I nostri adolescenti, anno 2013
di Pietro Citati
La cosa singolare è che parlano bene e che magari leggono anche tanti bei volumi
Per caso e per parentele, conosco molti ragazzi di dodici, tredici, quattordici, quindici anni. Sono incantevoli. Ciò che amo in loro è specialmente il fatto che non portano il peso della adolescenza, come molto spesso accadeva a me e ai miei amici, tantissimi anni fa. Per loro, l'adolescenza è una festa, un gioco: qualcosa di aereo e leggero, che essi inseguono velocemente senza raggiungerlo mai.Sono molto intelligenti: la mente li porta verso tantissimi oggetti; ogni oggetto suscita il loro interesse, senza esaurirsi. Leggono molto: uno di loro mi ha confessato, quasi vergognandosi, di aver letto quattro volte Il conte di Montecristo e due volte Delitto e castigo, libri che sciocchi adulti cercavano di togliere dalle loro mani, dicendo che «non erano adatti alla loro età». In realtà, erano adattissimi, perché assomigliavano alla loro intelligenza drammatica, ironica, paradossale.I ragazzi del 2013 hanno un difetto. Non sanno scrivere in italiano. Talvolta lasciano cadere sulla pagina espressioni divertenti e felici, che però si smarriscono e si disperdono subito. Non hanno il dono della sintassi: non sanno costruire un pensiero, seguendo le sue fasi e i suoi sviluppi interiori, passando scioltamente e velocemente da un punto all'altro, possedendo quell'armonia che la mente deve conoscere anche nei luoghi più ardui e convulsi. La loro pagina è un ammasso di parole, un groviglio di espressioni indeterminate e confuse. Non riescono a disporre i segni di punteggiatura: un punto, una virgola, un punto e virgola sono per loro esattamente la stessa cosa, appunto perché non posseggono il senso del ritmo e della separazione. Tutto lascia credere che non impareranno mai a scrivere con decoro: divenuti adulti, studenti all'università, o assunti in un posto di lavoro, continueranno a confondere il pensiero, ingarbugliando la sintassi e moltiplicando inutilmente le cerniere mentali.La cosa singolare è che parlano bene, con proprietà, lucidità, sveltezza: la parola parlata rivela la costruzione interiore dei loro pensieri; appena prendono in mano la penna o il computer, accade il disastro. Non sono certo della ragione di questo fenomeno. Come molti suggeriscono, essi sembrano aver abbandonato la civiltà scritta, mentre nuotano liberamente e felicemente in quella orale, che li affascina in mille modi. Ma è singolare che i molti libri letti non agiscano in nessun modo sui loro doni espressivi. In ogni caso, è un fenomeno gravissimo. Qualsiasi cultura ha bisogno di un fondamento scritto. Anche la civiltà omerica, che era molto più orale della nostra, scoprì un'espressione scritta di mirabile precisione e armonia, sebbene semplificasse la sintassi e la rendesse implicita.Non invidio i professori delle scuole medie, che ogni giorno si trovano di fronte a questo crollo e quasi scomparsa della tradizione scritta. Così in Gallia, nel sesto secolo, Gregorio di Tours compose la Historia Francorum violando barbaramente qualsiasi forma di sintassi latina. Il latino riprese la sua costruzione e la sua bellezza trecento anni più tardi, nella mirabile prosa di Giovanni Scoto. È probabile che l'italiano scritto ritrovi miracolosamente il suo splendore: perché è ancora pieno di forze e nutrimenti nascosti. Ma, intanto, cosa possono fare i professori delle medie coi loro allievi intelligenti e asintattici? Credo che ci sia una sola strada: far riassumere di continuo i romanzi e i racconti che essi hanno letto. Saper riassumere è un grande dono: si imita e si comprende una bella forma espressiva, la si scorcia robustamente, mentre si rispettano le sue proporzioni interiori.
«Corriere della Sera» del 29 aprile 2013
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