I colloqui con i sacerdoti cresciuti fino al 20% prima di Papa Francesco
di Paolo Rodari
L’Italia torna a confessarsi in Chiesa come dal terapeuta
Punto di rottura. O nuovo inizio. Da un anno a questa parte le chiese italiane, in testa i santuari mariani, registrano un fenomeno che pare senza sosta: il ritorno della confessione. Uomini, donne, soprattutto quaranta-cinquantenni, tornano a inginocchiarsi davanti a un sacerdote che, come scrisse nel XIII secolo il chierico inglese Tommaso di Chobham, «siede nel confessionale come Dio e non come uomo». Tornano a chiedere perdono perché — spiega il padre gesuita Francesco Occhetta — vedono soltanto in questo sacramento l’appiglio per rompere col passato, per ricominciare daccapo, fare nuova la propria esistenza». Non si tratta, dunque, di mera espiazione delle colpe. Anche, ma non solo. Né di trovare «una nuova etica» dentro il vivere quotidiano. Si tratta, soprattutto, «di cambiare cammino una volta per tutte». Spesso, dice Occhetta, «i peccati sono dolori che macerano nel profondo. Aborti mai confessati, ad esempio. Il sacramento permette di ricominciare, nonostante il dolore permanga. Ma i peccati sono diversi. E oggi, come secoli fa, è sempre il decalogo a essere disatteso». Dice monsignor Gianfranco Girotti, per anni numero due della Penitenzieria apostolica: «Al di là delle colpe gravi del passato — fra questi anche i tradimenti, le menzogne pronunciate a danno di altri, i torti comminati con l’intento di ferire e fare male — i fedeli cadono principalmente sui sette vizi capitali. È così da sempre: superbia, avarizia, lussuria (qui c’è la dedizione al piacere e al sesso), l’invidia, la gola, l’ira, e l’accidia (che non è depressione, quanto lasciarsi andare al torpore dell’animo fino a provare fastidio per le cose spirituali) albergano nella maggior parte delle confessioni di oggi».
Ancora prima dell’elezione al soglio di Pietro di José Mario Bergoglio, le chiese italiane hanno registrato un aumento di persone che chiedono di confessarsi attestabile circa intorno al venti per cento. Numeri certi non esistono, perché non esistono registri in merito nelle diocesi. Lo scorso febbraio, però, Civiltà Cattolica — la storica rivista italiana dei gesuiti — chiudeva un numero con un articolo intitolato proprio “Il ritorno della confessione”. Lo spunto era l’aumento dei penitenti riscontrato nelle principali basiliche romane, e insieme nei santuari italiani. Un aumento circoscrivibile all’ultimo anno, visibile a occhio nudo semplicemente contando le ore che i confessori hanno dovuto trascorrere chiusi all’interno dei confessionali. «La crisi economica è anzitutto crisi di valori», spiegano i gesuiti della Chiesa del Gesù, in centro a Roma. «Viviamo in una società in cui manca la figura del padre. Negli ultimi mesi la sofferenza causata da questo vuoto si è acuita inesorabilmente. E i nostri confessionali sono tornati a riempirsi. Dietro questo fenomeno c’è una nuova domanda di spiritualità. La domanda preme, finché rompe gli argini e implora risposte».
Point break, lo chiamano i surfisti. «Il punto di rottura di un’anima alla ricerca di Dio», la definisce padre Occhetta.
Dice san Gregorio di Narek, poeta, monaco, teologo e filosofo mistico armeno che «anche nella più oscura cisterna, brucia sempre una piccola fiamma. Voluta da Dio». È questa fiamma che spinge a uscire di casa e a entrare in un confessionale. Ma per dire cosa? Quali i peccati ricorrenti? La risposta non è semplice. Qualche giorno fa Papa Francesco ha ricordato che il confessionale «non è una lavanderia». Molti, evidentemente, la usano così. Un luogo in cui lavare le proprie colpe indicando uno dopo l’altro quali dei dieci comandamenti sono stati disattesi. «Tante volte — dice Bergoglio — pensiamo che andare a confessarci è come andare in tintoria per pulire la sporcizia sui nostri vestiti. Ma Gesù nel confessionale non è una tintoria. Confessarsi è un incontro con Gesù, ma con questo Gesù che ci aspetta, ma ci aspetta come siamo».
Non per tutti confessarsi è smacchiare i vestiti sporchi in una tintoria a gettoni. Esiste anche una tendenza opposta: la confessione come se fosse una seduta di analisi dallo psicologo.
Scrisse anni fa in merito più pagine monsignor Mario Canciani, ai tempi confessore di Giulio Andreotti, spiegando che i penitenti parlano soprattutto di «stress, impazienza e depressione». Dice: «Quasi ne chiedono scusa. Senza rendersi conto che non sono peccati».
Ancora Girotti spiega che «sempre più il confessionale viene usato come luogo in cui parlare di sé, dei propri problemi, in effetti un po’ come se si fosse a una seduta di analisi. Ma al di là di questi casi, e ai casi di coloro che confessano i peccati che potremmo impropriamente definire “classici”, noto che si offende Dio anche per altre vie, ad esempio con azioni di inquinamento sociale, rovinando l’ambiente, compiendo esperimenti scientifici moralmente discutibili. Per non dire poi della sfera dell’etica pubblica dove pure entrano in gioco nuovi peccati come la frode fiscale, l’evasione, la corruzione». Ma quel è il peccato più confessato? Girotti non ha dubbi: «Sempre lui, il peccato contro il sesto comandamento: non commettere atti impuri. La sfera sessuale sembra essere quella più difficile da domare, o forse rode la coscienza più di altre offese». Lo disse ancora Canciani: «Al di là di tutto, il peccato più disatteso resta quello relativo al sesto comandamento. È un peccato che si riferisce alla vita privata della gente. In questo campo, purtroppo, si nota un distacco tra ciò che insegna la Chiesa e il disordine nel quale vivono tante persone. Mi riferisco quindi non solo alla sfera sessuale, ma anche ai divorziati o a situazioni familiari complesse. La Chiesa deve però accogliere tutti con amore».
Recentemente il Centro Studi sulle Nuove Religioni ha pubblicato un’indagine sul sacramento della penitenza a seguito dell’elezione di Papa Francesco. L’insistenza del Papa sulla parola «misericordia» ha spinto molti a tornare a confessarsi, in scia al trend precedente all’elezione. Fra questi, dice l’indagine, tante coppie per la Chiesa «irregolari» che spinte dal “fuoco” di Bergoglio si sono decise per un nuovo cammino.
Aumentano i penitenti, certo, ma diminuiscono i confessori. La crisi di vocazioni sacerdotali rischia sempre più di far sì che la Chiesa non sappia rispondere alla domanda. Così, in alcune diocesi, c’è chi abbozza nuove soluzioni. Una di queste, molto discussa ma prevista dal canone 961 del codice di diritto canonico, è l’assoluzione a più penitenti insieme senza la previa confessione individuale. Il codice dice che essa non può essere impartita se non vi sia imminente pericolo di morte e al sacerdote o ai sacerdoti non basti il tempo per ascoltare le confessioni dei singoli penitenti. Insieme, può essere concessa se «vi sia grave necessità, ossia quando, dato il numero dei penitenti, non si ha a disposizione abbondanza di confessori per ascoltare, come si conviene, le confessioni dei singoli entro un tempo conveniente». La pratica comunitaria nacque in Belgio, nel 1947-48, in una comune parrocchia di operai. Durante la messa i fedeli, su invito del sacerdote, riflettevano sui propri peccati, se ne pentivano e venivano collettivamente assolti. Poi il Concilio Vaticano II ricalibrò la spinta, ribadendo che la confessione auricolare resta l’unica via di remissione dei peccati gravi. Ma intanto il ritorno alla confessione individuale da parte di molti fedeli lascia in secondo piano altre dispute. Anche perché, come scrive sempre Civiltà Cattolica, coloro che tornano a confessarsi lo fanno dopo aver dialogato «con la propria coscienza». Dice la rivista: «Si assiste a un ritorno silenzioso ma significativo alla confessione da parte della generazione dei quarantenni e cinquantenni, che ridanno valore al sacramento, a volte dopo anni di lontananza. Coloro che ritornano a confessarsi dichiarano di averlo fatto dopo aver riletto il Vangelo, dialogato con la voce della propria coscienza, incontrato testimoni credenti e credibili».
Ancora prima dell’elezione al soglio di Pietro di José Mario Bergoglio, le chiese italiane hanno registrato un aumento di persone che chiedono di confessarsi attestabile circa intorno al venti per cento. Numeri certi non esistono, perché non esistono registri in merito nelle diocesi. Lo scorso febbraio, però, Civiltà Cattolica — la storica rivista italiana dei gesuiti — chiudeva un numero con un articolo intitolato proprio “Il ritorno della confessione”. Lo spunto era l’aumento dei penitenti riscontrato nelle principali basiliche romane, e insieme nei santuari italiani. Un aumento circoscrivibile all’ultimo anno, visibile a occhio nudo semplicemente contando le ore che i confessori hanno dovuto trascorrere chiusi all’interno dei confessionali. «La crisi economica è anzitutto crisi di valori», spiegano i gesuiti della Chiesa del Gesù, in centro a Roma. «Viviamo in una società in cui manca la figura del padre. Negli ultimi mesi la sofferenza causata da questo vuoto si è acuita inesorabilmente. E i nostri confessionali sono tornati a riempirsi. Dietro questo fenomeno c’è una nuova domanda di spiritualità. La domanda preme, finché rompe gli argini e implora risposte».
Point break, lo chiamano i surfisti. «Il punto di rottura di un’anima alla ricerca di Dio», la definisce padre Occhetta.
Dice san Gregorio di Narek, poeta, monaco, teologo e filosofo mistico armeno che «anche nella più oscura cisterna, brucia sempre una piccola fiamma. Voluta da Dio». È questa fiamma che spinge a uscire di casa e a entrare in un confessionale. Ma per dire cosa? Quali i peccati ricorrenti? La risposta non è semplice. Qualche giorno fa Papa Francesco ha ricordato che il confessionale «non è una lavanderia». Molti, evidentemente, la usano così. Un luogo in cui lavare le proprie colpe indicando uno dopo l’altro quali dei dieci comandamenti sono stati disattesi. «Tante volte — dice Bergoglio — pensiamo che andare a confessarci è come andare in tintoria per pulire la sporcizia sui nostri vestiti. Ma Gesù nel confessionale non è una tintoria. Confessarsi è un incontro con Gesù, ma con questo Gesù che ci aspetta, ma ci aspetta come siamo».
Non per tutti confessarsi è smacchiare i vestiti sporchi in una tintoria a gettoni. Esiste anche una tendenza opposta: la confessione come se fosse una seduta di analisi dallo psicologo.
Scrisse anni fa in merito più pagine monsignor Mario Canciani, ai tempi confessore di Giulio Andreotti, spiegando che i penitenti parlano soprattutto di «stress, impazienza e depressione». Dice: «Quasi ne chiedono scusa. Senza rendersi conto che non sono peccati».
Ancora Girotti spiega che «sempre più il confessionale viene usato come luogo in cui parlare di sé, dei propri problemi, in effetti un po’ come se si fosse a una seduta di analisi. Ma al di là di questi casi, e ai casi di coloro che confessano i peccati che potremmo impropriamente definire “classici”, noto che si offende Dio anche per altre vie, ad esempio con azioni di inquinamento sociale, rovinando l’ambiente, compiendo esperimenti scientifici moralmente discutibili. Per non dire poi della sfera dell’etica pubblica dove pure entrano in gioco nuovi peccati come la frode fiscale, l’evasione, la corruzione». Ma quel è il peccato più confessato? Girotti non ha dubbi: «Sempre lui, il peccato contro il sesto comandamento: non commettere atti impuri. La sfera sessuale sembra essere quella più difficile da domare, o forse rode la coscienza più di altre offese». Lo disse ancora Canciani: «Al di là di tutto, il peccato più disatteso resta quello relativo al sesto comandamento. È un peccato che si riferisce alla vita privata della gente. In questo campo, purtroppo, si nota un distacco tra ciò che insegna la Chiesa e il disordine nel quale vivono tante persone. Mi riferisco quindi non solo alla sfera sessuale, ma anche ai divorziati o a situazioni familiari complesse. La Chiesa deve però accogliere tutti con amore».
Recentemente il Centro Studi sulle Nuove Religioni ha pubblicato un’indagine sul sacramento della penitenza a seguito dell’elezione di Papa Francesco. L’insistenza del Papa sulla parola «misericordia» ha spinto molti a tornare a confessarsi, in scia al trend precedente all’elezione. Fra questi, dice l’indagine, tante coppie per la Chiesa «irregolari» che spinte dal “fuoco” di Bergoglio si sono decise per un nuovo cammino.
Aumentano i penitenti, certo, ma diminuiscono i confessori. La crisi di vocazioni sacerdotali rischia sempre più di far sì che la Chiesa non sappia rispondere alla domanda. Così, in alcune diocesi, c’è chi abbozza nuove soluzioni. Una di queste, molto discussa ma prevista dal canone 961 del codice di diritto canonico, è l’assoluzione a più penitenti insieme senza la previa confessione individuale. Il codice dice che essa non può essere impartita se non vi sia imminente pericolo di morte e al sacerdote o ai sacerdoti non basti il tempo per ascoltare le confessioni dei singoli penitenti. Insieme, può essere concessa se «vi sia grave necessità, ossia quando, dato il numero dei penitenti, non si ha a disposizione abbondanza di confessori per ascoltare, come si conviene, le confessioni dei singoli entro un tempo conveniente». La pratica comunitaria nacque in Belgio, nel 1947-48, in una comune parrocchia di operai. Durante la messa i fedeli, su invito del sacerdote, riflettevano sui propri peccati, se ne pentivano e venivano collettivamente assolti. Poi il Concilio Vaticano II ricalibrò la spinta, ribadendo che la confessione auricolare resta l’unica via di remissione dei peccati gravi. Ma intanto il ritorno alla confessione individuale da parte di molti fedeli lascia in secondo piano altre dispute. Anche perché, come scrive sempre Civiltà Cattolica, coloro che tornano a confessarsi lo fanno dopo aver dialogato «con la propria coscienza». Dice la rivista: «Si assiste a un ritorno silenzioso ma significativo alla confessione da parte della generazione dei quarantenni e cinquantenni, che ridanno valore al sacramento, a volte dopo anni di lontananza. Coloro che ritornano a confessarsi dichiarano di averlo fatto dopo aver riletto il Vangelo, dialogato con la voce della propria coscienza, incontrato testimoni credenti e credibili».
«La repubblica» del 13 maggio 2013
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