Gruppo 63 / Quinta puntata
di Alessandro Zaccuri
A sentire Gianni Celati sembra che tutto gli sia capitato all’epoca del servizio militare. La traduzione dell’Ulisse di Joyce, tanto per cominciare. «Sentivo tanto parlare di questo libro – ricorda – che mi venne la curiosità di guardare che cosa ci fosse dentro. Così la sera, mentre gli altri se ne andavano in libera uscita, io restavo in camerata e provavo a tradurlo, frase per frase». Impresa portata a termine solo di recente, a mezzo secolo di distanza, con la versione dell’Ulisse che Celati ha pubblicato da Einaudi nei mesi scorsi. Ma anche la sua avventura di scrittore, con relativo apparentamento al Gruppo 63, è in qualche modo legata al periodo della leva obbligatoria.
Oggi, all’età di 76 anni, l’autore delle Avventure di Guizzardi e di Narratori delle pianure ricostruisce la vicenda con il suo solito tono: gentilissimo e solo in apparenza svagato. «Ma sì – spiega – avevo iniziato a scrivere qualcosa sotto le armi, poi i testi avevano cominciato a girare, erano arrivati fino all’Einaudi, li aveva visti Italo Calvino e Calvino li aveva passati a Guido Davico Bonino. In breve, andò a finire che quelli del Gruppo 63 mi invitarono al convegno di Fano, nel 1967. Che fu l’ultimo loro incontro ufficiale, tra l’altro».
E come andò?
«Abbastanza bene, anche se in quell’occasione mi presi una reprimenda da parte di Sanguineti in persona. La figura più importante del gruppo, per la sua levatura di critico oltre che per le sue poesie. Ma pure il più serioso, il più convinto di essere sempre nel giusto».
Sì, ma che cosa successe?
«Vede, a Fano io avevo portato il materiale di quello che sarebbe diventato il mio primo libro, Comiche. Niente di umoristico, nonostante il titolo. Il mio intento era di riprodurre il linguaggio dei pazzi, la loro maniera di pensare, lo sguardo con cui osservano il mondo. Sanguineti, però, non la pensava così. Avevo appena finito di leggere il mio pezzettino e lui saltò su tutto scandalizzato e mi fece: “Questa roba vuol far ridere sul serio!”. Detta da lui, una frase simile era un’accusa gravissima».
Avete rotto i rapporti?
«Al contrario, con Sanguineti siamo rimasti in contatto, con molta cordialità. Ho in mente una sua lettera cortesissima in occasione della mia partenza per gli Stati Uniti. Dopo Fano, del resto, ho continuato a pubblicare sulle riviste del Gruppo 63, pur senza arrivare mai a farne parte fino in fondo. Condividevo molto del fervore di quei miei coetanei, capivo il loro desiderio di andare al di là del Neorealismo e mi entusiasmava l’idea di vivere in un momento in cui tanti giovani tornavano alla poesia. Ma non mi persuadeva quel modo di affrontare il cambiamento pretendendo di mettersene alla testa. Sa chi mi ricordavano quelli del Gruppo 63?».
Me lo dica lei.
«Lenin, quando arriva a San Pietroburgo in treno, a bordo del vagone piombato, e rivendica la guida della rivoluzione. Erano gente serissima, come ho già detto, ma mi parevano condannati a fare qualcosa che era già stato fatto. A ripetere e a ripetersi, senza mai rendersene conto. È vero che in quegli anni ci sembrava di non avere più una casa alla cui porta tornare a bussare. Loro però si sistemavano un po’ dappertutto. Non appena incappavano in un modello, se ne impossessavano senza esitazioni. Leggevano la Beat Generation e subito scrivevano come gli americani. Scoprivano i francesi dell’Oulipo e allora giù a smontare, a sperimentare. Non che ci fosse niente di male, intendiamoci».
Quale alternativa ci sarebbe stata?
«Quella di mettersi in viaggio senza sapere dove si vuole arrivare. Prenda Carlo Ginzburg, un grande storico che scrive con uno straordinario piglio da narratore. Oppure Ermanno Cavazzoni, un autore importantissimo, che però gli editori hanno avuto la tendenza a lasciare in un angolo proprio a causa della sua irregolarità e irrequietezza. Quelli del Gruppo 63, invece, sono sempre stati squadrati: si mettevano in viaggio solo se sapevano già esattamente dove sarebbero arrivati. Mai un dubbio su chi fosse nel giusto e chi nell’errore, mai un ripensamento o un’incertezza. Un eccesso di intelligenza che, alla fine, si è rivoltato contro di loro. E contro tutta la sinistra, mi verrebbe da aggiungere».
Era questo che non la convinceva?
«Di sicuro mi metteva a disagio. Sanguineti era un uomo coltissimo, geniale, ma bastava guardarlo per capire che era un professore. Anch’io ho insegnato all’università, però vengo da una famiglia di artigiani e ancora oggi provo un sentimento di meraviglia davanti a una persona che sa far bene il suo mestiere. Il mio interesse per la linguistica deriva da questa ammirazione. Volevo capire come funziona il linguaggio, mi affascinavano i risvolti scientifici, le implicazioni filosofiche. Scrivevo, sì, ma solo per approfondire questa dimensione linguistica. Io non volevo fare lo scrittore. Il mio sogno, purtroppo fallito, era di diventare uno studioso del linguaggio».
Una sensibilità non estranea a quella del Gruppo 63, non trova?
«Se non altro una sensibilità che ritrovavo in Giorgio Manganelli, con cui sono sempre andato molto d’accordo. La sua opera si può leggere in ogni direzione, seguendo la profondità del pensiero o lasciandosi incantare dalla costruzione fantastica. Proprio per questo i suoi libri continuano a essere letti ancora oggi».
Oggi, all’età di 76 anni, l’autore delle Avventure di Guizzardi e di Narratori delle pianure ricostruisce la vicenda con il suo solito tono: gentilissimo e solo in apparenza svagato. «Ma sì – spiega – avevo iniziato a scrivere qualcosa sotto le armi, poi i testi avevano cominciato a girare, erano arrivati fino all’Einaudi, li aveva visti Italo Calvino e Calvino li aveva passati a Guido Davico Bonino. In breve, andò a finire che quelli del Gruppo 63 mi invitarono al convegno di Fano, nel 1967. Che fu l’ultimo loro incontro ufficiale, tra l’altro».
E come andò?
«Abbastanza bene, anche se in quell’occasione mi presi una reprimenda da parte di Sanguineti in persona. La figura più importante del gruppo, per la sua levatura di critico oltre che per le sue poesie. Ma pure il più serioso, il più convinto di essere sempre nel giusto».
Sì, ma che cosa successe?
«Vede, a Fano io avevo portato il materiale di quello che sarebbe diventato il mio primo libro, Comiche. Niente di umoristico, nonostante il titolo. Il mio intento era di riprodurre il linguaggio dei pazzi, la loro maniera di pensare, lo sguardo con cui osservano il mondo. Sanguineti, però, non la pensava così. Avevo appena finito di leggere il mio pezzettino e lui saltò su tutto scandalizzato e mi fece: “Questa roba vuol far ridere sul serio!”. Detta da lui, una frase simile era un’accusa gravissima».
Avete rotto i rapporti?
«Al contrario, con Sanguineti siamo rimasti in contatto, con molta cordialità. Ho in mente una sua lettera cortesissima in occasione della mia partenza per gli Stati Uniti. Dopo Fano, del resto, ho continuato a pubblicare sulle riviste del Gruppo 63, pur senza arrivare mai a farne parte fino in fondo. Condividevo molto del fervore di quei miei coetanei, capivo il loro desiderio di andare al di là del Neorealismo e mi entusiasmava l’idea di vivere in un momento in cui tanti giovani tornavano alla poesia. Ma non mi persuadeva quel modo di affrontare il cambiamento pretendendo di mettersene alla testa. Sa chi mi ricordavano quelli del Gruppo 63?».
Me lo dica lei.
«Lenin, quando arriva a San Pietroburgo in treno, a bordo del vagone piombato, e rivendica la guida della rivoluzione. Erano gente serissima, come ho già detto, ma mi parevano condannati a fare qualcosa che era già stato fatto. A ripetere e a ripetersi, senza mai rendersene conto. È vero che in quegli anni ci sembrava di non avere più una casa alla cui porta tornare a bussare. Loro però si sistemavano un po’ dappertutto. Non appena incappavano in un modello, se ne impossessavano senza esitazioni. Leggevano la Beat Generation e subito scrivevano come gli americani. Scoprivano i francesi dell’Oulipo e allora giù a smontare, a sperimentare. Non che ci fosse niente di male, intendiamoci».
Quale alternativa ci sarebbe stata?
«Quella di mettersi in viaggio senza sapere dove si vuole arrivare. Prenda Carlo Ginzburg, un grande storico che scrive con uno straordinario piglio da narratore. Oppure Ermanno Cavazzoni, un autore importantissimo, che però gli editori hanno avuto la tendenza a lasciare in un angolo proprio a causa della sua irregolarità e irrequietezza. Quelli del Gruppo 63, invece, sono sempre stati squadrati: si mettevano in viaggio solo se sapevano già esattamente dove sarebbero arrivati. Mai un dubbio su chi fosse nel giusto e chi nell’errore, mai un ripensamento o un’incertezza. Un eccesso di intelligenza che, alla fine, si è rivoltato contro di loro. E contro tutta la sinistra, mi verrebbe da aggiungere».
Era questo che non la convinceva?
«Di sicuro mi metteva a disagio. Sanguineti era un uomo coltissimo, geniale, ma bastava guardarlo per capire che era un professore. Anch’io ho insegnato all’università, però vengo da una famiglia di artigiani e ancora oggi provo un sentimento di meraviglia davanti a una persona che sa far bene il suo mestiere. Il mio interesse per la linguistica deriva da questa ammirazione. Volevo capire come funziona il linguaggio, mi affascinavano i risvolti scientifici, le implicazioni filosofiche. Scrivevo, sì, ma solo per approfondire questa dimensione linguistica. Io non volevo fare lo scrittore. Il mio sogno, purtroppo fallito, era di diventare uno studioso del linguaggio».
Una sensibilità non estranea a quella del Gruppo 63, non trova?
«Se non altro una sensibilità che ritrovavo in Giorgio Manganelli, con cui sono sempre andato molto d’accordo. La sua opera si può leggere in ogni direzione, seguendo la profondità del pensiero o lasciandosi incantare dalla costruzione fantastica. Proprio per questo i suoi libri continuano a essere letti ancora oggi».
«Avvenire» del 28 agosto 2013
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