29 agosto 2013

La lotta alle discriminazioni non si fa con intimidazioni arroganti

L'ingiustificabile attacco dello psicologo Palma al giurista Cerrelli
di Francesco D'Agostino
Non voglio entrare nel merito di un problema che non domino (ma che dubito sia davvero dominabile da parte di chicchessia) e cioè se l’omosessualità possa essere “curata” e se il disagio esistenziale di cui (alcuni ) omosessuali soffrono li renda meritevoli di aiuto. Questa opinione, esposta da Giancarlo Cerrelli in una trasmissione televisiva, è stata ritenuta «omofoba» e lo ha esposto a una serie di violenti attacchi, alcuni molto rozzi e sanguigni, come quelli provenienti da movimenti gay.
Tra questi attacchi, non rozzo, ma assolutamente ingiustificabile, si colloca l’intervento di Giuseppe Luigi Palma, presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi. Palma non solo ha stigmatizzato come «scientificamente priva di fondamento» l’affermazione che l’orientamento sessuale di una persona si possa modificare, ma ha aggiunto che si tratta di un’affermazione «portatrice di un pericoloso pregiudizio sociale». Palma avrebbe dovuto essere più prudente e ricordarsi della sferzante affermazione di Lacan: «Degli omosessuali si parla. Gli omosessuali li si cura. Gli omosessuali non li si guarisce. E quello che c’è di più formidabile è che non li si guarisce nonostante siano assolutamente guaribili». Potranno non andare tanto di moda oggi, ma le tesi di Lacan e dei “neofreudiani”, che non hanno timore di considerare patologica (non immorale, né perversa) l’omosessualità, andrebbero prese più sul serio.
Così come andrebbe ricordato che, quando nell’ormai lontanissimo 1973 l’American Psychiatric Association ha cancellato l’omosessualità dal novero delle psicopatologie, la questione è stata semplicemente rimossa, non risolta, tanto più che questa cancellazione non avvenne a seguito di un adeguato dibattito scientifico, ma solo esortando – in modo epistemologicamente discutibile – gli iscritti all’Associazione a esprimersi, attraverso un voto, sull’opportunità di continuare a considerare l’omosessualità alla stregua di una malattia di rilevanza psichiatrica. Su di una piattaforma di diecimila votanti (che ovviamente inglobava gli iscritti all’Associazione che non vollero partecipare al voto) si riscontrò una maggioranza non entusiasmante del 58% a favore della cancellazione dell’omosessualità dal celebre e contestato DSM, cioè dal manuale ufficiale di diagnostica dell’Associazione. Il rilievo mediatico della votazione ha indubbiamente messo in ombra la questione della sua consistenza scientifica.
Il punto più rilevante delle dichiarazioni del dottor Palma non è però quello che concerne la possibilità di considerare patologica o comunque fonte di disagio l’omosessualità, ma il fatto che, a suo avviso, chi osi esprimere questa opinione (ancorché condivisa da illustri studiosi) contribuirebbe ad attivare un «pericoloso pregiudizio sociale» contro gli omosessuali. Il dottor Palma non si rende evidentemente conto di come egli stia (mi auguro inconsapevolmente) portando acqua a un assurdo paradigma che porta alla dogmatizzazione del sapere: un paradigma, all’interno del quale alcune affermazioni, come appunto quelle che sostenessero che l’omosessualità è una malattia, andrebbero ritenute non solo fallaci (ma sappiamo che nella scienza tutte le teorie sono potenzialmente fallaci!), ma meritevoli di stigmatizzazione e repressione sociale, se non addirittura penale. Invece di esporre le ragioni per le quali si dovrebbero ritenere erronee le teorie di Giancarlo Cerrelli (e di altri che si muovono nella stessa direzione), Palma le espone al pubblico vituperio, dando per scientificamente consolidato e incontrovertibile ciò che non lo è affatto.
Se l’intenzione del presidente dell’Associazione psicologi è di non contribuire in alcun modo al possibile ulteriore diffondersi dell’omofobia, non potrebbe realizzarsi in un modo peggiore di questo, attraverso cioè arroganti intimidazioni (pseudo)-epistemologiche. Palma si sta in realtà rivelando un alleato prezioso di quanti ritengono che il vero obiettivo di una legge contro l’omofobia sia quello di imbavagliare la libertà di ricerca scientifica e più in generale di libera manifestazione del pensiero. Meraviglia (e non poco) che proprio uno psicologo non arrivi a capire quanto sia delicato questo punto.
«Avvenire» del 29 agosto 2013

28 agosto 2013

Canzonissima

di Massimo Gramellini
Ieri era la storia dei due coniugi ottuagenari che dopo una vita attraversata insieme si spengono a undici ore di distanza l’uno dall’altro. Oggi è quella di Fred, centenario stonato dell’Illinois che scrive una canzone sulla moglie appena scomparsa, la spedisce a un concorso per musicisti esordienti e lo vince. Il video di «Oh sweet Lorraine», affidato alla voce vagamente melensa di qualche gorgheggiatore professionista e scandito dalle fotografie di un amore durato settantacinque anni, sta provocando proditori attacchi di commozione sul web.
Bestia contraddittoria, l’uomo. Soffre i legami stabili, li irride persino, ma ne è affascinato fino alle lacrime. Non perché confronta la vita pianeggiante di una coppia eterna alle montagne russe della propria esistenza, ma al contrario perché avverte le difficoltà dell’impresa. Quei campioni di longevità sentimentale gli appaiono i cavalieri di un poema epico. Dietro le loro gesta intuisce la pazienza nel sottoporre l’energia rivoluzionaria dell’amore nascente a manutenzioni continue, la capacità di accettare e accettarsi, di adattarsi e perdonare. Immagina ombre e precipizi, fughe e retromarce, tradimenti e rinunce, malattie e scelte sofferte. Un susseguirsi di avventure domestiche che nulla ha da invidiare ai combattimenti coi draghi o ai rischi affrontati da un guerriero o da un acrobata. I Fred e le Sweet Lorraine non hanno vissuto felici e contenti, come tendono un po’ troppo a semplificare le favole. Però hanno vissuto. E forse è proprio questa consapevolezza, inesprimibile con le parole, che muove alle lacrime chi li osserva.
«La Stampa» del 28 agosto 2013

Marte & Venere

Le rette parallele non si incontrano mai, nemmeno quando decidono di vivere insieme
di di Annalena Benini
Due rette parallele un giorno decidono di andare a vivere insieme, pensano che magari riusciranno a incrociarsi, perché è vero che lei non sa leggere le cartine e lui si rifiuta di chiedere indicazioni, ma la vita insieme è un’altra cosa. Un uomo e una donna pensano che si incontreranno (e in effetti succede, sotto lo stesso tetto), ma ognuno porta in dote pensieri paralleli, e le cose che si aspetta lei non saranno quasi mai quelle che ha in mente lui. Il sociologo e scrittore francese Jean-Claude Kaufmann, specialista di coppie e di vita quotidiana, dice che fra un uomo e una donna, è sempre la donna a essere più coinvolta. “Le si scatena l’impegno”, nonostante la libertà, l’indipendenza, la modernità: una donna entra in una casa pensando “famiglia”; nello stesso istante un uomo pensa: “Beh, vediamo un po’ che succede”. Non è una lamentela, non è un’accusa, è uno studio francese che racconta due mondi mentali diversi, in cui il capobranco è sempre una donna (“L’ottanta per cento dei compiti familiari sono suoi”, dice Kaufmann), mentre l’uomo ha un atteggiamento più freddo, e anche meno irritabile: gli va bene tutto, non cascherà il mondo se la doccia si rompe o se ci sono le formiche in cucina (almeno all’inizio), o se lei si dimentica una data importante.
Un uomo è meno esigente, una donna entra in una vita a due portandoci qualche miliardo di esigenze e di speranze: sarà una vita meravigliosa, ci ameremo, ci parleremo, lui mi capirà, non finiremo come quei due nel tavolo in fondo, che controllano Twitter sui rispettivi telefoni. Mentre lei mentalmente ridisegna l’universo, fissa obiettivi, sospira davanti a coppie di anziani sulla spiaggia che si tengono per mano, lui pensa: ci sarà una birra in frigo?, però se mi ha buttato via i giornali di ieri la lascio. E così, “il novantanove per cento delle arrabbiature è di sesso femminile”. Perché lei si aspettava di più, e lui si addormenta davanti alla televisione invece di discutere fino a notte fonda del significato, del percorso, degli aggiustamenti e della complessità di loro due insieme. “Chi è felice ha ragione”, pensa lui, semplicemente, mentre lei pensa alle correnti gravitazionali, al matrimonio, all’intensità che è già diminuita e a quelle giacche buttate su ogni sedia, come un’installazione, e non appese nell’armadio.
“Il desiderio di una donna la porta a desiderare un uomo che si comporti come una donna, che mette l’amore prima di tutto, e così spesso rimane delusa”, dice Kaufmann. Allora gli dice: parliamo. E lui strabuzza gli occhi, afferra il telecomando, si mette a ridere, ordina una pizza. E’ la differenza: lui può restare adolescente fino a cinquant’anni, dicono questi studiosi francesi particolarmente tifosi della squadra maschile, lei ha bisogno di ancoraggi, risposte, domande, concentrazione emotiva. Le due rette parallele sono destinate, insomma, a non incontrarsi mai, nemmeno quando ci si incontra ogni mezz’ora in cucina, nemmeno quando si fanno i figli insieme (in quel momento, sostiene Kaufmann, la coppia sparisce e compaiono i genitori) ed è anche grazie a questo contrasto che si riesce a divertirsi e a disperarsi. “Ma il mistero più grande sai qual è? E’ perché due stanno insieme per una vita, come noi. E’ questa la Cosa Occulta che vorrei poter dire, ed è diversa dalla tua versione e dalla mia”, ha scritto Raffaele La Capria in un racconto intitolato “La vita sommersa e quella salvata”. La tua versione e la mia non saranno mai le stesse, per fortuna, nemmeno quando entreremo in una casa insieme per la prima volta: io correrò alle finestre, tu misurerai con la mente l’ampiezza del divano.
«Il Foglio» del 18 luglio 2013

Fatta la legge, i gay in Europa non si sposano più. Lo dicono i numeri

di Roberto Volpi
“After ten years of same-sex marriage, approximately 9 out of 10 gay and lesbian people in the Netherlands have still not chosen to enter a legal marriage”. E’ la conclusione cui approda uno studio di William C. Duncan dell’Institute for Marriage and Public Policy condotto a dieci anni dall’introduzione in Olanda del matrimonio omosessuale (nel 2001). Nello stesso studio si dà conto, riportando il parere di Vera Bergkamp, “head of a Dutch gay rights organization”, della mancanza di entusiasmo per il matrimonio omosessuale in quello che è “il primo paese al mondo a riconoscere il matrimonio omosessuale”. E questo è precisamente il punto. Il matrimonio omosessuale, quantitativamente parlando, sta disattendendo le attese. Non ha sfondato in Olanda. In Spagna, dopo la punta di oltre 4 mila nel 2006, primo anno dopo l’approvazione nel 2005, la cifra dei matrimoni omosessuali si è assestata sopra i 3 mila senza più superare i 3.500 all’anno: cifre nettamente inferiori anche rispetto alla più contenuta delle previsioni. Stesso andamento in Inghilterra: boom nel primo anno (anche lì il 2006) dopo quello dell’approvazione, poi un calo progressivo e un assestamento che ha portato i “same-sex marriage” a pesare per poco più del due per cento sul totale dei matrimoni. Proporzione del 2 per cento attorno alla quale si assestano, e spesso al di sotto, anche gli altri paesi europei dov’è stato introdotto.
Mancanza di entusiasmo, dunque. “Lack of nuptial enthusiasm among gay couples”, come la definisce Vera Bergkamp, che cerca di darsene una spiegazione. Anzi, tre. Minore pressione sugli omosessuali esercitata da famiglia e amici; meno coppie gay che si sposano per avere bambini delle corrispondenti coppie eterosessuali; più individualismo e meno orientamento alla famiglia tra molti omosessuali.
Onestamente, tre ragioni che per un verso sanno di acqua fresca e per l’altro di giustificazione a posteriori. In conclusione: nel tempo della drammatica caduta del matrimonio eterosessuale gli omosessuali, dopo l’orgoglio, la lotta, il riconoscimento, il giubilo per la vittoria del riconoscimento del “diritto a sposarsi” si sposano assai meno di quanto lo facciano gli eterosessuali – che praticamente non si sposano più. E questo per le più che ovvie ragioni spiegate da loro stessi: sentono meno la spinta dei figli e sono mentalmente meno orientati al matrimonio di quanto non lo siano gli eterosessuali.
Detto in termini spicci: si profila, all’interno dell’“inverno” del matrimonio, il fallimento di quello omosessuale. Se proprio quel fallimento non è già nelle cose. A dirlo sono come sempre i numeri. Tornando all’Olanda: dopo dieci anni in flessione, dal riconoscimento dei matrimoni omosessuali appena una coppia omosessuale su cinque (che dunque già convive) risulta sposata. Niente a che vedere con l’analogo dato riguardante le coppie etero, che risultano sposate nella proporzione di otto su dieci.
I trionfi del matrimonio omosessuale, dunque, appaiono soprattutto mediatici e preventivi. Caso significativamente assai diverso da quanto avvenuto per altre “conquiste civili”. L’introduzione in Italia del divorzio e dell’interruzione volontaria di gravidanza, per fare un esempio, e giudizi di merito a parte, furono innovazioni legislative cui seguirono anni di formidabile adesione. Nella pancia della società italiana c’erano i divorzi impossibilitati e gli aborti clandestini, che “emergevano” alla legalità. E’ del resto un fenomeno che la statistica sociale ben conosce: quando all’orizzonte legislativo si staglia il riconoscimento di un nuovo diritto, il ricorso a esercitarlo è subito impetuoso, in quanto esiste una situazione pregressa da sanare, poi il fenomeno tende a stabilizzarsi e flettere o perfino crescere. Ma il matrimonio omosessuale non ha conosciuto neppure dei veri e propri exploit iniziali, se non in termini assai blandi, per cominciare immediatamente a declinare e mostrare una tendenza alla stabilizzazione attorno alla soglia minima della rilevanza in tutti i paesi europei dov’è consentito.
Un tale, comune andamento svela quel tanto di artificiosità, di invenzione tutta politica che c’è nel matrimonio omosessuale. Quell’eccesso legislativo, nel senso dei diritti, che va tanto di moda perseguire ma che più che corrispondere a dati di realtà solletica e tende a ingraziarsi segmenti di società particolarmente attivi che, della realtà, si ergono a interpreti e rappresentanti, non sempre essendolo veramente. Mentre invece il riconoscimento delle coppie omosessuali e dei loro diritti è qualcosa che ha un senso pieno e avvertito come tale, il matrimonio no: sono i comportamenti concreti a svelare questa verità. I loro stessi atteggiamenti concreti. Quando non addirittura gli stessi, concreti giudizi delle organizzazioni direttamente coinvolte. Le loro stesse, oneste, ammissioni.
«Il Foglio» del 29 maggio 2013

Anche l'etica “laica” ha bisogno di fede

di Piero Benvenuti
Sembra che il vessillo dello scienziato necessariamente ateo, o quantomeno agnostico, sia stato raccolto dal professor Umberto Veronesi, autore di Credo nell’Uomo, non in Dio, un e-book pubblicato recentemente nella biblioteca online del “Corriere della Sera”. L’argomento è noto: lo scienziato, che utilizza il metodo scientifico per l’indagine del reale attenendosi ai soli dati sperimentali, dovrebbe astenersi dal credere in un Dio la cui esistenza non è dimostrabile con lo stesso metodo. Curiosamente nel libro si afferma anche che la scienza non si interessa alle domande di senso – perché esiste qualcosa? – ma si limita a chiedersi come ciò che esiste funziona e si manifesta. Affermazione perfettamente condivisibile, ma che conduce a un pasticcio logico quando venga considerata unitamente alla precedente: sembrerebbe che uno scienziato, per il solo fatto di aver scelto di esserlo, non dovrebbe interessarsi alla trascendenza. Poco conta che scienziati del livello di Planck, Einstein, Heisenberg, Lemaitre, Pauli e molti altri abbiano indagato con passione per tutta la loro vita non solo le “leggi” della natura, ma anche il senso ultimo dell’esistenza.
In effetti, il libro non brilla per originalità e profondità delle argomentazioni, tanto che alla fine della breve lettura si prova una certa nostalgia per Nietzsche o per Feuerbach. Vale comunque la pena di analizzare le conseguenze dell’etica “laica” presentata con tanta sicurezza da Veronesi, soprattutto per vedere se la scienza non possa dare qualche contributo più costruttivo dei pareri personali dell’oncologo alla definizione delle nuove problematiche che l’uomo d’oggi è chiamato ad affrontare.
La proposta di etica “laica” esclude, coerentemente per un ateo o un agnostico, la prima parte dell’annuncio evangelico – Shemà Israel, amerai il Signore tuo Dio – e ne fa invece propria la seconda, anche se leggermente modificata – “rispetterai” il prossimo tuo come te stesso. Nell’opinione dell’autore l’etica “laica” avrebbe un valore superiore a quella cristiana, perché totalmente libera, non condizionata da una aspettativa di un premio futuro – il Paradiso – o di un castigo eterno: lo si evince leggendo il passaggio nel quale afferma che, nella sua esperienza, i malati terminali non credenti affrontano la morte più serenamente di quelli credenti. È un’annotazione interessante che, al di là della sua discutibile significatività statistica, dovrebbe farci riflettere su quanto noi cristiani abbiamo contribuito a distorcere il gioioso messaggio evangelico insistendo più sul “fuoco dell’Inferno” che sul significato della speranza salvifica. In quest’ottica, cerchiamo di analizzare le conseguenze di una scelta etica così “dimezzata” che agli effetti pratici, al pari della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”, sembra allinearsi con quella cristiana.
Considerare ogni uomo e ogni donna “uguali”, senza distinzione di razza, religione, cultura, pensiero è “giusto” sia per il non credente – su basi puramente razionali suffragate dalla scienza – sia per il cristiano, il quale però aggiunge come principale motivazione la consapevolezza di essere tutti figli generati e amati dallo stesso Padre. Ecco la fondamentale differenza dell’etica cristiana rispetto a quella totalmente laica: quest’ultima si fonda su un “patto” tra uomini e come tale sarà sempre relativa alla situazione storico-culturale e agli uomini che l’hanno enunciata, mentre quella cristiana nasce dalla “rivelazione” che la creazione è un atto di Amore che, se liberamente riconosciuto, ci permette di cooperare con il Creatore agendo secondo un principio etico universale.
La differenza operativa delle due etiche emerge quando ci si discosta dal semplice criterio di uguaglianza tra uomini e donne – principio accettato da tutti – e si passa alla questione più delicata del rispetto della persona in tutte le condizioni e fasi della vita. Lo dimostra Veronesi stesso quando definisce “inaccettabile ingerenza” il parere negativo espresso alla luce dell’etica cristiana sulla proposta di referendum abrogativo della legge 40, mentre il suo parere personale, presentato come antesignano della scienza, sarebbe invece perfettamente accettabile. Dal punto di vista della logica dovrebbe essere proprio il contrario, perché se le religioni e la filosofia hanno competenza a esprimere pareri etici, così non è per la scienza sperimentale che si occupa, per suo statuto, solo di fenomeni misurabili. A meno che non si voglia sostenere il principio che tutto ciò che è scientificamente e tecnicamente possibile è anche eticamente lecito: le conseguenze paradossali di un tale principio, pur senza arrivare ai casi estremi della bomba atomica o degli “uteri in affitto”, sono evidenti.
Sia chiaro, nessuno vuole rigettare a priori le innovative e a volte stupefacenti possibilità che la scienza – in particolare la medicina – ci offrono, ma proprio perché le conseguenze a lungo termine di certe scelte, soprattutto quelle che più si avvicinano alla radice della vita, sono difficilmente prevedibili, è necessario che le linee guida abbiano veramente valore universale e non siano lasciate all’alea di un referendum o al giudizio personale di un magistrato. Veronesi nel suo libro non affronta direttamente questo problema, limitandosi a esaltare la scienza e l’etica “laica” e, pur ammettendo le positive dichiarazioni post-conciliari della Chiesa nei riguardi della scienza e dell’evoluzione, non sembra intravedere la possibilità di un percorso comune.
Cosa possono fare scienziati e teologi di buona volontà per evitare simili situazioni di stallo? Una via che mi sembra percorribile è quella di impegnarsi ad analizzare con coraggio le implicazioni teologiche ed etiche di quanto la cosmologia attuale ci sta rivelando. Il quadro evolutivo unitario, ormai ben consolidato, ci dice che la nostra esistenza e la nostra coscienza sono intimamente legate all’evoluzione del cosmo che, sostenuto nell’esistenza assieme al tempo e allo spazio, si è sviluppato lungo un periodo di circa quattordici miliardi di anni in forme e strutture sempre più complesse, seguendo inconsapevole le leggi che lo governano, secondo “caso e necessità”, come affermava Jacques Monod (citato da Veronesi).
Quando la complessità – almeno su questo pianeta – ha raggiunto la capacità di autocoscienza, essa si è subito posta domande di senso: da dove vengo? Chi mi ha generato? Qual è il mio destino? Ma è solo negli ultimi tempi che l’uomo, grazie ai progressi di conoscenza, è riuscito a comprendere la globalità e unitarietà dell’evoluzione intravedendone i meccanismi e, di fatto, a interrompere, limitatamente a ciò che avviene sulla Terra, il suo corso “naturale” e inconsapevole. Le mutazioni genetiche e l’ambiente, che durante miliardi di anni hanno plasmato la storia dell’evoluzione, sono oggi nelle nostre mani, possiamo indirizzarle a nostro piacimento. Tra non molto saremo in grado di generare parti del nostro corpo e sostituirle a quelle malfunzionanti, forse potremo aumentare la nostra capacità cerebrale o di memoria ... Chi può dire quali di queste opzioni siano veramente benefiche, a lungo termine, per l’umanità?
È un problema di difficilissima soluzione, sia per il credente sia per il laico, e già oggi si nota la confusione: si scende in piazza contro gli Ogm e la sperimentazione sulle cavie (Veronesi è favorevole ai primi e vuol limitare ma non escludere del tutto la ricerca sugli animali) e al tempo stesso si difende come diritto inalienabile la possibilità di sperimentare sugli embrioni umani ed eliminarli se le “condizioni” non sono accettabili dallo sperimentatore, genitori inclusi.
La limpida indicazione del messaggio etico cristiano, coniugato con le conoscenze scientifiche acquisite, ci rende consapevoli oggi più che mai di cosa significhi l’invito genesiaco «andate e dominate la Terra»: significa diventare co-creatori del mondo, modificare, se possibile e senza timore, l’evoluzione, adottando però lo stesso criterio del Creatore, amando cioè tutto il creato e aspirando a esclamare con Lui alla fine di ogni giornata: «E vedemmo che era cosa buona». Naturalmente avere un principio guida, per quanto chiaro e forte esso sia, non vuol dire avere in tasca la soluzione per ogni problema e il cristiano deve sapersi confrontare con coraggio e umiltà con le diverse posizioni per discernere la via da seguire.
Questo è il dialogo serrato che dovrebbe instaurarsi tra teologia e scienza, la teologia stimolando la scienza a valutare le conseguenze globali a lungo termine del suo operare, senza fermarsi a risultati parziali, e la scienza provocando la teologia a dare senso al progredire inarrestabile della conoscenza. Arroccarsi su posizioni esclusive, invocando un neo-illuminismo “laico” che non ammette “interferenze”, non solo è anacronistico, ma non sembra neppure di grande utilità per l’uomo.
«Avvenire» del 27 agosto 2013

«Eccesso di serietà, limite per la scrittura»

Gruppo 63 / Quinta puntata
di Alessandro Zaccuri
A sentire Gianni Celati sembra che tutto gli sia capitato all’epoca del servizio militare. La traduzione dell’Ulisse di Joyce, tanto per cominciare. «Sentivo tanto parlare di questo libro – ricorda – che mi venne la curiosità di guardare che cosa ci fosse dentro. Così la sera, mentre gli altri se ne andavano in libera uscita, io restavo in camerata e provavo a tradurlo, frase per frase». Impresa portata a termine solo di recente, a mezzo secolo di distanza, con la versione dell’Ulisse che Celati ha pubblicato da Einaudi nei mesi scorsi. Ma anche la sua avventura di scrittore, con relativo apparentamento al Gruppo 63, è in qualche modo legata al periodo della leva obbligatoria.
Oggi, all’età di 76 anni, l’autore delle Avventure di Guizzardi e di Narratori delle pianure ricostruisce la vicenda con il suo solito tono: gentilissimo e solo in apparenza svagato. «Ma sì – spiega – avevo iniziato a scrivere qualcosa sotto le armi, poi i testi avevano cominciato a girare, erano arrivati fino all’Einaudi, li aveva visti Italo Calvino e Calvino li aveva passati a Guido Davico Bonino. In breve, andò a finire che quelli del Gruppo 63 mi invitarono al convegno di Fano, nel 1967. Che fu l’ultimo loro incontro ufficiale, tra l’altro».

E come andò?
«Abbastanza bene, anche se in quell’occasione mi presi una reprimenda da parte di Sanguineti in persona. La figura più importante del gruppo, per la sua levatura di critico oltre che per le sue poesie. Ma pure il più serioso, il più convinto di essere sempre nel giusto».
Sì, ma che cosa successe?
«Vede, a Fano io avevo portato il materiale di quello che sarebbe diventato il mio primo libro, Comiche. Niente di umoristico, nonostante il titolo. Il mio intento era di riprodurre il linguaggio dei pazzi, la loro maniera di pensare, lo sguardo con cui osservano il mondo. Sanguineti, però, non la pensava così. Avevo appena finito di leggere il mio pezzettino e lui saltò su tutto scandalizzato e mi fece: “Questa roba vuol far ridere sul serio!”. Detta da lui, una frase simile era un’accusa gravissima».
Avete rotto i rapporti?
«Al contrario, con Sanguineti siamo rimasti in contatto, con molta cordialità. Ho in mente una sua lettera cortesissima in occasione della mia partenza per gli Stati Uniti. Dopo Fano, del resto, ho continuato a pubblicare sulle riviste del Gruppo 63, pur senza arrivare mai a farne parte fino in fondo. Condividevo molto del fervore di quei miei coetanei, capivo il loro desiderio di andare al di là del Neorealismo e mi entusiasmava l’idea di vivere in un momento in cui tanti giovani tornavano alla poesia. Ma non mi persuadeva quel modo di affrontare il cambiamento pretendendo di mettersene alla testa. Sa chi mi ricordavano quelli del Gruppo 63?».
Me lo dica lei.
«Lenin, quando arriva a San Pietroburgo in treno, a bordo del vagone piombato, e rivendica la guida della rivoluzione. Erano gente serissima, come ho già detto, ma mi parevano condannati a fare qualcosa che era già stato fatto. A ripetere e a ripetersi, senza mai rendersene conto. È vero che in quegli anni ci sembrava di non avere più una casa alla cui porta tornare a bussare. Loro però si sistemavano un po’ dappertutto. Non appena incappavano in un modello, se ne impossessavano senza esitazioni. Leggevano la Beat Generation e subito scrivevano come gli americani. Scoprivano i francesi dell’Oulipo e allora giù a smontare, a sperimentare. Non che ci fosse niente di male, intendiamoci».
Quale alternativa ci sarebbe stata?
«Quella di mettersi in viaggio senza sapere dove si vuole arrivare. Prenda Carlo Ginzburg, un grande storico che scrive con uno straordinario piglio da narratore. Oppure Ermanno Cavazzoni, un autore importantissimo, che però gli editori hanno avuto la tendenza a lasciare in un angolo proprio a causa della sua irregolarità e irrequietezza. Quelli del Gruppo 63, invece, sono sempre stati squadrati: si mettevano in viaggio solo se sapevano già esattamente dove sarebbero arrivati. Mai un dubbio su chi fosse nel giusto e chi nell’errore, mai un ripensamento o un’incertezza. Un eccesso di intelligenza che, alla fine, si è rivoltato contro di loro. E contro tutta la sinistra, mi verrebbe da aggiungere».
Era questo che non la convinceva?
«Di sicuro mi metteva a disagio. Sanguineti era un uomo coltissimo, geniale, ma bastava guardarlo per capire che era un professore. Anch’io ho insegnato all’università, però vengo da una famiglia di artigiani e ancora oggi provo un sentimento di meraviglia davanti a una persona che sa far bene il suo mestiere. Il mio interesse per la linguistica deriva da questa ammirazione. Volevo capire come funziona il linguaggio, mi affascinavano i risvolti scientifici, le implicazioni filosofiche. Scrivevo, sì, ma solo per approfondire questa dimensione linguistica. Io non volevo fare lo scrittore. Il mio sogno, purtroppo fallito, era di diventare uno studioso del linguaggio».
Una sensibilità non estranea a quella del Gruppo 63, non trova?
«Se non altro una sensibilità che ritrovavo in Giorgio Manganelli, con cui sono sempre andato molto d’accordo. La sua opera si può leggere in ogni direzione, seguendo la profondità del pensiero o lasciandosi incantare dalla costruzione fantastica. Proprio per questo i suoi libri continuano a essere letti ancora oggi».
«Avvenire» del 28 agosto 2013

26 agosto 2013

Cosa significa insegnare, cosa essere professori?

Fino al mese di luglio di quest’anno il nome della quarantacinquenne professoressa Rajna Dragićević (nata nel 1968) era conosciuto a Belgrado, in Serbia e altre regioni dell’ex Jugoslavia solo nel contesto degli studi linguistici. Rajna Dragićević, che alla facoltà di Filologia di Belgrado, insegna lingua serba, lessicologia, storia della lessicografia e lessicografia pratica, è infatti autrice di oltre cento contributi scientifici, varie monografie, manuali per gli studenti liceali e universitari
di Rajna Dragićević
Invitata alla festa dei laureandi della sua facoltà ha tenuto un discorso agli studenti
 
"Cari studenti, stimati colleghi, cari laureandi
nello stesso giorno della vostra festa di laurea sono stati rinviati gli esami per la licenza ginnasiale perché i test sono stati illegalmente pubblicati. E’ solo una delle manifestazioni del crollo del nostro sistema educativo e del sistema sociale a tutti i livelli.
Arrivando alla vostra festa, osservandovi così ben vestiti, sorridenti, giovani e pieni d’energia positiva, mi chiedevo se riuscirete a mantenere il vostro ottimismo anche dopo la laurea e quando vi confronterete con i bassi stipendi, con il mancato rispetto della vostra professione di insegnanti, con studenti abbastanza disinteressati, con i loro genitori sempre disposti a dare ragione ai propri figli (anche se così li danneggiano), con le varie pressioni, con il disprezzo.
Molte cose attorno a voi uccideranno la vostra motivazione. Tuttavia, se chiedete la mia lista delle professioni più alte, io metto nell’ordine: professore, medico, avvocato, giudice, ingegnere e, ripeto ancora, professore. Se chiedete a tutti i genitori del mondo che mestiere vorrebbero per i loro figli, vi risponderanno con le medesime parole.
I vari analfabeti e semianalfabeti che oggi si considerano facilmente manager, le conduttrici e i conduttori di trasmissioni che, sebbene ignoranti, pretendono di essere giornalisti e i cantanti di turbo-folk che si immaginano artisti, per non parlare di vari art director, consulenti finanziari, product designer, back office amministratori.
Dietro i sonori nomi di queste professioni spesso si nascondono truffatori che, non riuscendo a stare al passo con i tempi richiesti dallo studio universitario, pensano che la stima si possa ottenere più in fretta e cambiano professioni come se fossero calze sporche”.
Non dimenticate che un professore, un medico o un giudice non può autoproclamarsi tale.
Siate orgogliosi della vostra professione che si pratica solo con uno studio perseverante e diligente, con l’autocontrollo, lavorando notte e giorno, rinunciando a molte cose. Non permettete a vari titolari di ristoranti, imprese, aerei privati, case di lusso, persone arroganti, vanitose e autoreferenziali che vi tengano lezioni sul successo.
Non permetteteglielo perché VOI SIETE PROFESSORI, e loro sono solo proprietari di metri quadrati!
Tentano di svalutare il vostro lavoro. Tenete presente che voi siete i custodi della dignità della vostra professione. Il titolo di professore viene acquistato con molto impegno e bisogna fare altrettanta fatica continuando ad investire nel sapere su cui tale titolo si fonda. Rendete conto del vostro comportamento anche fuori della scuola, riflettete sul vostro modo di vestirvi, di mettervi in relazione con i colleghi, con gli studenti e con i loro genitori.
Se vi umiliate ai vostri stessi occhi, sarete osservati con disprezzo anche dagli altri. Siate orgogliosi e convinti del vostro ruolo, decisi nell’intenzione di studiare per tutta la vita perché voi siete PROFESSORI!
Vogliate bene ai vostri studenti. Fate emergere ciò che in loro è nobile, anche se non ne sono coscienti, anche se lo hanno nascosto a se stessi. Alzate il livello della loro autostima. Non regalate loro mai i voti ma fate continuamente in modo che i loro risultati possano migliorare. Riconoscete e stimate il loro impegno. Fate capire che possono avere successo se studiano. Non spegnete la loro volontà.
L’autorità di un insegnante non si conquista con la severità eccessiva, né con il potere arbitrario ma con la giustizia, nella reciproca condivisione. Lodate i migliori perché in questo modo anche gli altri troveranno degli stimoli. Date l’occasione a tutti di essere i migliori, almeno qualche volta.
Non siate i compagni dei vostri studenti. Non avvicinatevi a loro come se lo foste. Costruite voi le regole, i confini e i fili da tenere in mano in aula. Loro sono studenti, VOI SIETE I PROFESSORI!
Non dimenticate che la vostra materia (la lingua e letteratura serba, ndt.) è al primo posto nel registro di classe e che con i vostri studenti passerete più tempo dei vostri colleghi. La vostra influenza sarà più importante. Siate coscienti di questa responsabilità. Come professori di lingua serba, voi siete i custodi della nostra lingua e della nostra cultura.
Insegnate ai vostri studenti ad amare il proprio paese. Spesso si sente che i professori consigliano ai loro migliori studenti di emigrare quanto prima possibile. Il buon successo negli studi è considerato il miglior lasciapassare per andarsene dalla Serbia. Proviamo a capovolgere la prospettiva! Fate vedere agli studenti migliori che proprio loro potranno aiutare la convalescenza del paese perché possa diventare un buon luogo per vivere. Non permettete loro di andarsene, né di lasciare il paese nelle mani di persone non degne.
Dite ai vostri studenti che l’impegno della loro vita è la lotta contro il fango in cui stiamo affondando. Proponete loro il significato della responsabilità civile perché si convincano che nessuno tranne loro potrà ripulire questo paese. Se vi impegnate, vedrete che vi ascolteranno - VOI SIETE I PROFESSORI!
Siate certi che i semi di tutte le riforme economiche, politiche, culturali e morali di questo paese potranno germogliare non solo in famiglia, ma anche nella vostra aula, proprio nelle lezioni di lingua e letteratura serba! Perciò impegnatevi ad essere un modello per i vostri studenti.
Andate alla guerra contro tutte le attricette, gli sponsor falsi, i magnati, gli uomini d’affari e vinceteli.
Voi dovete diventare il loro punto d’orientamento, il faro della loro vita! Per quella guerra avete ogni giorno quarantacinque minuti. Non sono pochi. Vincerete se tutti gli argomenti da insegnare saranno presentati in modo interessante, fresco, emozionante. Otterrete il successo solo se conoscete molte cose, se amate il vostro lavoro e se vi dedicate al vostro impegno.
Gli studenti sono in grado di riconoscerlo in modo infallibile. Non fate caso alla poca preparazione dei vostri colleghi, al fatto che molti non fanno nulla e sono pagati lo stesso, non fate caso al marciume attorno a voi e non arrendetevi. Che la vostra lezione sia un’oasi nel deserto, il punto di luce nel buio, un granello di senso nell’assurdo.
Voi avete una missione: se riuscite a riconquistare l’autorità della scuola e del sapere (che non si possono raggiungere con nessuna legge ma con l’entusiasmo degli insegnanti) tutte le barriere che ostacolano la vita migliore in Serbia cadranno a effetto domino. Dalla lezione di lingua serba alle riforme economiche! Dalla lezione di lingua serba alla lotta contro la corruzione! Dalla lingua serba all’universo!
Il vostro potere è immenso e il vostro compito è di portata strategica. In ciò consiste la differenza fra voi e vari manager, consulenti, coordinatori, amministratori, ricchi proprietari di aziende e altri venditori di nebbia. Nelle loro mani ci sono progetti, aziende, aerei e camion, nelle vostre è il futuro di questo paese. Non dimenticate mai - VOI SIETE I PROFESSORI".

 
Postato il 26 agosto 2013 e tratto dal sito http://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-la-professoressa-140564
 

25 agosto 2013

E Caproni avvertì il mistero divino

Inediti
di Marco Roncalli
«Qualcuno ha detto che io appartengo alla teologia negati­va, quella della morte di Dio: morte nella co­scienza dell’uomo, intendiamo­ci. C’è addirittura chi mi defini­sce ateo. Cosa falsa. Prima di tutto io non sopporto nessuna definizione.Le definizioni limi­tano. Non sono ateo, non sono credente, sono io. Poi 'ateo' mi dà fastidio. È una parola otto­centesca che mi fa venire in mente certi livornesi col sigaro toscano in bocca, la cravatta al­la Lavalliére, i li­beri pensatori. Tutte cose pittore­sche che mi dan­no fastidio. Io pongo solo un li­mite alla ragione.
Dico che la ragio­ne umana compie miracoli, ma è de­stinata a imbat­tersi in un muro o arrivare a un ulti­mo borgo oltre il quale non ha ac­cesso. L’uomo di fede fa presto: scavalca il muro, supera l’ultimo borgo, e beato lui. Ma il povero ra­zionalista rimane interdetto: non dice però non c’è Dio, non c’è nulla. Anzi c’è un perso­naggio mio, l’'an­timetafisican­te', che dice: 'Un’idea mi frulla, / scema come una rosa. / Dopo di noi non c’è nulla. /Nemmeno il nul­la, / che già sarebbe qualcosa'. E un altro personaggio, di ri­mando: 'E allora, sai che ti dico io? / Che proprio dove non c’è nulla / - nemmeno il dove - c’è Dio': Come mi si può definire a­teo in questo senso?».
Così Gior­gio Caproni dialogando con Sil­vio Riolfo Marengo il 15 aprile 1986 a uno dei 'Martedì lettera­ri' di Sanremo, presentando an­cora in bozze alcune poesie del Conte di Kevenhüller. E all’inter­vistatore che lo pungolava in­terrogandolo sulla presenza del Male dentro questa tormentata ricerca di Dio, il poeta risponde­va: «Io non sono certo un teolo­go, ma in effetti mi pongo da sempre questo problema. I nazisti portavano il nome di Dio inciso nella cintura. 'Got mit uns', Auschwitz ... Dio è il mi­stero di tutti i misteri, non si sa nulla di lui. È inafferrabile, ci vi­vifica e ci uccide. Eppure ricerco la sua presenza da anni...». Il te­sto integrale dell’ inedito dialo­go sanremese - tutto da leggere insieme a certe liriche del Muro della terra del ’75: «Dio di vo­lontà, / Dio onnipotente, cerca / (sforzati), a furia d’insistere / ? almeno ? d’esistere»,oppure: «Sta forse nel non essere / l’im­mensità di Dio?» - , appare ora sulla rivista 'Resine', insieme ad altre interviste, saggi, lettere e poesie inedite. Insomma: pa­gine ritrovate di un autore che confidava di aver posto al cen­tro del suo cammino poetico (i­niziato nel 1936 pubblicando Come un’allegoria) - più che il tema della città o del viaggio, dell’esilio o della madre - quello della 'ricerca': pur glossando «di che cosa non lo so nemme­no io». Nel nuovo numero di 'Resine', più in particolare, no­te critiche e ragioni sentimenta­li s’intrecciano lungo le diverse sezioni costellate di testi. Ora a lumeggiare l’iniziazione poetica di Caproni nella Genova all’alba degli Anni ’30 (quella di 'Espe­ro' e di 'Circoli' con la sua pre­coce acquisizione di un codice linguistico autonomo), ora scandagliando i contatti con l’ambiente roma­no, ora rendendo conto del lavoro poetico (Il franco cacciatore del 1981, Tutte le poesie del 1983...) per­sino nella mania­cale attenzione al­la struttura forma­le, spazi vuoti e scostamenti compresi («cellule piene di senso in sé», le aveva definite Gramigna). Controcan­to umanissimo di questi testi il leit motiv dell’amicizia dichiara­ta (con Libero Bigiaretti, Franco Ciarlantini, Angelo Barile, Arri­go Bugiani, Mario Luzi, Davide Puccini, Sbarbaro, Pasolini, lo stesso Riolfo), legato ad una poesia nel corso del tempo sem­pre più essenziale, aspra, ironi­ca. «Solo, nella foresteria, / sta­zioni di posta per il cambio dei cavalli / che resta di me, nella mia notte? / Giunto dove la stra­da batte a un muro / come una martellata sulla rosa / della mia bocca più dura e più viva / della morte». «Non era il vento, ho / lo schianto che mi frantuma / la voce - che martella / la rosa di fuoco e di cenere / della mia bocca, vecchia / già di un mil­lennio? », così due liriche non datate .E ancora: «Il nome avvi­cina alla morte? / No. Il nome è la morte», così un’altra del 1985. Con i versi del «musicista man­cato » come si autodefiniva Ca­proni, anche pagine di prosa.
Come quelle recuperate dalla ri­vista introvabile 'Il fiore', inser­to culturale del mensile munici­pale torinese, che hanno al cen­tro Roma. La città dove il nostro, fresco delle sue prime plaquette poi raccolte in Finzioni e fresco di nozze con la moglie Rina, giunse l’1 novembre 1938 per prendere servizio come maestro elementare in Trastevere re­standovi sino alla Pasqua ’39 quando fu ri­chiamato alle armi, alternan­do da lì, sino al­la fine della guerra, pause romane, impe­gni militari, la guerra partigia­na, fino al 1945 ... Ma an­che la Roma do­ve, più tardi, ac­colse Pasolini: «venne per la prima volta a casa nostra all’i­nizio degli anni Cinquanta. Fu Gatto a indiriz­zarlo da mio pa­dre, che però già lo conosce­va avendo re­censito molto favorevolmente alcune sue poe­sie », ricorda il figlio di Caproni Attilio Mauro.
Ne vien fuori una capitale - ­commenta Domenico Astengo - ­«in controluce, intima, quasi provinciale, lontana dai luoghi deputati - mura ed archi - per cui i giovani scrittori,come Ca­proni, non vogliono spendere troppo amore». Roma dunque luogo dell’esilio, definita quasi con rancore «enfasi e orina» e «regno delle tenebre», contrap­posta a Genova, dov’è perfino «gentile morire». Nei fatti grazie ad essa Caproni poté sostenere la sua famiglia, farsi apprezzare e lasciare traccia di sé. Anche se i versi del poeta, quasi interro­gandoci sul senso del viaggio della vita, ammoniscono:«Tutti i luoghi che ho visto, / che ho vi­sitato, / ora so - ne son certo: / non ci sono mai stato».
«Avvenire» del 23 agosto 2013

«Un'avanguardia, non una setta»

Gruppo 63 / Quarta puntata
di Alessandro Zaccuri
«E no, così è troppo facile. Come la storia del coltello, no? Cambi la lama, cambi il manico: è ancora il coltello di prima?». Andrea Cortellessa la butta sul paradosso, ma si capisce che il Gruppo 63 per lui non è un argomento da risolvere con una battuta. Docente di Letterature comparate a Roma Tre, è tra i redattori di «Alfabeta 2», prosecuzione multimediale di una delle più celebri riviste della controcultura. Un paio di anni fa è stato tra i fautori del fenomeno Tq, sigla che stava per «trenta-quarantenni» e si proponeva di dare compattezza a un’intera generazione di scrittori e intellettuali. Proprio come il Gruppo 63 all’epoca del miracolo economico. In questi giorni sta lavorando a una nuova edizione del Romanzo sperimentale, uno dei testi-cardine della Neoavanguardia, in procinto di essere ripubblicato dall’Orma.
Scusi, ma il coltello che c’entra?
C’entra, c’entra. Non si può ripetere che Arbasino e Manganelli sono autori importanti, ma non hanno nulla a che vedere con il Gruppo 63. Ragionando così, continuando a sottrarre nomi e opere, della Neoavanguardia non resta nulla. O, meglio, restano solo gli equivoci.
Ma l’impostazione corretta quale sarebbe?
Quella suggerita proprio da Manganelli all’altezza del 1964: distinguere il laboratorio, in cui si sperimentano i prototipi, dalla catena di montaggio, dalla quale escono i modelli già collaudati. Se si osserva con attenzione la parabola del Gruppo 63, ci si accorge che la prima dimensione, quella del laboratorio, è predominante. Non per niente si parla di romanzo sperimentale, non di romanzo d’avanguardia, utilizzando una teminologia che, a rigore, apparterrebbe più all’ambiente rivale di Vittorini o di una rivista come “Officina”.
Laboratorio, catena di montaggio, officina ...
Sì, sono tutte immagini che vengono dal mondo del lavoro e che rappresentano bene, a mio parere, la mobilità di quel periodo. Le Avanguardie storiche, infatti, avevano conosciuto una deriva di tipo “aziendalista”, secondo la definizione di Glauco Viazzi: non solo la produzione in serie aveva finito per imporsi, ma ci si era irrigiditi in manifesti e organigrammi, con il relativo corollario di espulsioni e condanne. Nella Neoavanguardia italiana non accade nulla di simile. I confini restano permeabili, le appartenenze sono continuamente rinegoziate. Rimane una base comune, costituita dal rifiuto dello status quo culturale e letterario. Ma ognuno esprime questo rifiuto a modo suo, senza necessità di assoggettarsi a parole d’ordine prestabilite. Neppure la “riduzione dell’io”, indicata da Giuliani come elemento identificativo dei Novissimi, si trasforma in precetto. Semmai, è la registrazione di un processo che ciascun poeta ha già messo in atto per conto suo.
Nessuna tendenza corporativa?
Umberto Eco lo ha ripetuto spesso: nel ’63 i giovani del Gruppo avevano già il loro posto nel mondo, lavoravano in tv e nei giornali. La polemica contro il sistema poteva solo danneggiarli. La “mafia” dell’avanguardia, sulla quale ironizzava il solito Manganelli, era un’idea che tradiva piuttosto la coda di paglia degli accusatori.
Una qualche ambizione egemonica, però, ci sarà pure stata.
Ma non si è realizzata. Per fortuna, mi verrebbe da aggiungere. Del resto, se una debolezza può essere individuata nell’esperienza della Neoavanguardia, è esattamente questa mancanza di compattezza ideologica, questa incapacità di inquadrarsi in un battaglione o addirittura in una setta, come era accaduto per esempio al Surrealismo. Quella del Gruppo 63 era un’avanguardia “debole”, perfettamente postmoderna. Un ossimoro, a ben vedere. Una magnifica contraddizione in termini».
Ma il postmoderno poi si è impossessato dei meccanismi della Neoavanguardia, trasformandoli in prodotti di massa.
I narratori sperimentali insistevano sull’aspetto artificiale del racconto e la loro destrutturazione aveva un intento provocatorio. Smontavano il romanzo mettendolo tra virgolette. In seguito l’industria culturale ha tolto le virgolette, con i risultati che vediamo. Ma questo non può essere imputato al Gruppo 63, così come gli orrori del nazismo non possono essere imputati alla durezza del cinema espressionista tedesco tra gli anni Dieci e Venti. In un caso come nell’altro si tratta di uno sguardo che registra l’orrore e l’alienazione, senza tuttavia rendersene complice. Dal mio punto di vista rimane molto più colpevole l’atteggiamento dei narratori tradizionali, che preferivano chiudere gli occhi davanti alle conseguenze dell’industrializzazione del Paese. Specie in un momento come l’attuale, dovremmo nutrire gratitudine verso gli intellettuali che allora, in un tempo apparentemente felice per l’economia italiana, hanno saputo intuire le conseguenze di processi che oggi si rivelano di portata disastrosa».
Sicuro che non ci siano mai state concessioni al mercato?
Negli anni Sessanta no. L’editore di riferimento era Feltrinelli, che grazie ai best seller di qualità (Il Gattopardo, Il dottor Zivago) poteva permettersi di rischiare con gli autori sperimentali. Un equilibro che si rompe alla fine degli anni Settanta, quando Pier Vittorio Tondelli presenta il manoscritto di Altri libertini a Feltrinelli e Aldo Tagliaferri, che era stato uno dei protagonisti del Gruppo 63, gli dice che così non va bene, che bisogna sistemare, normalizzare, rendere più leggibile».
«Avvenire» del 24 agosto 2013

Generazione 2.0: addio alla televisione

I giovani multimediali
di Giacomo Gambassi
Il primo cellulare arriva a nove anni. Internet è una calamita di tempo e di incontri. La tv piace ma al piccolo schermo si riserva poco più di un’ora al giorno. E i videogiochi sono sempre più quelli online. I ragazzi italiani si tuffano nei media affascinati da quanto è sinonimo di 2.0 e insofferenti all’idea di essere spettatori in un mondo che è parte del loro Dna. Nativi digitali, li definiscono i sociologi. E loro sono i protagonisti del libro bianco sul rapporto fra media e minori che l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni è in procinto di pubblicare.
Un dossier che fotografa le abitudini delle giovani generazioni multimediali e che lancia un allarme: nella Penisola si deve fare i conti con un gap tecnologico e culturale che separa gli under diciotto dagli adulti, «figli di Gutenberg» e ancora distanti dalla mentalità hi-tech tipica di bambini e adolescenti. Sarà anche per questo vuoto che sei genitori su dieci imputano ai mezzi di comunicazione di contribuire al disorientamento giovanile e chiedono di «incrementare il bagaglio di indicazioni alle famiglie per responsabilizzarle a un uso consapevole dei media», si legge nello studio.
L’indagine ha visto la sua genesi nell’aprile 2009 quando l’Agcom ha approvato il progetto che un anno più tardi è stato affidato a un gruppo di lavoro composto da esperti dell’Authority e ricercatori del Censis. I risultati mostrano «gli aspetti positivi e quelli problematici» della relazione fra ragazzi e contenuti audiovisivi che, spiega l’Agcom, deve «contemperare la necessità di tutela dei minori con le potenzialità offerte dallo sviluppo tecnologico», ma che interroga anche su quali vie vadano percorse per coniugare «il diritto a una crescita equilibrata» con «la libertà d’espressione, la libertà di impresa e la garanzia della democrazia». Una sfida in cui gioca un ruolo centrale la media education, ossia la formazione a un impiego intelligente degli strumenti.
Secondo il libro bianco, il telefonino è il mezzo più vicino ai minori. Il 99% lo possiede. E negli ultimi anni si è abbassata l’età in cui il cellulare finisce nelle loro mani. La metà dei ragazzi intervistati lo utilizza per oltre un’ora al giorno. E «soprattutto per inviare sms», confidano i baby eredi di Meucci che, in gran parte, definiscono lo smartphone un dispositivo «utile per sviluppare amicizie». Dietro la scelta dei genitori di regalare un telefonino c’è anche l’esigenza di «sicurezza per comunicare con i figli in ogni momento». Però padri e madri ammettono di non conoscere come e quando i ragazzi utilizzano l’apparecchio e di non sapere in quale modo intervenire per impedire contatti pericolosi. «La sensazione – scrive l’Agcom – è che i genitori privilegino l’idea che la dotazione del cellulare possa consentire un maggior controllo dei figli, sottovalutando la complessità della tecnologia e come il consumo dei dispositivi wireless si possa incardinare rapidamente nelle diverse pratiche della vita quotidiana dei minori».
Il web è visto come un compagno d’avventura. E gli under diciotto «trainano l’online nelle famiglie italiane», sottolinea il dossier. Non è un caso che i nuclei familiari che hanno più dimestichezza con la tecnologia siano quelli con almeno un minore. Otto ragazzi su dieci con meno di 11 anni raccontano di collegarsi regolarmente a Internet, mentre si arriva al 98% fra gli adolescenti. I siti più visitati sono i motori di ricerca insieme con le pagine dedicate ad animali, giocattoli, viaggi e bellezza. L’attività preferita in Rete è il gioco online ma affidandosi a videogame individuali. La metà dei ragazzi ammette di utilizzare il web per le ricerche scolastiche, ma il principale richiamo è rappresentato dai social network. Lo dimostra un altro dato: il 93% degli adolescenti è iscritto a Facebook. E anche YouTube è ormai di casa: perché i filmati si guardano soprattutto sul pc.
Di fatto si sta realizzando una migrazione verso la tv via computer che allarga la sua attrattiva fra i nativi digitali. Certo, la televisione tradizionale continua a incidere su stili e comportamenti, ma i figli «consumano» meno tv dei genitori: si va dalle tre ore al giorno degli adulti ai sessanta minuti degli under diciotto. L’Agcom spiega che, almeno fino ai 13 anni, la maggioranza dei ragazzi guarda il piccolo schermo con i genitori, mentre due su dieci hanno a fianco i nonni. Non accade lo stesso fra gli adolescenti che amano i film (48%), lo sport (43% dei maschi) e i telefilm (32% delle femmine), mentre solo il 10% cita i reality. Fra i più piccoli il genere prediletto è il cartone animato (85%), mentre chi ha fra gli 11 e i 13 anni apprezza le serie tv. Fanalino di coda la radio. Un terzo dei ragazzi dice di non ascoltarla mai e chi si sintonizza su una stazione lo fa dal pc o dal telefonino. Come a dire: è la Rete l’habitat naturale delle giovani generazioni.
«Avvenire» del 24 agosto 2013

24 agosto 2013

Ragazzi e privacy in rete: perché siamo così miopi?

Un adolescente su due dà informazioni personali in rete, ditegli di smettere
di Marta Serafini
«La Big Data è lieta di presentarvi Face Hawk». Inizia così un video che sta girando in queste ore sulle bacheche statunitensi, in polemica con il Datagate e con l’uso che le grandi star del tech fanno dei nostri dati sensibili. Tutte le nostre foto, i nostri status, i nostri pensieri più intimi e le nostre informazioni personali vanno a formare il disegno di un uccello che spicca il volo. E se hawk è il falco che vola via (e che magari prima o poi andrà down, giù, come si dice in gergo militare quando viene abbattuto un elicottero), il problema è che siamo noi stessi a non preoccuparci più di tanto della nostra privacy. Tra gli scatti delle cosce e dei piedi al mare e il selfie, l’autoscatto selvaggio su Instagram e l’annuncio dell’inizio delle nostre ferie, ci dimentichiamo che ciò che pubblichiamo rimarrà lì per sempre.
C’è chi dice che noi italiani in rete siamo particolarmente esibizionisti. A sostenerlo è uno che i social network ci lavora:«Siete un popolo spensierato, non vi curate della vostra immagine e la spontaneità fa parte del vostro Dna», avverte Damien Patton, a.d. di Banjo, che il 26 e 27 settembre sarà a Roma per TechCrunch Italy.
Un problema etnico dunque? «No, forse è più una questione di altitudine. I tedeschi sono infatti più rigidi degli spagnoli. Negli Usa si discute da tempo del problema, mentre in Sud America alla maggioranza non sembra importare più di tanto se intere vite finiscono online».
In realtà — avverte il Garante delle Privacy — la questione è un po’ più complicata di così. «Da parte degli utenti c’è un atteggiamento contradditorio: vengono avvertiti i rischi della condivisione sfrenata, ma poi c’è disimpegno sul fronte dei comportamenti quotidiani», sottolinea Antonello Soro. Le cose, però, sono migliorate: «Rispetto agli albori dei social network, quando tutti condividevano tutto senza freni, c’è maggiore consapevolezza. Piuttosto ciò che dovrebbe preoccuparci è l’uso dell’anonimato per dare libero sfogo alla tracotanza e all’insulto».
Già. Ma se hatespeech e cyberbullismo sono problemi tipici soprattutto degli adolescenti (quest’estate in Gran Bretagna sono stati tre i suicidi in seguito ai ricatti e insulti sfrenati su social network e videochat), le statistiche mostrano uno spaccato inquietante. Secondo una ricerca del sito statunitense Mashable, il 55 per cento dei ragazzi americani fornisce agli sconosciuti informazioni personali. Il 71 per cento poi non ha alcun problema a mettere nelle impostazioni del proprio profilo Facebook l’indirizzo di casa e quello di scuola. E solo sei su dieci chiudono la propria pagina. Comportamenti tipici dei nativi digitali di tutto il mondo che troppo spesso usano questi mezzi di comunicazione senza alcun controllo. Sui social network, infatti, ci stanno soprattutto loro, i ragazzi. Degli oltre 22 milioni di utenti italiani di Facebook, più di 3 milioni sono minorenni (il 15 per cento, secondo l’Osservatorio social media di Vincenzo Cosenza). Non stupisce dunque che il Garante della Privacy abbia lanciato una campagna per un uso consapevole dei social. Ma è sufficiente informare? «Siamo consapevoli che non basta. E vogliamo avviare con il ministro dell’Istruzione progetti di educazione digitale».
«Attenzione, però — avverte Luca Mazzucchelli, psicologo esperto di comportamenti digital — introdurre ore di media education è un’ottima idea. Sicuramente più intelligente degli sceriffi del web o di leggi contro l’anonimato. Ma purtroppo c’è un fattore difficile da combattere». Ossia?
«Il progresso tecnologico ha azzerato lo spazio tra il pensiero e l’agito, rielaboriamo meno quello che viviamo. E pensiamo poco alla conseguenza delle nostre azioni».
Una faccenda che riguarda anche noi adulti. Che troppo agiamo (e parliamo) e poco pensiamo alla soluzione dei problemi.
«Corriere della Sera» del 24 agosto 2013

21 agosto 2013

Percy Bysshe Shelley, Lift Not The Painted Veil Which Those Who Live

di Percy Bysshe Shelley
Non sollevare quel velo dipinto, che quelli che vivono
chiamano vita: per quanto forme irreali vi siano
rappresentate, e tutto quello che vorremmo credere
vi sia limitato a colori capricciosamente,
dietro stanno in agguato Paura e Speranza,
destini gemelli, che tessono l'ombre in eterno
sopra l'abisso cieco e desolato. Un tempo
conobbi un uomo che aveva provato
a sollevarlo: cercava
con il suo cuore tenero e sperduto
cose da amare, ma ahimè non ne trovò,
nè trovò nulla di ciò che il mondo tiene
cui poter dare la propria approvazione.
Passò in mezzo alla folla distratta, splendore
in mezzo all'ombre, una macchia di luce
su questa lugubre scena, uno spirito in lotta.
Per giungere a cogliere il Vero,
ma come accadde anche al Predicatore non potè trovarlo.

Lift not the painted veil which those who live
Call Life: though unreal shapes be pictured there,
And it but mimic all we would believe
With colours idly spread,— behind, lurk Fear
And Hope, twin Destinies; who ever weave
Their shadows, o’er the chasm, sightless and drear.
I knew one who had lifted it — he sought,
For his lost heart was tender, things to love,
But found them not, alas! nor was there aught
The world contains, the which he could approve.
Through the unheeding many he did move,
A splendour among shadows, a bright blot
Upon this gloomy scene, a Spirit that strove
For truth, and like the Preacher found it not.


Il titolo è stato ripreso da un bel film del 2007
Postato il 21 agosto 2013

18 agosto 2013

Siamo ombre digitali

Le moderne tentazioni della carne digitale
di Gianluca Nicoletti
La nostra giornata di umani interconnessi. Quanto siamo generosi nel regalare le nostre reliquie elettroniche!
Nessun garante potrà dissuaderci dal dissipare parti consistenti della nostra ombra digitale. Condividere è oggi un imperativo assoluto, nemmeno ci poniamo il problema di quanti, in realtà, potranno beneficiare di quelle preziose reliquie elettroniche della nostra esistenza.
Siamo generosi solo quando si tratta di elargire a piene mani il nostro quotidiano, perché poche cose ci danno piacere come farci sbocconcellare dal prossimo la nostra carne digitalizzata. Ogni mattino ci sveglia il nostro smartphone, ma appena prendiamo l’ attrezzo in mano i più assidui amici di Facebook si saranno già accorti che abbiamo aperto gli occhi, se vorranno potranno controllare esattamente da quanti minuti siamo on line, quindi dedurre, facendo una media, i nostri orari di levata. Ancora di più potranno verificare se abbiamo passato la notte a casa nostra o altrove… Quanti si ricordano di disattivare la funzione di geo-localizzazione? Siamo ancora in pigiama, ma già abbiamo divulgato le coordinate esatte del letto che ci ha ospitato.
Quando usciamo ad affrontare la giornata fare la spesa è una libidine, siamo consapevoli che la telecamera di sorveglianza ci stia osservando, pazienza non siamo taccheggiatori…Però, senza che nessuno l’abbia chiesto, stiamo sostenendo il marketing di chi ci sta servendo. Alla cassa passiamo la scheda con il punteggio per pentolame e tazzine. Miserrimo risarcimento per quello che divulghiamo sui nostri consumi, grazie alle voci dello scontrino incrociate con i nostri dati personali.
Una volta saliti in auto siamo già assuefatti al reality urbano, tanto da ignorare ciò che resta impigliato di noi in tutte le telecamere di banche e negozi. Archivieranno nella loro memoria giornaliera un altro pezzo della nostra ombra digitale, come in ogni varco stradale che attraversiamo per entrare in Z.T.L. Non ci facciamo più caso, ma nemmeno ci chiediamo dove finiranno i dati sulla nostra guida, quelli che raccoglie la scatola nera che abbiamo accettato a bordo per risparmiare sull’assicurazione.
Ci piace ancora tenere il solito smartphone bene in vista sul supporto da cruscotto. L’occhio è su Waze, il social-navigatore di tecnologia israeliana. E’ divertente, anche se ci dice che, per migliorare le prestazioni del facilitatore d’itinerario potremmo connetterlo a Facebook; non dobbiamo avere paura….Basta comprendere che, se accettiamo, il report di ogni nostro spostamento potrà essere pubblicato sul social network, condividendo così anche le transumanze motorizzate.
Ugualmente trascorrerà anche il resto della nostra giornata di umani interconnessi, sempre più appesantiti di tecnologia lussuriosa, ma sempre più felicemente alleggeriti del nostro “inutile” privato.
«La Stampa» del 12 giugno 2013

Facebook non è solo un gioco

Dopo il caso Di Cataldo una miss trevigiana denuncia online le violenze del marito
di Gianluca Nicoletti
Un’altra donna ha usato Facebook per far sapere al mondo che il suo uomo la picchia. E’ una realtà che merita attenzione, a meno che non diventi un format. Quando lo farà una casalinga, un’impiegata o chiunque non sia donna di spettacolo, artista o modella, non avremo nemmeno questo fastidioso rovello.
E’ bene invece che s’inizi a percepire collettivamente la convinzione che Facebook non sia solamente un passatempo futile, persino detestabile, ma comunque dedicato a scambiarsi inutili frivolezze o a compiacere deprecabili narcisismi. Oramai quello che scriviamo, magari digitando sullo smartphone e pensando ad altro, entra comunque in un circuito reale di persone che leggono e, a loro volta, divulgano. Nel caso scrivessimo di fatti o circostanze penalmente rilevanti, saremmo in ogni caso chiamati a risponderne. Per paradosso ci saremo dentro molto di più di quanto potrebbe accadere se ci fossimo limitati a sparlare tra amici al bar, o a vergare elaborate sconcezze all’indirizzo di chiunque sia, di nascosto col pennarello sui muri di un gabinetto.
E’ fatale che, sempre più donne, usciranno allo scoperto e useranno un semplice post, o una foto, o un tweet per accendere una luce sulle vicende più indicibili delle loro “felicissime” unioni sentimentali. Ciò che noi intendevamo come privato non esiste più da anni, è ora che iniziamo a valutare il senso del tempo che viviamo. Anche i famosi panni sporchi, finora affidati per omertoso mandato alla lavatrice di famiglia, saranno sempre più sciorinati di fronte a migliaia e migliaia di perfetti sconosciuti, con tutte quelle imbarazzanti macchie che denunciano le nostre più vergognose incontinenze.
Un post non è più un gioco relegato alla realtà on line, può portare, come si è visto, a vere indagini nel mondo concreto. Comunque vada qualcuno sarà condannato a una pena, potrebbe accadere a chi abbia realmente usato violenza; come a chi abbia mentito, millantando quella violenza.
Dobbiamo pure evitare la facile conclusione che, chi scriva su Facebook di una ripugnante e sistematica violenza, sia fisica quanto psicologica, lo faccia pensandolo come alternativa a una regolare denuncia alle autorità competenti ad amministrare la legge. Spesso lo fa per proprio riuscire ad avere il sostegno e la forza per denunciare.
In rete magari si continuerà a pensare che sia tutto un gioco, ancora una volta si formeranno le due fazioni degli scettici e degli indignati. Ci saranno quelli che si sentiranno in dovere di sparare diagnosi, quadri clinici, analisi di segnali subliminali, elementi di scienza forense e medicina legale. A loro si contrapporranno feroci quelli che chiederanno lo smembramento del colpevole, la sua castrazione, la gogna, la ghigliottina, l’impalamento.
La rete sociale può solo suscitare il caso, ma non risolverlo. La certezza la darà solo la verifica dei fatti, che non spetta ad amici o followers.
Il folklore digitale, come sempre, lascerà il tempo che trova: per i prolissi commentatori non c’è mai molta differenza tra un gattino abbandonato o una donna pestata, l’importante é mostrare veemente spirito civico e sincera partecipazione emotiva.
«La Stampa» del 3 agosto 2013

Borgese: per il Duce non posso giurare

di Massimo Onofri
Chi, a Palermo, si decida a scalare le Madonie per arrivare sino a Polizzi Generosa, magari partendo da Cefalù, dopo una visita a quel capolavoro di Antonello da Messina che è il «Ritratto d’uomo» (meglio conosciuto come «dell’ignoto marinaio», glorificato da un bellissimo romanzo di Vincenzo Consolo), non dovrebbe dimenticare di leggere le pagine che Giuseppe Antonio Borgese dedica al paese – il suo natale – in Rubè (1921), celandolo sotto il nome di Calinni, accampato dentro un «paesaggio iperbolico», in cui tutto – «i colori, le linee, i suoni» – «è fuori proporzione e esasperato»: le case abbarbicate «sull’orlo del precipizio», sopra una montagna che sorpassa di poco i mille metri, «proiettata di sghembo verso il cielo», «inaccessibile e sacra» se guardata dal mare.
Proprio qui, dal 10 agosto, si sta svolgendo la IV edizione del Filmfestival sul Paesaggio, con più di 70 opere in concorso, che stasera alle 18, proprio nella piazza intitolata allo scrittore, culminerà nella presentazione – con interventi di Natale Tedesco, Mila Spicola, il presidente della Fondazione G.A. Borgese Clara Aiosa, oltre che dell’autore e dell’editore – di due importanti libri, che Navarra propone in cofanetto: il saggio No, io non giuro di Gandolfo Librizzi, direttore della Fondazione, e Le lettere a Mussolini che lo scrittore inviò il 18 agosto 1933 – esattamente 80 anni fa – e il 18 ottobre 1934, per motivare il suo rifiuto al giuramento di fedeltà al fascismo che il Duce aveva imposto ai professori universitari il 28 agosto 1931, unendosi infine al magrissimo manipolo dei tredici (su un totale di 1256) che non si era piegato all’imposizione.
Bisognerà aggiungere che le due lettere, pubblicate in Francia nel «Quaderno n. 12 di Giustizia e Libertà» – poi ristampate in Italia da Il Ponte di Piero Calamandrei, per la prima e unica volta, nel 1950 – non sono state più riproposte, pur costituendo un documento eccezionale dell’antifascismo militante, ma non ideologico, degli anni ’30.
Ho citato non a caso quel capolavoro della letteratura italiana novecentesca che è Rubè: un romanzo cui Borgese affida la sua biografia – e tutte le ambivalenze di uomo del suo tempo – come una spoglia ormai deposta e vivisezionata. Del resto, la morte ideologicamente equivoca del protagonista, deceduto per pura casualità durante uno scontro tra bolscevichi e fascisti che se lo contenderanno come eroe, rappresenta un punto di non ritorno, in quell’incipiente stagione di violenza e irrazionalità, che porterà il celebrato intellettuale siciliano, sempre più fedele a se stesso, a scrivere dall’esilio americano una memorabile lettera al giovanissimo Vitaliano Brancati, il quale ingenuamente gli chiedeva ragione del perché, considerata la natura della sua opera (dal fascistissimo Brancati completamente equivocata), non avesse aderito al fascismo. Lettera che Librizzi, molto giustamente, pone a epigrafe del suo densissimo libro: «Qualunque cosa valga la mia vita, essa è stata una testimonianza di dignità e ragione. Non mi fingerò fascista a cinquant’anni suonati. Non credo degno della destinazione umana esprimere un pensiero falso o mutilato. Potrebbe darsi ch’io dovessi trovarmi davanti all’alternativa di rovinare la mia vita o di corrompere l’anima. In questo caso Lei che mi vuole bene dovrebbe consigliare di scegliere l’anima»
La stessa inflessibilità morale che troveremo, poco dopo, nella prima lunga e complessa lettera a Mussolini, là dove, forte della lezione dantesca, per spiegare il perché non avesse mai ceduto neanche a una veniale adulazione del dittatore, confessa d’aver sempre seguito il principio «di astenersi dalla lode dei potenti», di rifuggire cioè, quando si è «soggetti a un’autorità personale illimitata, così dal "servo encomio" come "dal codardo oltraggio"». In No, io non giuro, Librizzi parte dalla constatazione dolorosa che gli autorevoli libri di Helmut Goetz (2000) e Giorgio Boatti (2001), nel ricostruire la storia di quei professori che si ribellarono al Regime, ignorano del tutto il nome di Borgese.
La domanda è legittima: mentre implicitamente conferma quella che è stata una delle più vergognose lapidazioni intellettuali della storia italiana del Novecento e che vide incredibilmente uniti, in una specie di damnatio memoriae ai danni di Borgese, non solo, com’è ovvio, i fascisti, ma anche la cultura laica, tanto quella crociana e liberale, quanto quella marxista, non importa se di matrice idealista o materialista. Una domanda così riassumibile: perché, mentre si assolvono – e giustamente, aggiungerei – alcuni personaggi della migliore cultura antifascista, che pure si piegarono al giuramento (nomi del calibro di Luigi Einaudi, Piero Calamandrei, Giuseppe Lombardo Radice), si continuano a proiettare su Borgese – che mai cedette ad alcuna lusinga fascista, e mai aderì ad alcunché – sospetti di collusione col nemico?
Librizzi, seppure animato da fortissima e sentimentale consentaneità col suo conterraneo, forte anche di una conoscenza di prima mano di tutta l’opera borgesiana, sta ai fatti e intreccia con pazienza filologica tutti i fili di questa complessa tela storico-intellettuale, accedendo, per la prima volta, a documenti inediti di straordinaria rilevanza: non solo alcune lettere ai familiari acquisite di recente dalla Fondazione, ma, soprattutto, i diari vergati dallo scrittore nei suoi anni americani, anni ancora in gran parte sconosciuti, che aspettano di essere studiati con dovizia e metodo: non tanto per i rapporti notissimi che il siciliano ebbe con Thomas Mann, sposandone la figlia in seconde nozze, quanto per le consonanze di certi libri di questo periodo – penso allo stupefacente Idea della Russia, tradotto in italiano nel 1951 –, che, per dirne una, non possono non far pensare alle coeve ricerche filosofico-politiche di un Leo Strauss, il quale, come il Borgese di questi anni, studiava e giudicava la contemporaneità col metro del grande pensiero greco classico.
«Avvenire» del 17 agosto 2013

17 agosto 2013

Cesare Cavalleri: Neoavanguardia, terremoto vano

Gruppo 63 / 3
di Alessandro Zaccuri
Quando si parla di Gruppo 63 e din­torni, Cesare Ca­valleri non ha esi­tazioni: «Per me il poeta più importante di quella stagione rimane Antonio Porta – dice –. L’avevo conosciuto prima di sa­pere della sua attività let­teraria: il suo vero nome, com’è noto, era Leo Pao­lazzi e apparteneva a una famiglia della buona bor­ghesia imprenditoriale. Condizione comune ad altri autori della Neoa­vanguardia, questa di provenire da un contesto facoltoso. Se non altro, così veniva liquidato il mito del poeta derelitto. Nei primi anni Sessanta, dunque, ero andato a trovare questo Leo Pao­lazzi con l’intento di ven­dergli un po’ di libri delle Edizioni Ares. Poco più tardi sono venuti i Novis­simi e quel piccolo libro di Porta dal formato qua­drato, Aprire, pubblicato da Scheiwiller nel ’64. Bellissimo, una vera sco­perta ». Da allora è passa­to più di mezzo secolo. Dell’Ares, e della rivista “Studi Cattolici”, Cavalle­ri è diventato direttore, ma non ha mai smesso di leggere e scandagliare i testi della Neoavanguar­dia. Predilezione curiosa, in un cattolico severo co­me lui. «Ma questo non c’entra nulla – puntualiz­za con il solito gusto del paradosso –. Del resto, il ruolo dei cattolici nella letteratura del Novecento è stato talmente margi­nale ... ».
Insomma, nel ’63 non c’era scelta: quelli del Gruppo andavano letti per forza?
«Andavano lette, come sempre, le singole opere. Ancora oggi per me il va­lore della Neoavanguar­dia sta nelle personalità che si sono formate al suo interno. Non era una realtà omogenea, come non lo erano state le a­vanguardie storiche o le riviste d’inizio secolo. Possiamo parlare, sem­mai, di tratti di strada che gli scrittori percorro­no insieme, per afferma­re ciascuno la sua indivi­dualità ».
E questa strada comune in che direzione andava?
«Verso lo svecchiamento del modo di fare poesia. In questo il ruolo della Neovanguardia è stato fondamentale, non di­versamente da come era accaduto con il Futuri­smo, con Ungaretti, con l’Ermetismo. I Novissimi e i loro compagni di stra­da si impegnavano per­ché la letteratura aderis­se alla nuova civiltà delle macchine e lo facevano adoperando gli strumen­ti dello strutturalismo. È stata la forza del Gruppo 63, ma anche il suo limi­te. L’insistenza sul carat­tere formale, statistico e combinatorio dell’opera ha finito per esaurirsi in se stesso. Concentrarsi e­sclusivamente sulle co­stanti che agiscono nella struttura del testo è un po’ come fermarsi al fat­to che in ogni composi­zione musicale so­no presenti le stesse sette note. Questo è evidente, quello che conta è l’abilità con cui autori diversi ci danno musiche di­verse, poesie e ro­manzi diversi».
Una rivincita della tradizione, dun­que?
«La mia impressio­ne è che, nella loro volontà di imporre pole­micamente il nuovo, gli scrittori della Neoavan­guardia abbiano scelto spesso i bersagli sbaglia­ti. Penso ai giudizi inge­nerosi su Bassani e Cas­sola, ma anche alle accu­se rivolte a Pasolini, che tra l’altro in quegli stessi anni stava dimostrando tutta la sua grandezza di poeta».
Come mai questa in­comprensione?
«La Neoavanguardia par­tiva da un atteggiamen­to, di per sé salutare, di negazione rispetto al passato. Saper dire “no” è importante, anche in let­teratura. Ma non si può dire sempre e soltanto “no”. Ci sono momenti in cui la critica deve essere distruttiva, a patto che sulle macerie causate dalla critica arrivi qual­cun altro in grado di co­struire. A mancare è stata proprio questa seconda fase».
La fase delle opere?
«Bisogna avere il corag­gio di ammettere che, purtroppo, ne rimango­no poche. Tutta la prima parte della produzione di Porta, appunto, e non poche prove di Balestri­ni. Ma Giuliani e Sangui­neti restano più critici che poeti. Coltissimi e a volte divertentissimi, in­capaci però di lasciare traccia. In altri casi, poi, la statura individuale era già talmente robusta da prescindere dall’apparte­nenza al gruppo. Un poe­ta come Pagliarani, un prosatore come Arbasi­no, un intellettuale come Eco hanno più dato alla Neoavanguardia rispetto a quanto abbiano ricevu­to. La vera funzione fu, semmai, verso l’esterno».
In che senso?
«Un libro straordinario come Per il battesimo dei nostri frammenti di Ma­rio Luzi sarebbe impen­sabile senza lo choc dei Novissimi. E lo stesso va­le per l’ultimo Montale. Dal tramonto dell’Erme­tismo in avanti, la poesia italiana è fortemente in­fluenzata dalla Neoavan­guardia, con la quale tut­ti gli autori si sono dovuti confrontare, spesso im­parando molto. Nella prospettiva di questa scossa, peraltro più che positiva, credo che non si possa non parlare di un “prima” e di un “dopo” il Gruppo 63».
Un’esperienza simile sarebbe riproponibile oggi?
«Erano anni di grande fervore, non soltanto in letteratura, ma anche nelle arti visive, secondo quella tendenza alla glo­balità che i movimenti d’avanguardia hanno sempre espresso a parti­re dal Futurismo. E c’era l’aspetto della militanza politica, che in genere non giova alla letteratu­ra. Più che altro, c’era u­na rete di relazioni per­sonali che oggi è sostitu­ta dalla virtualità di In­ternet: ci si illude di es­sere in contatto con un gran numero di persone e proprio questo impe­disce di costituirsi in gruppo».
«Avvenire» del 17 agosto 2013

Sui social network trionfa il '68 digitale

Annullamento delle gerarchie culturali, ideologia del tutto gratis, omologazione: la rete a volte fa danni
di Massimiliano Parente
Se fotografiamo ogni istante della nostra vita, quali sono gli istanti eccezionali? Se lo è chiesto, su La Stampa, Gianluca Nicoletti, uno che tra l'altro nella vita ha trascorso un anno in Second Life e ci ha scritto un libro, non certamente un passatista.
Di fatto abbiamo gli hard disk pieni di immagini quotidiane equivalenti, una vale l'altra.
È un esempio tra i tanti dell'annullamento gerarchico della digitalizzazione. Quest'ultimo, paradossalmente, estendendo il discorso alla rete, pare un fenomeno più di matrice marxista che capitalista. Pasolini, che era marxista, la chiamava omologazione, ma credeva sarebbe giunta dall'alto, invece è arrivata dal basso. Viceversa Aldo Busi, che marxista non è, ha denunciato la fine della civiltà letteraria: i romanzi saranno tutti uguali perché privati di «un filtro industriale», ovvero di un sistema verticale di riferimento. Attenzione: non è nostalgia della campagna, al contrario dell'industria, e Busi pone un problema di selezione. In altri termini oggi Proust non avrebbe dovuto convincere André Gide, avrebbe pubblicato la Recherche su Amazon e nessuno se ne sarebbe accorto.
Anche a me, che non sono marxista e quando la batteria dell'iPhone si scarica mi sento morire, viene da pensare che se il futuro del libro è l'ebook, il futuro dell'ebook è il self publishing di massa, cioè l'indistinto. D'altra parte stessa sorte sta toccando ai giornali, settore in cui la svolta non è la sostituzione della versione elettronica a quella cartacea. Non è il mezzo il problema, piuttosto la cancellazione di qualsiasi differenza di autorevolezza, e quindi di gerarchia, di competenza, di verifica minima delle fonti.
Non conta chi ha scritto cosa, conta il commento su Facebook e Twitter, in genere espressione di un qualunquismo senza speranze, una Piazzale Loreto virtuale, frettolosa e cialtrona, dove ogni giorno piccoli opinionisti crescono. Il blog, il tweet, lo status, vincono sulle referenze e le qualifiche, percepite come strutture mediatiche gestite dall'alto. Oscar Giannino non l'ha capito, doveva vantarsi di non avere nessuna laurea per vincere le elezioni in nome della meritocrazia.
È il potere intellettuale della doxa, di cui da noi il movimento di Grillo è solo un effetto, con lo sbarco in Parlamento dell'uomo comune, il cittadino. E se la vecchia casta era pessima, i figli del web sono perfino peggio. Un fenomeno condito in Italia da un certo provincialismo esaltato per il «popolo della rete». Infatti il problema è proprio il popolo, la primavera non araba del pensiero semplice. Oltretutto in nome della «decrescita felice», però attraverso internet, altro paradosso.
Con contaminazioni di incompetenza reciproche dal basso all'alto, hai voglia a spiegare alla comunità scientifica e a Nature per quale motivo abbiamo autorizzato una terapia priva di protocolli scientifici come Stamina o perché abbiamo vietato le ricerche sulle staminali embrionali. Inutile anche spiegarlo a chiunque altro, vi obietterà che non è così, la verità l'ha letta «in rete», sebbene come fonte sia l'equivalente di un muro del cesso.
Italo Calvino individuò epistemologicamente un agosciante «mare dell'oggettività», il quale era comunque un mare di informazioni, mentre oggi anneghiamo nel mare della soggettività. Non un eccesso di informazioni, ma la loro parificazione neppure mercificata. Contano soltanto le opinioni, un totem di gelatina da rispettare, tanto sono tutte uguali, sganciate da ogni conoscenza. Nessuno avrebbe mai pensato, fino a dieci anni fa, che l'abbattimento di ogni gerarchia culturale, il comunismo del pensiero, sarebbe arrivato dallo strumento più avanzato di interconnessione globale inventato dal capitalismo. Casomai un vecchio critico come Harold Bloom se la prendeva con il multiculturalismo, una tendenza comunque arrivata a contaminare i Nobel per la letteratura.
Tutti sanno tutto di tutto e alla fine niente, e a questo aggiungerei la pretesa di gratuità di qualsiasi prodotto dell'ingegno, il sessantottismo digitale: non si vuole pagare per ascoltare una canzone, né per vedere una serie televisiva, né per scaricare un'app. Si ribalta una bella considerazione di Cesare Pavese: «Le cose gratuite costano di più: costano lo sforzo necessario a capire che sono gratuite». Il nuovo mestiere di vivere è gratis. Fino a tre anni fa ci svenavamo per mandare sms, ora è il panico se Whatsapp chiede un abbonamento di 0,89 centesimi all'anno, è già troppo. Ignoranti, uguali e pidocchi. È crollata perfino l'industria del porno, perché abbiamo tutto il porno che vogliamo, senza sborsare un euro, mentre sarebbe giusto pagare per vedere Sasha Grey, con tutta la fatica che ha fatto. Come risultato il nuovo Homo Sapiens ha la soglia di attenzione di una mosca. Alla fine si salverà solo la ricerca scientifica, perché almeno quella, per il momento, non ha bisogno un pubblico.
«Il Giornale» del 24 luglio 2013

L’ultimo Dan Brown? Sembra copiato da una guida turistica

I fiorentini descritti nel predestinato bestseller fanno colazione con olive al forno e lampredotto
di Silvia Guidi
Spiace ammetterlo, ma è divertente. Soprattutto per chi è nato a Firenze e la conosce bene, ma anche per chi ha visitato la città da turista. Durante la lettura — il libro di cui stiamo parlando è l’ultimo thriller storico-esoterico di Dan Brown Inferno (nella traduzione italiana: Milano, Mondadori, 2013, pagine 522, euro 25) — capita di imbattersi in passi dalla comicità involontaria davvero irresistibile. Gli indigeni, i pronipoti di Dante degli anni Dieci del Duemila descritti dall’autore, sono strani personaggi dalle abitudini incomprensibili: mangiano olive al forno e lampredotto a colazione, invadono con nuvole di fumo misto a pungente aroma di caffè espresso gli ascensori e in ogni singolo ambiente chiuso, ospedali compresi — i sopralluoghi dell’autore in Italia si sono svolti evidentemente prima dell’entrata in vigore della legge Sirchia — e riempiono di statue di uomini nudi la piazza più importante della città. Il professor Robert Langdon — lo stesso de Il codice da Vinci, Angeli e demoni, Il simbolo perduto, ne conta, sconcertato, almeno dieci: oltre alla copia del David di Michelangelo e al Biancone dell’Ammannati c’è persino una schiera di satiri accanto al Nettuno, in piazza della Signoria. Integralmente nudi, precisa con bizzarra pruderie.
Nota a margine per i non toscani: il lampredotto è uno dei quattro stomaci dei bovini, l’abomaso, che viene cotto a lungo con pomodoro, cipolla, prezzemolo, sedano e condito con salsa verde e olio piccante; un piatto povero tipico della cucina locale buonissimo ma inadatto ad accompagnare il cappuccino. Come le olive, del resto, più consone al Martini agitato, non mescolato di James Bond che a una colazione all’ombra del campanile di Giotto.
Sono davvero strani, dicevamo, questi fiorentini. Le autorità locali traggono in inganno i turisti con cartelli ambigui: la scritta «Porta del Paradiso» deve essere messa sulla Porta del Paradiso, ammonisce l’autore, non sull’inferriata di protezione, altrimenti i visitatori scambieranno il capolavoro dell’arte orafa famoso in tutto il mondo per un normale cancello come se ne trovano a migliaia in New England. Il Battistero è bellissimo, niente da eccepire, ma quanto a senso pratico, la popolazione locale non merita la sufficienza. Anche dai migliori, tra gli autoctoni, arrivano brutte sorprese, pure gli artisti più celebri commettono errori grossolani: Lorenzo Ghiberti è stato piuttosto bravo nel realizzare le formelle in bronzo dorato della porta, ma si è dimenticato un elemento essenziale come la maniglia.
Mentre si aggira fra dipinti e celebri statue, il nostro Robert descrive la città con la stessa quieta, rassicurante piattezza di una guida turistica tascabile. «La narrazione — chiosa perfidamente Monica Hesse, «The Washington Post» — sembra tratta da una guida Fodor’s, come quando Langdon si interrompe nel bel mezzo di una fuga, in un momento che potrebbe costargli la vita, per ricordare la storia di un ponte. È come cercare di risolvere un mistero mentre un’audioguida ti pende dalle orecchie: “Passate sopra questo corpo riverso e digitate 32 per conoscere i dettagli sulla scatola di velluto contenente la maschera mortuaria di Dante, nel Palazzo Vecchio”». Per ulteriori informazioni sugli orari del museo e i giorni di chiusura attendere il segnale acustico, grazie.
Il placido Robert si risveglia dal letargo e diventa improvvisamente sarcastico solo quando parla di temi che riguardano la Chiesa. Anche se l’azione si svolge a Firenze, continua a citare a ogni pie’ sospinto il Vaticano. La stessa Sienna Brooks, l’affascinante coprotagonista, non manca di notare la strana ossessione del suo compagno di avventure: siamo nel giardino di Boboli, che c’entra San Pietro? «Sienna non aveva idea di cosa c’entrasse il Vaticano con la loro situazione — si legge nell’edizione italiana a pagina 142, e il lettore non può che convenirne — ma Langdon prese ad annuire, continuando a guardare verso est e il retro del Palazzo». Miss Brooks, dotata di una buona dose di sensibilità oltre che di un abnorme quoziente di intelligenza, non approfondisce oltre. «Ad ogni poeta manca un canto», come si dice a Firenze, e Sienna è teneramente indulgente verso il suo Robert. Saggiamente il professor Langdon preferisce glissare sul tema quoziente di intelligenza e non far cenno al proprio, visto che nel corso della trama cade in ogni trappola possibile, dalle più banali alle più sofisticate, si fida sistematicamente delle persone sbagliate, controlla la mail dal primo portatile che gli capita a tiro fornendo le coordinate precise del suo nascondiglio ai suoi supertecnologici nemici («si può essere così stupidi?» si domanda a pagina 77 uno dei cattivi del libro, a capo del Consortium, una sorta di Spectre internazionale), cade nel più nero sconforto perché ha perso il suo amato orologio di Topolino, si perde in divagazioni erudite mentre un commando armato fino ai denti lo attende sotto casa, rischia l’attacco di panico perché non riesce a trovare una libreria aperta di lunedì — ma il giorno di riposo non era la domenica? Dove lo trovo un testo della Divina Commedia a Firenze? Ci sono i poster per turisti con il testo integrale, ma il carattere è troppo piccolo, tocca chiedere in prestito l’iPhone di una connazionale e sperare che accetti di pagare il costo dell’accesso a internet. Proviamo a fare un salto nella Chiesa di Dante, Santa Margherita de’ Cerchi, forse qualche citazione sui depliant per turisti, accanto alla (peraltro finta) lapide di Beatrice Portinari, riesco a rimediarla (sintesi libera ma realistica del testo).
Tornano in mente le parole della quarta di copertina: «È normale che a Firenze Robert Langdon sia di casa, che il David e piazza della Signoria, il giardino di Boboli e Palazzo Vecchio siano per lui uno sfondo familiare, una costellazione culturale e affettiva ben diversa dal palcoscenico turistico percorso in tutti i sensi di marcia da legioni di visitatori». Un’excusatio non petita che era meglio evitare. Ha uno strano modo di esternare il suo amore per l’arte, il professore di simbologia famoso in tutto il mondo: usa la fonte battesimale del “bel San Giovanni” come un lavandino, smacchia la maschera funebre di Dante con uno strofinaccio, danneggia in modo irreparabile L’Apoteosi di Cosimo i del suo amato Giorgio Vasari saltando incautamente da una trave all’altra — con killer al seguito ovviamente — nel controsoffitto del Salone dei Cinquecento. Ma forse è colpa dell’amnesia retrograda — vera o presunta? Naturale o indotta con dosi da cavalli di benzodiazepine? Non sveliamo di più — che rallenta provvisoriamente le prodigiose facoltà cognitive del professore, l’espediente narrativo su cui si regge praticamente tutta la complessa intelaiatura della trama. «Le parti iniziali di Inferno — scrive Janet Maslin su «The New York Times» — si avvicinano così tanto a un’auto-parodia che il signor Brown sembra aver perso se stesso come Langdon, che inizia il libro in un letto di ospedale». I cattivi, invece sono dotati di super poteri e facoltà visive eccezionali: il genio della biologia svizzero Bertrand Zobrist, leader del movimento Transumanista, riesce a guardare negli occhi per un ultimo struggente congedo dalla vita il suo amato bene — che lo aspetta in strada, vicino al Bargello — dal campanile della Badia fiorentina, a settanta metri da terra. Senza binocolo, naturalmente.
Ma Firenze non è l’unica location del libro. Il rapido precipitare degli eventi — una rocambolesca caccia al tesoro, che, per quanto scombinata e ribaltata da colpi di scena poco credibili e troppo frequenti riesce comunque ad agganciare l’attenzione del lettore — porta Robert e Sienna a bordo di un treno diretto al nord. La città cambia ma l’ipersensibilità olfattiva continua, accompagnata da altre incongruenze gastronomiche: Langdon si accorge di essere a Venezia grazie all’inequivocabile profumo di seppie al nero che aleggia costantemente sui canali, più forte della salsedine e dell’odore di nafta dei vaporetti. Chissà quale sito in stile tripadvisor avrà dato origine a un copia-incolla così surreale. Ma la vera domanda è: possibile che passi simili abbiano superato il filtro di un plotone di editor e il senso critico dell’équipe di traduttori disposti a lasciarsi chiudere in un bunker per mantenere il segreto sul testo fino all’ultimo minuto? Misteri dei best-seller contemporanei.
Gli errori storici non mancano e c’è chi si è già preso la briga di elencarli tutti, ma in fondo i thriller di Dan Brown sono una lettura da spiaggia senza pretese, e in questo caso la Commedia di Dante è solo un pretesto narrativo, una scenografia dipinta a tinte forti per facilitare il lavoro agli sceneggiatori che porteranno ben presto Inferno sul grande schermo.
Quello che produce un leggero fastidio sono le prediche eugenetiche contenute in un libro che simpatizza apertamente con il cattivo, uno scienziato pazzo che ha perso il lume dell’intelletto perché incompreso dalle ottuse menti oscurantiste dei contemporanei. Uno psicopatico pericoloso che però, in realtà — secondo la quasi totalità dei personaggi, e quindi anche secondo l’autore — ha ragione.
I transumanisti di Bertrand Zobrist sono l’ennesimo travestimento del “super uomo” di Nietzsche, unito in un cocktail letale per il lettore a deliri malthusiani sui pericoli della sovrappopolazione, ampiamente confutati già dalla fine del Settecento ma citati come scientificamente attendibili. «Il fine giustifica i mezzi» spiega l’autore, attribuendo ovviamente la frase a Machiavelli anche se nei testi dello scrittore toscano non c’è, come si può comodamente leggere su Wikipedia; quel che è certo è che l’umanità, secondo quella ristretta élite che si sente autorizzata dalla propria presunta superiorità a decidere per il bene di tutti, deve essere drasticamente sfoltita, epurata, selezionata. Le guerre in corso non bastano, servirebbe una bella epidemia globale. Peccato che la peste nera sia un ricordo del passato (o forse no, se la tecnologia lo consente). Tutto si fonda sulla convinzione che l’uomo è un essere “sbagliato” da riprogrammare; il fatto che gradisca o meno di essere riprogrammato è un dettaglio irrilevante. Viene ribadito più volte, nel corso del libro, il disprezzo per il gregge umano che non accetta di essere migliorato, e per quelle masse ottuse che si ostinano inesplicabilmente ad amare la vita, a fidarsi di quello che vedono e vivono tutti i giorni piuttosto che dar credito a schemi matematici astratti, basati su presupposti sbagliati e più volte smentiti dalla storia. Una propaganda, questa sì, davvero virale e tossica, che suona grottesca e fuori tempo massimo nel lungo inverno demografico che ha colpito buona parte dell’europa e del mondo.
Attraverso il personaggio del Rettore — un cattivo un po’ meno cattivo degli altri — l’autore sembra quasi descrivere, consapevolmente o meno, se stesso. «Io mi guadagno da vivere con l’inganno. Io fornisco disinformazione» dice il capo del Consortium mentre veleggia al largo dell’Italia a bordo dello yacht Mendacium (nomen omen) preoccupato dalla punizione karmica che si abbatte su chi frequenta troppo spesso la mistificazione. «Il Rettore non era certo l’unico al mondo a fabbricare menzogne (...) Che si trattasse di sostenere un mercato azionario, giustificare una guerra, vincere un’elezione o stanare dei terroristi, i mercanti di potere si affidavano a programmi di disinformazione di massa per plasmare l’opinione pubblica. Era sempre stato così».
Qualche battuta davvero spiritosa c’è nelle 522 pagine del libro, come l’allegro cinismo dell’editor americano Jonas Faukman, un personaggio che purtroppo fa un’apparizione fugace: «Non abbiamo a disposizione jet privati per gli autori di tomi sulla storia delle religioni — spiega Faukman rispondendo alla richiesta di aiuto di Langdon che lo ha tirato giù dal letto alle quattro di mattina, incurante dei fusi orari — Se hai intenzione di scrivere Cinquanta sfumature di iconografia ne possiamo parlare».
«L'Osservatore romano» del 13 agosto 2013