Gruppo 63 / Quarta puntata
di Alessandro Zaccuri
«E no, così è troppo facile. Come la storia del coltello, no? Cambi la lama, cambi il manico: è ancora il coltello di prima?». Andrea Cortellessa la butta sul paradosso, ma si capisce che il Gruppo 63 per lui non è un argomento da risolvere con una battuta. Docente di Letterature comparate a Roma Tre, è tra i redattori di «Alfabeta 2», prosecuzione multimediale di una delle più celebri riviste della controcultura. Un paio di anni fa è stato tra i fautori del fenomeno Tq, sigla che stava per «trenta-quarantenni» e si proponeva di dare compattezza a un’intera generazione di scrittori e intellettuali. Proprio come il Gruppo 63 all’epoca del miracolo economico. In questi giorni sta lavorando a una nuova edizione del Romanzo sperimentale, uno dei testi-cardine della Neoavanguardia, in procinto di essere ripubblicato dall’Orma.
Scusi, ma il coltello che c’entra?
C’entra, c’entra. Non si può ripetere che Arbasino e Manganelli sono autori importanti, ma non hanno nulla a che vedere con il Gruppo 63. Ragionando così, continuando a sottrarre nomi e opere, della Neoavanguardia non resta nulla. O, meglio, restano solo gli equivoci.
Ma l’impostazione corretta quale sarebbe?
Quella suggerita proprio da Manganelli all’altezza del 1964: distinguere il laboratorio, in cui si sperimentano i prototipi, dalla catena di montaggio, dalla quale escono i modelli già collaudati. Se si osserva con attenzione la parabola del Gruppo 63, ci si accorge che la prima dimensione, quella del laboratorio, è predominante. Non per niente si parla di romanzo sperimentale, non di romanzo d’avanguardia, utilizzando una teminologia che, a rigore, apparterrebbe più all’ambiente rivale di Vittorini o di una rivista come “Officina”.
Laboratorio, catena di montaggio, officina ...
Sì, sono tutte immagini che vengono dal mondo del lavoro e che rappresentano bene, a mio parere, la mobilità di quel periodo. Le Avanguardie storiche, infatti, avevano conosciuto una deriva di tipo “aziendalista”, secondo la definizione di Glauco Viazzi: non solo la produzione in serie aveva finito per imporsi, ma ci si era irrigiditi in manifesti e organigrammi, con il relativo corollario di espulsioni e condanne. Nella Neoavanguardia italiana non accade nulla di simile. I confini restano permeabili, le appartenenze sono continuamente rinegoziate. Rimane una base comune, costituita dal rifiuto dello status quo culturale e letterario. Ma ognuno esprime questo rifiuto a modo suo, senza necessità di assoggettarsi a parole d’ordine prestabilite. Neppure la “riduzione dell’io”, indicata da Giuliani come elemento identificativo dei Novissimi, si trasforma in precetto. Semmai, è la registrazione di un processo che ciascun poeta ha già messo in atto per conto suo.
Nessuna tendenza corporativa?
Umberto Eco lo ha ripetuto spesso: nel ’63 i giovani del Gruppo avevano già il loro posto nel mondo, lavoravano in tv e nei giornali. La polemica contro il sistema poteva solo danneggiarli. La “mafia” dell’avanguardia, sulla quale ironizzava il solito Manganelli, era un’idea che tradiva piuttosto la coda di paglia degli accusatori.
Una qualche ambizione egemonica, però, ci sarà pure stata.
Ma non si è realizzata. Per fortuna, mi verrebbe da aggiungere. Del resto, se una debolezza può essere individuata nell’esperienza della Neoavanguardia, è esattamente questa mancanza di compattezza ideologica, questa incapacità di inquadrarsi in un battaglione o addirittura in una setta, come era accaduto per esempio al Surrealismo. Quella del Gruppo 63 era un’avanguardia “debole”, perfettamente postmoderna. Un ossimoro, a ben vedere. Una magnifica contraddizione in termini».
Ma il postmoderno poi si è impossessato dei meccanismi della Neoavanguardia, trasformandoli in prodotti di massa.
I narratori sperimentali insistevano sull’aspetto artificiale del racconto e la loro destrutturazione aveva un intento provocatorio. Smontavano il romanzo mettendolo tra virgolette. In seguito l’industria culturale ha tolto le virgolette, con i risultati che vediamo. Ma questo non può essere imputato al Gruppo 63, così come gli orrori del nazismo non possono essere imputati alla durezza del cinema espressionista tedesco tra gli anni Dieci e Venti. In un caso come nell’altro si tratta di uno sguardo che registra l’orrore e l’alienazione, senza tuttavia rendersene complice. Dal mio punto di vista rimane molto più colpevole l’atteggiamento dei narratori tradizionali, che preferivano chiudere gli occhi davanti alle conseguenze dell’industrializzazione del Paese. Specie in un momento come l’attuale, dovremmo nutrire gratitudine verso gli intellettuali che allora, in un tempo apparentemente felice per l’economia italiana, hanno saputo intuire le conseguenze di processi che oggi si rivelano di portata disastrosa».
Sicuro che non ci siano mai state concessioni al mercato?
Negli anni Sessanta no. L’editore di riferimento era Feltrinelli, che grazie ai best seller di qualità (Il Gattopardo, Il dottor Zivago) poteva permettersi di rischiare con gli autori sperimentali. Un equilibro che si rompe alla fine degli anni Settanta, quando Pier Vittorio Tondelli presenta il manoscritto di Altri libertini a Feltrinelli e Aldo Tagliaferri, che era stato uno dei protagonisti del Gruppo 63, gli dice che così non va bene, che bisogna sistemare, normalizzare, rendere più leggibile».
Scusi, ma il coltello che c’entra?
C’entra, c’entra. Non si può ripetere che Arbasino e Manganelli sono autori importanti, ma non hanno nulla a che vedere con il Gruppo 63. Ragionando così, continuando a sottrarre nomi e opere, della Neoavanguardia non resta nulla. O, meglio, restano solo gli equivoci.
Ma l’impostazione corretta quale sarebbe?
Quella suggerita proprio da Manganelli all’altezza del 1964: distinguere il laboratorio, in cui si sperimentano i prototipi, dalla catena di montaggio, dalla quale escono i modelli già collaudati. Se si osserva con attenzione la parabola del Gruppo 63, ci si accorge che la prima dimensione, quella del laboratorio, è predominante. Non per niente si parla di romanzo sperimentale, non di romanzo d’avanguardia, utilizzando una teminologia che, a rigore, apparterrebbe più all’ambiente rivale di Vittorini o di una rivista come “Officina”.
Laboratorio, catena di montaggio, officina ...
Sì, sono tutte immagini che vengono dal mondo del lavoro e che rappresentano bene, a mio parere, la mobilità di quel periodo. Le Avanguardie storiche, infatti, avevano conosciuto una deriva di tipo “aziendalista”, secondo la definizione di Glauco Viazzi: non solo la produzione in serie aveva finito per imporsi, ma ci si era irrigiditi in manifesti e organigrammi, con il relativo corollario di espulsioni e condanne. Nella Neoavanguardia italiana non accade nulla di simile. I confini restano permeabili, le appartenenze sono continuamente rinegoziate. Rimane una base comune, costituita dal rifiuto dello status quo culturale e letterario. Ma ognuno esprime questo rifiuto a modo suo, senza necessità di assoggettarsi a parole d’ordine prestabilite. Neppure la “riduzione dell’io”, indicata da Giuliani come elemento identificativo dei Novissimi, si trasforma in precetto. Semmai, è la registrazione di un processo che ciascun poeta ha già messo in atto per conto suo.
Nessuna tendenza corporativa?
Umberto Eco lo ha ripetuto spesso: nel ’63 i giovani del Gruppo avevano già il loro posto nel mondo, lavoravano in tv e nei giornali. La polemica contro il sistema poteva solo danneggiarli. La “mafia” dell’avanguardia, sulla quale ironizzava il solito Manganelli, era un’idea che tradiva piuttosto la coda di paglia degli accusatori.
Una qualche ambizione egemonica, però, ci sarà pure stata.
Ma non si è realizzata. Per fortuna, mi verrebbe da aggiungere. Del resto, se una debolezza può essere individuata nell’esperienza della Neoavanguardia, è esattamente questa mancanza di compattezza ideologica, questa incapacità di inquadrarsi in un battaglione o addirittura in una setta, come era accaduto per esempio al Surrealismo. Quella del Gruppo 63 era un’avanguardia “debole”, perfettamente postmoderna. Un ossimoro, a ben vedere. Una magnifica contraddizione in termini».
Ma il postmoderno poi si è impossessato dei meccanismi della Neoavanguardia, trasformandoli in prodotti di massa.
I narratori sperimentali insistevano sull’aspetto artificiale del racconto e la loro destrutturazione aveva un intento provocatorio. Smontavano il romanzo mettendolo tra virgolette. In seguito l’industria culturale ha tolto le virgolette, con i risultati che vediamo. Ma questo non può essere imputato al Gruppo 63, così come gli orrori del nazismo non possono essere imputati alla durezza del cinema espressionista tedesco tra gli anni Dieci e Venti. In un caso come nell’altro si tratta di uno sguardo che registra l’orrore e l’alienazione, senza tuttavia rendersene complice. Dal mio punto di vista rimane molto più colpevole l’atteggiamento dei narratori tradizionali, che preferivano chiudere gli occhi davanti alle conseguenze dell’industrializzazione del Paese. Specie in un momento come l’attuale, dovremmo nutrire gratitudine verso gli intellettuali che allora, in un tempo apparentemente felice per l’economia italiana, hanno saputo intuire le conseguenze di processi che oggi si rivelano di portata disastrosa».
Sicuro che non ci siano mai state concessioni al mercato?
Negli anni Sessanta no. L’editore di riferimento era Feltrinelli, che grazie ai best seller di qualità (Il Gattopardo, Il dottor Zivago) poteva permettersi di rischiare con gli autori sperimentali. Un equilibro che si rompe alla fine degli anni Settanta, quando Pier Vittorio Tondelli presenta il manoscritto di Altri libertini a Feltrinelli e Aldo Tagliaferri, che era stato uno dei protagonisti del Gruppo 63, gli dice che così non va bene, che bisogna sistemare, normalizzare, rendere più leggibile».
«Avvenire» del 24 agosto 2013
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