di Sebastiano Maffettone
Adoro il puzzo stantio delle vecchie librerie, e scartabellare tra i volumi, anche in una bancarella, mi riempie di gioia. Tuttavia, compro il novanta per cento dei libri in rete su Amazon. YouTube e simili hanno smantellato l’industria discografica e oramai le canzoni si ascoltano e si acquistano con il computer. Lo stesso sta succedendo negli Stati Uniti, e c’è da giurarlo tra poco anche da noi, con Netflix e il cinema. L’informazione tradizionale e l’università sempre più risentono della concorrenza in rete, così come paghiamo le bollette delle nostre utenze via web e non c’è ditta o attività commerciale che non apra un bel sito da cui acquistare. La finanza poi è addirittura impensabile senza la rete. Persino le religioni oramai ne fanno largo uso: il Papa twitta, e il culto che fa più nuovi proseliti nel mondo, l’Evangelismo, è quella che ha più antica dimestichezza col web. Insomma, sopravvalutare la rilevanza della rete è difficile.
Come dubitare allora che una rivoluzione del genere non finisca per cambiare anche la politica? D’altronde casi che lo mostrano non mancano, e senza distinzione di razza e cultura. La primavera araba non meno che Occupy Wall Street , gli indignados spagnoli e i cinquestellati italiani, la campagna presidenziale di Obama e quanto succede in questi giorni in Ucraina, in maniera diversa caso per caso lo confermano. Sono stato così felice di partecipare ad Alpis - un seminario di studiosi di tecnologie digitali con particolare focus sulla progettazione partecipata - per avere l’opportunità di discutere con scienziati tecnici di temi e problemi di assoluta rilevanza come quelli che riguardano le conseguenze politiche e istituzionali della trasformazione legata all’impatto della digitalizzazione nel nostro mondo.
Fenomeni tanto pervasivi generano reazioni culturali spesso radicali, che condannano il mondo della tecnologia informatica come una fonte di pura alienazione. Per persone meno estremiste culturalmente parlando, un compito importante rimane quello di analizzare i mutamenti nell’ecologia istituzionale (il termine è di Yochai Benkler) all’interno di una società liberal-democratica. Il che, detto in un italiano più leggibile, equivale a cercare di capire che cosa sta cambiando e su quale base nei rapporti di forza tra individui, gruppi e istituzioni. Sin dall’inizio l’età della rete è stata vista da molti come una speranza per la democrazia, una democrazia spesso malata. Si è creduto così che la possibilità da parte del pubblico di partecipare alla vita democratica aumentasse a dismisura attraverso la rete. Dopotutto, strutturare una opinione pubblica rilevante in rete costa assai meno di quanto non costi edificare un network televisivo. Ma c’è anche chi ha temuto l’avvento prossimo venturo di monopoli dell’informazione digitali, nuove e potentissime istanze del Grande Fratello, che tutto sanno sulle nostre preferenze, gusti e valori.
Ma fin qui siamo ancora a livello di distinzioni preliminari troppo generali. È invece più interessante rovistare nei lavori degli informatici per sapere effettivamente che prospettive reali ci sono. Fiorella De Cindio, informatica dell’Università di Milano, propone un modello di habitat digitale che è stato già in parte sperimentato in campagne elettorali. Si tratta di costituire innanzitutto un’architettura di sistema che permetta la partecipazione diffusa della cittadinanza agli eventi politici in termini di quella che i teorici della politica chiamano democrazia deliberativa. Qualcosa del genere presuppone la cooperazione al progetto da parte di scienziati sociali. Un habitat digitale appropriato richiede infatti la compresenza di persone e gruppi esterni alla rete con quelli che invece sono online. Una volta accertata la trasparenza della procedura, tocca agli scienziati sociali concettualizzare l’identità degli utenti, le loro motivazioni, il senso della partecipazione politica, la maniera in cui il pubblico vede la comunità, le possibilità degli individui di accedere alle procedure online e così via. Tutto ciò dovrebbe fare emergere progressivamente gli interessi pre-politici dei soggetti coinvolti per vedere come essi siano in rapporto con l’offerta politica del momento.
Procedure e modelli come questi possono essere adoperati con diversi scopi. Si può pensare che la rappresentanza tradizionale sia definitivamente morta, e che i gruppi online debbano votare volta per volta sui dilemmi politici senza vincoli di lealtà politica precedente e senza coerenza tra una votazione e l’altra. Oppure, più moderatamente, si può ritenere che le forze politiche tradizionali abbiano bisogno di un’iniezione di fiducia per essere rivitalizzate. Comunque la si pensi, la ricerca di nuovi spazi di democrazia deliberativa - tra cui quelli in rete - sembra essere una necessità e non un lusso in momenti di crisi politica.
Come dubitare allora che una rivoluzione del genere non finisca per cambiare anche la politica? D’altronde casi che lo mostrano non mancano, e senza distinzione di razza e cultura. La primavera araba non meno che Occupy Wall Street , gli indignados spagnoli e i cinquestellati italiani, la campagna presidenziale di Obama e quanto succede in questi giorni in Ucraina, in maniera diversa caso per caso lo confermano. Sono stato così felice di partecipare ad Alpis - un seminario di studiosi di tecnologie digitali con particolare focus sulla progettazione partecipata - per avere l’opportunità di discutere con scienziati tecnici di temi e problemi di assoluta rilevanza come quelli che riguardano le conseguenze politiche e istituzionali della trasformazione legata all’impatto della digitalizzazione nel nostro mondo.
Fenomeni tanto pervasivi generano reazioni culturali spesso radicali, che condannano il mondo della tecnologia informatica come una fonte di pura alienazione. Per persone meno estremiste culturalmente parlando, un compito importante rimane quello di analizzare i mutamenti nell’ecologia istituzionale (il termine è di Yochai Benkler) all’interno di una società liberal-democratica. Il che, detto in un italiano più leggibile, equivale a cercare di capire che cosa sta cambiando e su quale base nei rapporti di forza tra individui, gruppi e istituzioni. Sin dall’inizio l’età della rete è stata vista da molti come una speranza per la democrazia, una democrazia spesso malata. Si è creduto così che la possibilità da parte del pubblico di partecipare alla vita democratica aumentasse a dismisura attraverso la rete. Dopotutto, strutturare una opinione pubblica rilevante in rete costa assai meno di quanto non costi edificare un network televisivo. Ma c’è anche chi ha temuto l’avvento prossimo venturo di monopoli dell’informazione digitali, nuove e potentissime istanze del Grande Fratello, che tutto sanno sulle nostre preferenze, gusti e valori.
Ma fin qui siamo ancora a livello di distinzioni preliminari troppo generali. È invece più interessante rovistare nei lavori degli informatici per sapere effettivamente che prospettive reali ci sono. Fiorella De Cindio, informatica dell’Università di Milano, propone un modello di habitat digitale che è stato già in parte sperimentato in campagne elettorali. Si tratta di costituire innanzitutto un’architettura di sistema che permetta la partecipazione diffusa della cittadinanza agli eventi politici in termini di quella che i teorici della politica chiamano democrazia deliberativa. Qualcosa del genere presuppone la cooperazione al progetto da parte di scienziati sociali. Un habitat digitale appropriato richiede infatti la compresenza di persone e gruppi esterni alla rete con quelli che invece sono online. Una volta accertata la trasparenza della procedura, tocca agli scienziati sociali concettualizzare l’identità degli utenti, le loro motivazioni, il senso della partecipazione politica, la maniera in cui il pubblico vede la comunità, le possibilità degli individui di accedere alle procedure online e così via. Tutto ciò dovrebbe fare emergere progressivamente gli interessi pre-politici dei soggetti coinvolti per vedere come essi siano in rapporto con l’offerta politica del momento.
Procedure e modelli come questi possono essere adoperati con diversi scopi. Si può pensare che la rappresentanza tradizionale sia definitivamente morta, e che i gruppi online debbano votare volta per volta sui dilemmi politici senza vincoli di lealtà politica precedente e senza coerenza tra una votazione e l’altra. Oppure, più moderatamente, si può ritenere che le forze politiche tradizionali abbiano bisogno di un’iniezione di fiducia per essere rivitalizzate. Comunque la si pensi, la ricerca di nuovi spazi di democrazia deliberativa - tra cui quelli in rete - sembra essere una necessità e non un lusso in momenti di crisi politica.
«Corriere della Sera» del 25 febbraio 2014