15 febbraio 2014

Foibe, la censura continua?

L'anniversario
di Paolo Simoncelli
C’è una faziosità atavica nella cultura politica che, comprensibilmente, di­venta rancore ottuso al momento in cui l’accer­tamento storico-critico investe il Moloch irragio­nevolmente granitico e violento della 'vul­gata' resistenziale.
Un’isteria e un’insistenza banalmente pro­vocatoria dell’affronto si risveglia in due cir­costanze: al ricordo dell’eliminazione, ad opera di partigiani comunisti, dei partigia­ni cattolici della «Osoppo» a Porzus nel feb­braio 1944, uomini colpevoli di difendere territorio e popolazioni italiane dal disegno annessionistico titino; e il ricordo dei mas­sacri degli italiani della Venezia Giulia, I­stria, Dalmazia, da parte dei titini nel set­tembre 1943 e dalla primavera del ’45.
La firma del Trattato di pace, imposto all’I­talia dai vincitori (che non tennero il mini­mo conto della «cobelligeranza», delle for­ze della Resistenza, eccetera) il 10 febbraio 1947, non fu privo di reazioni negative, an­che da parte di esponenti antifascisti che vanamente si opposero a quelle clausole. Seguì l’esodo di 350 mila italiani dall’A­driatico orientale; quegli antichi filmati in bianco e nero che mostravano lo sradica­mento violento di radici culturali e socio­economiche, e lo spezzamento di famiglie tra giovani che potevano ancora aspirare alla vita e anziani condannati alla non spe­ranza nel regime comunista slavo, sono sta­te allora interpretate come testimonianze di fascismo o revanscismo da parte di quanti non accettavano un’analisi storica artico­lata di quelle vicende. Un progressivo mo­nopolio ideologico-culturale assolutizzan­te fino a controllare la memoria storica e le relative fonti di diffusione, con la compli­cità opportunistica e vile di un’intera clas­se politica, impose il silenzio.
Nelle foibe, testimonianze atroci di pulizia etnica anti-italiana (in cui persero la vita decine di migliaia di italiani), furono preci­pitate allora le testimonianze e la memoria dei reduci, dei sopravvissuti, degli scampa­ti. Achille Occhetto ha dichiarato pochi gior­ni fa di aver «appreso del dramma delle foi­be solo dopo la 'svolta della Bolognina'. Prima non ne ero mai venuto a conoscen­za »; testimone con ciò dello straordinario successo dell’operazione-silenzio. Occor­sero 70 anni per giungere a riparlarne fuo­ri dai piccoli, riservati circuiti degli esuli. Giusto dieci anni fa, il Parlamento votò pressoché all’unanimità la legge 92/2004 che dedicava il 10 febbraio, ricorrenza del­la firma del Trattato di pace, alla «memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giulia­no-dalmata, delle vicende del confine o­rientale ». Apparvero timide lapidi di ricor­do e qualche via o parco intitolato alle vit­time delle foibe; lapidi subito infrante: alto il rischio di ricordare, anche da semplicissime righe, che l’impianto ideologico co­struito e imposto a difesa dell’indifendibi­le non poteva consentire di sbirciare oltre l’epicizzazione comunista, meno che mai accertare fatti tramandati da lapidi e mo­numenti falsi, medaglie con motivazioni fa­risaiche, in un sistema complesso di rigo­rosa vigilanza ideologica interna e internazionale.
Sperimentato persino dal presidente Na­politano che, coraggiosamente, in occasio­ne del suo primo «Giorno del Ricordo» ce­lebrato da capo dello Stato, ricordò quelle «miriadi di tragedie e di orrori» conseguenti a «un disegno annessionistico slavo», richiamando all’assunzione della «responsa­bilità dell’aver negato, o teso ad ignorare, la verità». Seguirono reazioni insultanti del­l’allora presidente croato Mesic, capace di scorgere in quelle parole «elementi di a­perto razzismo, revisionismo storico e re­vanscismo politico». Nient’altro!
Oggi, di fronte all’accettazione diffusa d’u­na realtà non più silenziabile (malaugurato crollo del muro di Berlino!), cambia il metodo: ciò che non è più nascondibile va allora ascritto alle precedenti responsabilità fasciste, talmente gravi e violente da giu­stificare una reazione slava. Ma se ne sono accorti solo ora? Perché non dirlo nei de­cenni del silenzio forzoso? Allora è stato si­lenziato persino l’antifascismo. Comunque attenzione: che il poi sia deter­minato da un prima non cronologico ma causale l’aveva detto anche Nolte, denun­ciando il nazismo come reazione al comu­nismo e il lager come conseguente al gulag. Non ebbe vita facile, ma può contare ora su un po’ di attardati seguaci. Basta, comun­que, col mito degli «italiani brava gente» (anche se occorrerà reinterpretare Nuto Re­velli, il quale incautamente ricordava che in guerra, nell’Unione Sovietica di Beppe Stalin, i soldati tedeschi presi prigionieri ve­nivano fucilati sul posto, gli italiani avviati ai lavori forzati).
Simone Cristicchi, da sinistra, dà vita ad u­no spettacolo toccante, dedicato alle speranze estreme e alle vite degli esuli italiani racchiuse in qualche scatolone ammassa­to a Trieste nel «Magazzino 18»; grande pathos e grandi riconoscimenti critici; be­ne, immediate proposte perché gli venga ri­tirata la tessera ad onore dell’Anpi. E allo­ra altrove va in scena Io odio gli italiani, pié­ce sulla drammatica vita nei campi di con­centramento italiani da Gonars ad Arbe (chissà se anche sulle testimonianze degli ebrei qui internati?). Iniziative sospette di puntuale opportunismo, utile a creare il «caso» e dunque a godere di qualche ri­chiamo di cronaca, e di banale prevedibi-­lità, che testimoniano del successo del «Giorno del Ricordo»; come una lapide in­franta: al silenzio lacerato segue la violen­za. Hanno perso.
«Avvenire» dell'8 febbraio 2014

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