolleranza verso un’informazione libera e critica ha facce e radici le più diverse tra loro. L’Italia ha poi la variante giudiziaria: da noi il sistema politico e quello affaristico hanno il vizio di usare l’arma delle querele come minaccia e la richiesta di risarcimenti esorbitanti e sproporzionati rispetto all’eventuale danno ricevuto per scoraggiare i cronisti, i direttori e gli editori e per renderli più gentili e «distratti».
Eppure il giornalismo non è mai stato attaccato, sminuito e dileggiato come in questi tempi, in cui viene accusato di essere parte della casta e indicato come complice del decadimento della politica e delle amministrazioni pubbliche. E dire che mai come negli ultimi anni il giornalismo italiano ha messo sotto accusa il sistema dei partiti, denunciando truffe, sprechi e privilegi e che se un’obiezione sarebbe da muovere non è alla timidezza ma alla mancanza di garantismo. L’onda del malessere e un certo qualunquismo dilagante non sembrano però essere capaci di fare distinzione alcuna.
Nell’ottobre dell’anno scorso – anno record per numero di giornalisti uccisi, 121, e incarcerati – ho partecipato a Londra, nella nuova sede della «Bbc», all’incontro tra i rappresentanti di oltre 40 media internazionali per discutere e sottoscrivere un documento in otto punti che parla di sicurezza, riconoscimento, solidarietà internazionale e di fine dell’impunità per chi perseguita o uccide un giornalista. Perché oggi nel mondo nove casi su dieci restano impuniti.
Ma un diverso impegno internazionale, che faccia sentire la pressione dell’opinione pubblica su quei regimi che opprimono la libertà di stampa, può fare la differenza, specie quando si tratta di carcerazioni e minacce. Perché non in tutti i Paesi lo Stato è qualcuno che ti può difendere: mentre illustravo il caso di Roberto Saviano e degli altri giornalisti italiani costretti a vivere sotto scorta sono stato interrotto dalla giornalista russa Galina Sidorova, che ha dato vita a Mosca alla Fondazione per il giornalismo investigativo, con queste parole: «Ma io non potrei mai farmi scortare dalla polizia, in Russia sarebbe la cosa peggiore: non potrei più lavorare liberamente, così sarei continuamente controllata ed è proprio dalla polizia che molti di noi si devono guardare».
A Londra, a rappresentare l’Italia, c’era «La Stampa»: prima di partire mi ero seduto proprio con Domenico Quirico a discutere come si può aumentare la sicurezza dei giornalisti che entrano in zone di guerra. Domenico era reduce da poco più di un anno di un rapimento, avvenuto alle porte di Tripoli alla vigilia della caduta del regime di Gheddafi. Alle mie domande aveva inizialmente opposto un lungo ed eloquente silenzio, perché secondo lui il pericolo non può essere evitato o sterilizzato, sarebbe illusorio pensarlo. «Certo – aveva sottolineato – i giornalisti che hanno una solida organizzazione alle spalle, che non devono barattare la loro sicurezza in nome del risparmio, che hanno la possibilità di lavorare con calma e prepararsi bene, partono un po’ più sereni. Ma per me il vero giornalismo non passerà mai da comitive organizzate e intruppate, difese da guardie armate, che passano e vanno come fossero turisti. Io preferisco essere solo, con le guide locali, per dare meno nell’occhio e lavorare senza farmi notare».
Lo stesso senso del giornalismo che muove Yoani Sánchez, dissidente e giornalista cubana, che intende questo mestiere come il contrario di quello dell’entomologo: «Noi non possiamo stare lontani dalla realtà, osservare dall’alto la vita delle formiche, usando la lente di ingrandimento per avere l’illusione di essere vicini. Noi dobbiamo invece assumere il punto di vista delle formiche, stare con i piedi ben ancorati a terra: essere cronisti del reale».
Per questo oggi, in attesa di pubblicare presto i suoi reportage dalla Siria, vi proponiamo una lunga intervista che Domenico ha rilasciato al mensile «Tracce» prima di partire, in cui è contenuta tutta la sua filosofia di lavoro.
Per questo abbiamo trascritto le convinzioni di Yoani Sánchez così come le ha raccontate domenica scorsa al Festival internazionale di giornalismo di Perugia e abbiamo raccolto le testimonianze di chi vive e scrive sotto il segno del pericolo e della paura, dal Messico alla Russia, dal Pakistan alla Somalia.
Come diceva più di un secolo fa Lord Northcliffe, giornalista e poi editore inglese: «La notizia è quella cosa che qualcuno, da qualche parte, non vuole sia pubblicata. Tutto il resto è pubblicità».
Questo numero speciale è dedicato a tutti quelli che ancora ci credono.
«La Stampa» del 3 maggio 2013
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