18 agosto 2013

Borgese: per il Duce non posso giurare

di Massimo Onofri
Chi, a Palermo, si decida a scalare le Madonie per arrivare sino a Polizzi Generosa, magari partendo da Cefalù, dopo una visita a quel capolavoro di Antonello da Messina che è il «Ritratto d’uomo» (meglio conosciuto come «dell’ignoto marinaio», glorificato da un bellissimo romanzo di Vincenzo Consolo), non dovrebbe dimenticare di leggere le pagine che Giuseppe Antonio Borgese dedica al paese – il suo natale – in Rubè (1921), celandolo sotto il nome di Calinni, accampato dentro un «paesaggio iperbolico», in cui tutto – «i colori, le linee, i suoni» – «è fuori proporzione e esasperato»: le case abbarbicate «sull’orlo del precipizio», sopra una montagna che sorpassa di poco i mille metri, «proiettata di sghembo verso il cielo», «inaccessibile e sacra» se guardata dal mare.
Proprio qui, dal 10 agosto, si sta svolgendo la IV edizione del Filmfestival sul Paesaggio, con più di 70 opere in concorso, che stasera alle 18, proprio nella piazza intitolata allo scrittore, culminerà nella presentazione – con interventi di Natale Tedesco, Mila Spicola, il presidente della Fondazione G.A. Borgese Clara Aiosa, oltre che dell’autore e dell’editore – di due importanti libri, che Navarra propone in cofanetto: il saggio No, io non giuro di Gandolfo Librizzi, direttore della Fondazione, e Le lettere a Mussolini che lo scrittore inviò il 18 agosto 1933 – esattamente 80 anni fa – e il 18 ottobre 1934, per motivare il suo rifiuto al giuramento di fedeltà al fascismo che il Duce aveva imposto ai professori universitari il 28 agosto 1931, unendosi infine al magrissimo manipolo dei tredici (su un totale di 1256) che non si era piegato all’imposizione.
Bisognerà aggiungere che le due lettere, pubblicate in Francia nel «Quaderno n. 12 di Giustizia e Libertà» – poi ristampate in Italia da Il Ponte di Piero Calamandrei, per la prima e unica volta, nel 1950 – non sono state più riproposte, pur costituendo un documento eccezionale dell’antifascismo militante, ma non ideologico, degli anni ’30.
Ho citato non a caso quel capolavoro della letteratura italiana novecentesca che è Rubè: un romanzo cui Borgese affida la sua biografia – e tutte le ambivalenze di uomo del suo tempo – come una spoglia ormai deposta e vivisezionata. Del resto, la morte ideologicamente equivoca del protagonista, deceduto per pura casualità durante uno scontro tra bolscevichi e fascisti che se lo contenderanno come eroe, rappresenta un punto di non ritorno, in quell’incipiente stagione di violenza e irrazionalità, che porterà il celebrato intellettuale siciliano, sempre più fedele a se stesso, a scrivere dall’esilio americano una memorabile lettera al giovanissimo Vitaliano Brancati, il quale ingenuamente gli chiedeva ragione del perché, considerata la natura della sua opera (dal fascistissimo Brancati completamente equivocata), non avesse aderito al fascismo. Lettera che Librizzi, molto giustamente, pone a epigrafe del suo densissimo libro: «Qualunque cosa valga la mia vita, essa è stata una testimonianza di dignità e ragione. Non mi fingerò fascista a cinquant’anni suonati. Non credo degno della destinazione umana esprimere un pensiero falso o mutilato. Potrebbe darsi ch’io dovessi trovarmi davanti all’alternativa di rovinare la mia vita o di corrompere l’anima. In questo caso Lei che mi vuole bene dovrebbe consigliare di scegliere l’anima»
La stessa inflessibilità morale che troveremo, poco dopo, nella prima lunga e complessa lettera a Mussolini, là dove, forte della lezione dantesca, per spiegare il perché non avesse mai ceduto neanche a una veniale adulazione del dittatore, confessa d’aver sempre seguito il principio «di astenersi dalla lode dei potenti», di rifuggire cioè, quando si è «soggetti a un’autorità personale illimitata, così dal "servo encomio" come "dal codardo oltraggio"». In No, io non giuro, Librizzi parte dalla constatazione dolorosa che gli autorevoli libri di Helmut Goetz (2000) e Giorgio Boatti (2001), nel ricostruire la storia di quei professori che si ribellarono al Regime, ignorano del tutto il nome di Borgese.
La domanda è legittima: mentre implicitamente conferma quella che è stata una delle più vergognose lapidazioni intellettuali della storia italiana del Novecento e che vide incredibilmente uniti, in una specie di damnatio memoriae ai danni di Borgese, non solo, com’è ovvio, i fascisti, ma anche la cultura laica, tanto quella crociana e liberale, quanto quella marxista, non importa se di matrice idealista o materialista. Una domanda così riassumibile: perché, mentre si assolvono – e giustamente, aggiungerei – alcuni personaggi della migliore cultura antifascista, che pure si piegarono al giuramento (nomi del calibro di Luigi Einaudi, Piero Calamandrei, Giuseppe Lombardo Radice), si continuano a proiettare su Borgese – che mai cedette ad alcuna lusinga fascista, e mai aderì ad alcunché – sospetti di collusione col nemico?
Librizzi, seppure animato da fortissima e sentimentale consentaneità col suo conterraneo, forte anche di una conoscenza di prima mano di tutta l’opera borgesiana, sta ai fatti e intreccia con pazienza filologica tutti i fili di questa complessa tela storico-intellettuale, accedendo, per la prima volta, a documenti inediti di straordinaria rilevanza: non solo alcune lettere ai familiari acquisite di recente dalla Fondazione, ma, soprattutto, i diari vergati dallo scrittore nei suoi anni americani, anni ancora in gran parte sconosciuti, che aspettano di essere studiati con dovizia e metodo: non tanto per i rapporti notissimi che il siciliano ebbe con Thomas Mann, sposandone la figlia in seconde nozze, quanto per le consonanze di certi libri di questo periodo – penso allo stupefacente Idea della Russia, tradotto in italiano nel 1951 –, che, per dirne una, non possono non far pensare alle coeve ricerche filosofico-politiche di un Leo Strauss, il quale, come il Borgese di questi anni, studiava e giudicava la contemporaneità col metro del grande pensiero greco classico.
«Avvenire» del 17 agosto 2013

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