29 luglio 2008

Max Weber addio: l’America si scopre orfana

Saltato il modello, deve darsi nuove regole

Di Giorgio Ferrari

Una banca d’affari le cui azioni fino a un anno fa valevano 170 dollari collassa e si avvia al fallimento a causa degli sconsiderati investimenti finanziari. La rileva una consorella, a soli 2 dollari ad azione. È il capitalismo, bellezza, e tu non puoi farci niente, si potrebbe dire parafrasando la celebre frase di Humphrey Bogart. Peccato che le cose non stiano così: a salvare la Bear Stearns ci si è messa anche la Federal Reserve.

Aiuti di Stato belli e buoni, un soccorso clamoroso che ribalta alla radice il precetto di Max Weber e il suo famigerato L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, su cui l’America e intere generazioni di economisti, amministratori e uomini politici hanno costruito le proprie convinzioni e la propria orgogliosa diversità. Già perché questi affannosi interventi al capezzale delle banche che boccheggiano - interventi, è ovvio, tutti a spese del contribuente, mai a carico dei responsabili - ci trascinano fatalmente in un teatro che conosciamo molto bene: quello dell’economia allegra e irresponsabile di cui il nostro Paese (ma la Francia ci tallona da vicino e in Germania si scoprono bubboni di imbarazzante consistenza) è stato per anni un campione ineguagliato. Seppellito Weber, l’America si scopre orfana del proprio modello economico liberale e viceversa soggiogata da un’assenza di regole che è la causa primaria delle ondate di scandali e di fallimenti che si vanno accumulando da un anno a questa parte, quando la crisi dei mutui subprime (elargiti in totale inosservanza del buon senso e soprattutto mentre le authorities che avrebbero dovuto vigilare guardavano farisaicamente dall’altra parte) ha fatto scoppiare la prima bolla finanziaria. La prima, perché ora ne arrivano altre, a catena, nelle banche, nelle società finanziarie, in tutto quell’ingestibile universo di carta che ora trema nelle sue fragili fondamenta. E diciamo 'di carta' per alludere simbolicamente a quel mare di ricchezza che si muove da uno schermo di un computer all’altro, da un capo del mondo all’altro, senza che nulla di concreto e di reale si possa toccare con mano fino al momento in cui questo forziere virtuale esplode: allora, e solo in quel momento, i debiti diventano reali, le perdite prendono valore e consistenza. Di questo capitalismo pasticcione l’America, che è e rimane un Paese-guida nell’economia mondiale, dovrà forzatamente darsi ragione e trovare un rimedio. Forse accentuando la presenza dirigista dello Stato, forse ripristinando forme accettabili di protezionismo, forse ripensando al ruolo che la finanza ha assunto nel mondo globalizzato. Quanto a noi europei, finora protetti dallo scudo dell’euro senza il quale valute fragili come la lira avrebbero già collassato e svalutato da tempo, la lezione americana dovrebbe indurci a riflessioni ancor più profonde.

Sulla follia di un mercato che traffica in prodotti indecifrabili e incomprensibili per il consumatore medio, al quale tuttavia accolla regolarmente i propri fallimenti. Il risultato è una crisi globale di fiducia, che si innesta a sua volta sulla danza vertiginosa dei prezzi delle materie prime. Se questa è la mano invisibile del mercato di Adam Smith, essa è stata assai pesante.

«Avvenire» del 19 marzo 2008

Neuroni: la chimica della simpatia

di Andrea Lavazza

«La conoscenza non è fatta solo dal cervello»
Riccardo Manzotti è un ingegnere-filosofo che insegna Psicologia allo Iulm di Milano. E dedica le competenze multidisciplinari al 'mistero della coscienza'. Il punto sulla sua ricerca l’ha fatto in un volume scritto a quattro mani con Vincenzo Tagliasco, decano della robotica italiana, tragicamente scomparso in maggio: L’esperienza. Perché i neuroni non spiegano tutto (Codice edizioni).

Professor Manzotti, quello di 'esperienza' sembra un concetto immediato, ma forse descriverlo non è così semplice ...

«Dalla mattina alla sera, ognuno di noi vive dentro la propria esperienza: dei colori, dei sapori, degli aspetti piacevoli e meno piacevoli della vita. L’esperienza è il materiale di cui è fatta la nostra esistenza. Senza l’esperienza il mondo non sarebbe che polvere, atomi, cellule, reazioni chimiche. Per fortuna, il mondo è anche qualcos’altro».

Quello che ci dicono le neuroscienze esaurisce l’esperienza?

«Grazie a nuove tecniche di ' brain imaging', i neurobiologi sono stati in grado di fare passi da gigante nel comprendere come il cervello distingua stimoli diversi, memorizzi l’informazione, faccia associazioni, controlli il comportamento, che ruolo abbiano i neuroni specchio. Ma se guardiamo all’attività delle cellule nervose, non troviamo niente che assomigli alle nostre esperienza quotidiane. Al massimo il neurobiologo trova una correlazione tra certi neuroni e certe esperienze, ma non quello che il paziente prova. La distanza tra i neuroni e una semplice esperienza quale può essere quella di gustare un buon gelato al cioccolato è incolmabile. Per i neuroscienziati, quindi, resiste il mistero della 'coscienza fenomenica', il termine filosofico per la capacità di fare esperienza».

Si dice che quello della coscienza sia uno degli ultimi 'misteri'. Che soluzione viene proposta nel libro?
«La rivista Science (che, insieme con Nature, è una delle massime autorità scientifiche al mondo) ha inserito la coscienza tra i cinque più grandi misteri che la scienza dovrà affrontare nei prossimi anni. Nel libro, io e Tagliasco, abbiamo delineato, con un lavoro che ha richiesto una decina di anni, un quadro di riferimento alternativo a quello comunemente utilizzato dalle neuroscienze».

In sintesi, che cosa proponete?
«I neuroscienziati cercano l’esperienza dentro il cervello. Noi suggeriamo di prendere in considerazione un supporto fisico più ampio, che comprende una parte del mondo esterno al corpo. Quando, ad esempio, guardiamo un giglio di montagna, si ha una catena di fenomeni fisici che procedono dalla superficie del giglio, entrano nel nostro occhio, procedono lungo il nervo ottico e scatenano complesse attività nel cervello. Le neuroscienze insistono nel cercare l’esperienza del giglio nell’ultimo tratto di questa catena di fenomeni, nel 'pezzetto neurale'. Noi suggeriamo di considerare tutta la catena. Secondo noi, l’esperienza è fatta anche dal giglio che sta di fronte a noi, e non solo dai neuroni dentro il nostro cervello».

Perché si dice già nel sottotitolo che i neuroni non spiegano tutto, proprio in un momento in cui le neuroscienze affrontano la morale, l’estetica e la politica?
«Ogni tanto nella scienza ci si lascia affascinare da quello che è stato definito il 'pensiero magico'. Si comprende un nuovo fenomeno, in questo caso i neuroni, e si cerca di utilizzarlo per spiegare tutto. È ovvio che il funzionamento del cervello ha un ruolo in tutte le attività del genere umano (estetica, morale, economia); ma non esistono cervelli isolati e autonomi. I cervelli sono necessari per l’esistenza delle persone, le due entità però non coincidono. Il nostro libro cerca di chiarire la differenza».

Una teoria che voglia spiegare come funziona la nostra mente deve essere necessariamente materialistica per risultare scientifica e affidabile?

«La mente non è l’anima. La mente è un fenomeno che, con tutta probabilità, condividiamo con molti animali, anche se in gradi diversi. Chi infliggerebbe dolore a una scimmia o a un cane? Il motivo è che, al di là di tante teorie, riteniamo che questi animali abbiano una mente che fa esperienza del dolore. La mente è probabilmente un fenomeno fisico, ma non limitato al solo cervello. Quanto alla definizione di materialismo, vorrei far notare che non comprendiamo appieno la natura della realtà fisica e quindi si tratta di un confine ancora molto vago».

Chi non aderisce a uno stretto fisicalismo su mente/cervello viene emarginato dalla comunità dei ricercatori?
«Un filosofo e scienziato come Alfred North Whitehead ha scritto che in ogni epoca esistono ipotesi o metafore che vengono accettate implicitamente. Queste ipotesi appaiono così ovvie che la gente non si rende conto di usarle, né delle alternative. Lo scopo della scienza è quello di superare questi limiti. L’occasione è fornita proprio dai grandi interrogativi sull’esperienza e sulla mente».

“Avvenire” del 27 luglio 2008

«Così la mente si specchia negli altri»

Marco Iacoboni, ' cervello in fuga', dirige il laboratorio di Stimolazione magnetica transcranica della University of California a Los Angeles ( Ucla). I suoi ( controversi) studi su cervello e politica l’hanno reso noto negli Stati Uniti, ma la sua più solida ricerca è quella su alcune cellule nervose dalle caratteristiche sorprendenti, cui ha appena dedicato un esauriente e stimolante volume: I neuroni specchio. Come capiamo ciò che fanno gli altri ( Bollati Boringhieri).

Professor Iacoboni, da qualche anno non è raro sentire citati i ' neuroni specchio'. Che cosa sono, come sono stati scoperti e dove sono situati?
« I neuroni specchio sono cellule localizzate in certe aree del cervello che controllano i nostri movimenti. In tale aree troviamo cellule che si attivano quando eseguiamo azioni, ad esempio afferrare le chiavi della macchina. I neuroni specchio, oltre ad attivarsi quando agiamo, si attivano anche quando osserviamo qualcun altro eseguire la stessa azione. Un neurone che si attiva quando afferro le chiavi ha la caratteristica di un neurone specchio se si attiva anche quando io sto semplicemente guardando qualcun altro afferrare le chiavi. Queste cellule sono state individuate dal gruppo di Giacomo Rizzolatti a Parma, studiando l’attività dei neuroni delle scimmie. È stata una scoperta decisamente inattesa » .

Perché i neuroni specchio sono così importanti per la vita sociale?
« Accendendosi quando siamo impegnati nelle nostre occupazioni quotidiane e quando osserviamo altre persone eseguire le stesse attività, i neuroni specchio ci permettono di capire le azioni altrui in modo semplice, automatico, senza ricorrere a ragionamenti complessi. E questo ci permette di comprendere gli stati mentali associati alle azioni e alle intenzioni degli altri, le loro emozioni. Noi diamo per scontata la nostra capacità di capire gli stati mentali altrui quando interagiamo con loro, ma in realtà questa capacità è straordinaria, perché ovviamente noi non abbiamo accesso alle menti del nostro prossimo. Il processo evolutivo ha selezionato queste cellule proprio per facilitare le interazioni sociali » .

Si può dire che siano alla base del sentimento di empatia verso gli altri?
« Direi di sì. I neuroni specchio che si attivano quando la mia faccia esprime una smorfia di dolore si attivano anche quando osservo la smorfia di dolore del mio vicino. In questo modo riesco a immedesimarmi nel dolore altrui e a provare empatia. Lo stesso ragionamento si applica ad altre emozioni. Nei nostri studi abbiamo osservato che soggetti altamente empatici attivano le aree dei neuroni specchio molto più dei soggetti non empatici. Riteniamo che il sistema dei neuroni specchio sia un ' segno' cerebrale della capacità di empatizzare » .

I neuroni specchio non ci spingono solo all’altruismo. Che ruolo possono avere nell’imitazione della violenza?

« Sfortunatamente, temo che abbiano un ruolo importante. Diversi studi hanno suggerito che chi osserva atti violenti tende a mostrare un comportamento violento. Con la scoperta dei neuroni specchio abbiamo adesso un meccanismo neurologico plausibile che spiega questi dati. Da un lato, varrebbe la pena considerare qualche forma di controllo, soprattutto della violenza sui mass media; dall’altro, bisogna avere cautela nel limitare la libertà di espressione » .

Perché sostiene che il libero arbitrio sia una nozione da rivedere?
« Sembra che il processo evolutivo abbia create dei meccanismi neuronali relativamente semplici che permettono la socializzazione. D’altro canto, questi meccanismi di rispecchiamento ci espongono all’influenza degli altri, facilitando un’imitazione automatica del comportamento altrui. In questo senso, l’idea di un completo controllo delle nostre azioni va probabilmente rivista, e con essa il concetto di un libero arbitrio completo ed assoluto » .

Qualche critico sostiene che si attribuisce un ruolo troppo ampio, quasi ' culturale', ai neuroni specchio. Come risponde?
« I neuroni specchio hanno caratteristiche che sembrano ideali per l’imitazione, un comportamento umano che molti studi antropologici hanno messo al centro dei meccanismi di creazione e trasmissione di tradizioni culturali. Il legame neuroni- cultura mi sembra logico. Le critiche tendono invece a essere molto vaghe » .

Non ci si spinge troppo verso il cosiddetto neuroessenzialismo – che ridimensiona il ruolo della riflessione razionale e della cultura – prima di avere prove empiriche sufficienti per certe generalizzazione dei risultati ottenuti finora?
« I neuroni certamente non spiegano ' tutto' dell’uomo. L’attività neuronale ( e le sue interazioni con il nostro corpo) controlla il comportamento umano, ma a sua volta questo comportamento produce pratiche e tradizioni culturali che a loro volta influenzano l’attività cerebrale. Le continue, incessanti interazioni tra il cervello e la società mi affascinano moltissimo » .

“Avvenire” del 27 luglio 2008

16 luglio 2008

Se tutti dicono ok, la poesia non lo dirà

di Maurizio Cucchi
Leggo su 'Repubblica', domenica scorsa, un articolo di Stefano Bartezzaghi sulle condizioni della nostra lingua, intitolato «Parliamo come mangiamo forse anche troppo». Bartezzaghi ricorda il cammino difficile della nostra bellissima lingua, prima sostanzialmente letteraria (e dunque lingua scritta) fino all’unificazione linguistica per buona parte dovuta (come autorevolmente sostenuto da Tullio di Mauro quarantacinque anni fa) all’avvento della televisione. Ma oggi quali sono le condizioni della nostra lingua? Come parla l’italiano del Duemila? Non vorrei sembrare lamentoso, ma direi che parla piuttosto male, direi che ancora una volta la televisione ha imposto il suo dominio, ma con modalità e qualità molto diverse. Ho sempre in mente le parole con le quali il grande poeta milanese Delio Tessa introduceva un suo libro: «Riconosco e onoro un solo maestro, il popolo che parla». Oggi un’affermazione del genere non avrebbe più alcun senso. D’accordo, Tessa scriveva in dialetto e ascoltava parlanti dialettali. Ma non è questo il punto. Fino alla sua epoca (morì, ricordo, nel 1939), in ogni caso, il popolo era davvero creatore di linguaggio. Molto spesso le espressioni della gente comune ravvivavano la lingua, le davano sapore e concretezza colorita. Spesso, insomma, la lingua si formava e ricreava dal basso. Oggi non è così. La gente parla più o meno secondo modalità che scendono dai media, soprattutto dalla tivù, ovviamente, e dunque dall’alto di un’autorità linguistica per niente autorevole. E così la lingua si impoverisce e si arricchisce di stereotipi , storpiature e orrori vari. Chi è abituato ad ascoltare, se ne rende conto facilmente, quotidianamente. Basta salire su un autobus o entrare in un bar per sentirsi piovere addosso una parlata piena di «ochèi» o di «occhèi» secondo la regione, in frasi infiorate da un turpiloquio che ormai ha perduto persino il suo valore trasgressivo. La classica parolaccia, voglio dire, è del tutto priva di sostanza ed effetto, è totalmente desemantizzata; uno la pronuncia come dicesse una cifre o due sillabe senza senso alcuno, meccanicamente. Un’altra tendenza evidente, anche questa di provenienza radiotelevisiva, è quella che porta a una incongrua forma di 'nobilitazione' del lessico. Tutti dicono «nulla», ormai, anziché «niente», tutti parlano di «filosofia» a sproposito, persino i calciatori, e il Dna è finito dappertutto. L’altro giorno ho sentito una ragazza che diceva: «mangiare tardi la sera è nel mio Dna». E non parliamo poi dell’abuso gratuito di parole inglesi, delle quali ogni linguaggio settoriale si cosparge in modo involontariamente comico. Tornando a Tessa e rientrando a questo punto nel mio più normale campo d’azione, devo dire che questa mutata fisionomia della lingua comporta anche un diverso atteggiamento letterario verso la parola. Da sempre, tra i compiti più importanti di chi scrive c’è quello di fornire un utile servizio alla lingua, scritta o parlata che sia. Fino a qualche tempo fa, una ventina d’anni più o meno, uno degli obiettivi forti della letteratura era quello di introdurre sulla pagina o nel verso elementi del parlato, capace di ridare vita e autenticità alla scrittura; con un felice riflesso di utilità sulla lingua normale d’uso. Oggi tutto questo non è possibile, perché il parlato è di qualità spuria e scadente e dunque la letteratura deve contribuire a far riemergere equilibrio e decoro, plausibilità e bellezza della lingua, per rivitalizzarla contro gli stereotipi e la volgarità dilaganti.
«Avvenire» del 20 marzo 2008

La disfida di Parmenide

L’esistenza di Dio e il nulla: replica ad Emanuele Severino sui suoi rapporti con il pensiero cattolico e il suo maestro Bontadini
di Michele Lenoci
È confortante che ogni tanto si richiami l’attenzione sulla tematica metafisica e sulle fondamentali questioni relative all’essere, al nulla, al divenire e al problema di Dio, con la pretesa di poterle affrontare non solo attraverso metafore suggestive e persuasive, ma anche mediante argomentazioni stringenti e rigorose, giungendo a risposte univocamente fondate, per la loro immediata evidenza o per l’impossibilità del contrario, e capaci, quindi, di rivelare i vincoli necessari che legano pensiero ed essere. E quando su questi temi ritorna, in un lungo articolo sul Corriere della sera di ieri, un filosofo come Emanuele Severino, che al loro sviluppo, in modo originale e coerente, ha dedicato l’intera sua riflessione, il richiamo diventa significativo, sul piano storico e su quello teoretico. L’occasione è offerta da un volume che raccoglie gli atti di un Convegno veneziano, dedicato al pensiero di Gustavo Bontadini, nel centenario della sua nascita: vengono ripresi i momenti centrali di un dibattito, tuttora vivo, che, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso, ha animato le aule della Cattolica, per poi estendersi e raggiungere orizzonti più ampi e interessi più vasti, anche se quasi sempre alternativi rispetto a quelli alla moda, paghi, questi, delle loro metaforiche debolezze.
Di Bontadini Severino è stato allievo, e lo ricorda sempre con affetto e stima; così come entrambi, insieme con Sofia Vanni Rovighi, sono stati non dimenticati maestri di molti di noi, che in Cattolica abbiamo studiato e adesso insegniamo.
Il richiamo alla differenza insuperabile tra essere e nulla e all’impossibilità che l’essere non sia e il nulla sia, fin dal celebre saggio del 1964, costituisce la base per quel ritorno a Parmenide, in virtù del quale Severino considera il divenire impossibile, perché contraddittorio. Ma, a differenza dell’Eleate, non relega il molteplice, cioè le cose del mondo, nell’illusione, facendo propria la lezione di Platone, e, inoltre, si propone di fondare l’eternità assoluta degli enti, di tutto ciò che è ed ha una qualche forma di essere, per quanto umbratile e lieve possa apparire. Qui è stato il maggiore contributo di Severino: nel tentativo di rispondere alle obiezioni del suo maestro e dei molti interlocutori, egli ha sviluppato una prospettiva sistematica, sempre più ampia, avvolgente e complessa, in cui cerca di rendere plausibile, perché fondata, la contemporanea ammissione dell’eternità degli essenti e del loro mutevole e cangiante apparire.
E qui sta anche il suo secondo contributo, quello su cui maggiore è stata la disputa con Bontadini, e meno convincenti ancorché molto elaborate le sue risposte alle obiezioni: Severino ritiene che l’esperienza non attesti il divenire, cioè l’andare nel nulla o l’uscire dal nulla, ma solo l’apparire e lo scomparire degli enti: sicché ad affermare il divenire sarebbe solo una fede, una convinzione, condivisa da tutto l’Occidente, ma non per questo meno infondata e folle, giacché contraria alla legge del logos e, insieme, neppure attestata dall’esperienza.
Bontadini, che alla lezione dell’Eleate è sempre stato sensibile e attento, sin dagli anni Cinquanta, anche se in una prospettiva inizialmente diversa da quella del suo allievo, ha successivamente condiviso il principio parmenideo in senso forte, per cui l’essere non può annullarsi e divenire, ma ha sempre sostenuto che l’esperienza ci attesta un divenire come annullamento dell’essere, sia pure solo per un minimum, ritenendo che la distinzione tra non essere e non apparire, proposta da Severino, a un certo punto non sarebbe più sostenibile. E proprio a questo momento Bontadini dà avvio all’argomento dialettico per dimostrare l’esistenza di Dio, che tanto lo ha impegnato negli ultimi anni della sua riflessione e della sua esistenza: non sempre confortato, in ciò, dal consenso di allievi e interlocutori. Ma per lui il passaggio è necessariamente richiesto ove si ammetta, insieme, il principio di Parmenide e si vogliano 'salvare i fenomeni', cioè riconoscere l’attestazione empirica del divenire: solo Dio, eterno e creatore, può colmare, nella sua infinita positività, quel non essere che l’esperienza del divenire testimonia e che risulterebbe contraddittorio solo se fosse assolutizzato, cioè se non fosse inscritto e risolto in quel più ampio contesto ontologico, in cui i conti, cioè la somma algebrica tra positivo e negativo, vengono finalmente pareggiati.
Si delinea una prospettiva ontologica assai diversa da quella scolastica e classica, cui pure Bontadini si richiama e che intende rigorizzare, e un poderoso tentativo per provare che l’affermazione del divenire non è solo una 'fede', una convinzione folle, e, ciononostante, si può egualmente rimanere fedeli all’essere e al positivo; così egli, pur ammettendo l’annientamento delle cose, non ritiene irrefutabili le confutazioni che Nietzsche rivolge all’Assoluto: anche qui concorde con Parmenide e Severino, ma, insieme, da loro radicalmente distante (e, del resto, quali radicali opposizioni non implicano anche, e sempre, essenziali e sottese solidarietà?). Tuttavia, proprio in quegli anni, e successivamente, altre voci si sono levate per ricordare, che forse la distinzione tra ente ed essere e la sottolineatura dell’analogia dell’essere (del resto ben note a Severino) potevano offrire spunti per evitare una 'sostanzializzazione’dell’essere, cosicché la radicale opposizione tra essere e nulla non si trasferisse, immediatamente e necessariamente, in un’altrettanto radicale opposizione dell’ente (di ogni ente) al nulla, in modo da renderne contraddittorio il divenire. Ma qui si aprirebbe un altro capitolo, e forse un’altra storia.
«Avvenire» del 13 marzo 2008

Severino: la mia autodifesa

Un libro dedicato al pensatore cattolico Gustavo Bontadini riapre la discussione sulla riflessione del suo maggior allievo
di Emanuele Severino
Nietzsche e i credenti uniscono Essere e Nulla. Io riparto da Parmenide
Nietzsche crede che ad eccezione di Eraclito e di lui stesso tutti i filosofi si siano posti al seguito di Parmenide. Appunto per questo intende operare il «superamento dei filosofi». E Karl Popper - filosofo della scienza e promotore del rinnovamento del neopositivismo logico - ritiene a sua volta che la maggior parte dei grandi fisici del nostro tempo (Boltzman, Minkowski, Weil, Schrödinger, Gödel, Einstein) si muovano sostanzialmente nell’ambito del pensiero parmenideo; sebbene a sua volta propenda per una interpretazione non parmenidea del mondo fisico, come quella di Heisenberg. Platone chiamava Parmenide «venerando e terribile», come un dio. E l’unico strappo di Aristotele al proprio sempre misurato linguaggio riguarda Parmenide: le sue dottrine, dice, sono «follie». Ma le cose non stanno così. Tutti i filosofi, dopo Parmenide, hanno mirato a «superarlo»; la logica dei fisici non ha nulla a che vedere con il suo pensiero, la cui potenza è stata sempre, in ogni campo, misconosciuta. Sono più di cinquant’anni che vado mostrandolo. Molto pochi, se si tien conto della posta in gioco. È uscito ora, pubblicato da Vita e Pensiero, Bontadini e la metafisica, il volume degli atti del Congresso tenutosi a Venezia per il centenario della nascita del mio indimenticabile maestro, tra i maggiori pensatori del nostro tempo e cattolico. Anche la maggior parte degli autori del volume (circa seicento pagine) sono cattolici; ma molti di essi si rammaricano che - quanto al tratto filosofico essenziale - nell’ultima fase della sua vita il maestro dell’Università Cattolica sia venuto «dalla mia parte» (se vogliamo usare, per far presto, questa pessima e impropria espressione). Ho apprezzato il Cardinale Scola, allievo di Bontadini e anche mio, che invece nella tavola rotonda a cui partecipammo, pur dissentendo da quel tratto essenziale con competenza e modestia, ha evitato di rammaricarsi. Il gran tema è comunque, anche qui, la misconosciuta potenza del pensiero parmenideo. Mi sembra quindi molto importante la posizione di Erwin Tegtmeier, già collaboratore di Habermas e di Albert. Dalla fine degli anni Novanta egli percepisce l’irripetibile potenza del pensiero di Parmenide. In Scenari dell’impossibile - un recente libro a più voci e di grande interesse, che per molti aspetti mi riguarda - Tegtmeier presenta un saggio intitolato Il problema del divenire in Parmenide e la sua soluzione. Agli inizi degli anni Ottanta era uscita in Germania, presso Klett-Cotta, la traduzione del mio libro Essenza del nichilismo, al cui centro sta lo scritto intitolato Ritornare a Parmenide, del 1964, a partire dal quale è incominciata la pluridecennale discussione tra Bontadini e me. Tegtmeier si muove nell’ambito dell’ontologia analitica contemporanea di matrice anglosassone, ma anche per lui la negazione parmenidea del divenire è rimasta inconfutata ed è inconfutabile - quando invece è convinzione comune che già Platone e Aristotele avessero definitivamente chiuso i conti con Parmenide. Perché niente di meno di questo si tratta: Parmenide mostra che «ciò che è», l’«essente», non può provenire dal «non essente» e nel «non essente» non può dissolversi; e poiché il mondo è l’apparire dell’incominciare ad essere e del cessare di essere, da parte delle cose, le cose del mondo non possono essere degli «essenti» e il loro apparire è solo illusione. Il pensiero essenziale - tanto più avvolto da nubi impenetrabili e tanto più lontano dalle nostre abitudini concettuali, quanto più esso è luminoso, semplice e vicino - è quello in cui appare l’impossibilità che l’«essente» esca dal niente e vi faccia ritorno: quello in cui appare il perché di questa impossibilità. Possiamo indicare così questa oscura semplicità: se l’«essente» provenisse da un passato in cui esso non è (ossia è niente) e andasse in un futuro in cui esso torna a non essere, allora, in assoluto, l’«essente» sarebbe «non essente» cioè non sarebbe «essente». Stando al comune modo di pensare possiamo affermare che, in assoluto, la casa non è casa, la stella non è stella, l’albero non è albero? No - si risponde subito. Ma allora non si può nemmeno affermare che l’«essente» non sia «essente» - anche se in questo modo ci si avvia lungo un cammino che porta molto lontano dal comune modo di pensare, cioè al luogo i cui appare che l’«essente» è eterno. Mi sembra però che Tegtmeier sostenga sì l’opposizione tra l’«essente» e il «non essente» (cioè sostenga che l’«essente» non è il «non essente»), ma poi la lasci di fatto valere come un semplice postulato, nel senso dei postulati da cui procedono ad esempio la logica, la matematica, la fisica e che ormai esse stesse (almeno nelle loro forme più evolute) non considerano più come verità innegabili. E invece quell’opposizione non è un semplice postulato, un dogma, una fede. La fretta con cui si risponde «no» alla domanda se la casa sia non casa, o la stella sia non stella, è soltanto la volontà che le cose stiano così. All’interno di quella fretta, il «principio di non contraddizione» (che appunto afferma in generale l’opposizione tra ogni cosa e ciò che è altro da essa) è soltanto la volontà che la realtà non sia contraddittoria. Se ci si ferma a questa volontà si capisce perché Nietzsche giunga ad affermare che i «supremi principi» della conoscenza umana (quale, appunto, il «principio di non contraddizione») sono soltanto degli «imperativi» che, certo, servono a vivere, ma che certamente non sono verità innegabili. Intendo dire che l’opposizione tra l’«essente» e il «non essente» è come una stella che stia al centro del cielo, che però non ha il buio attorno a sé, ma brilla insieme alle altre stelle. Per restare in questa metafora (che dunque dice ben poco intorno a ciò a cui essa accenna), solo guardando il firmamento - cioè andando oltre Parmenide in modo essenzialmente diverso da come il pensiero dell’Occidente ha creduto di andare oltre di lui -, è possibile vedere che l’opposizione tra l’«essente» e il «non essente» non è semplicemente un postulato, un dogma, una fede, un «imperativo». Il firmamento corrisponde, al di fuori della metafora, a ciò che nei miei scritti è chiamato «struttura originaria del destino della verità». Questa struttura mostra (ma anche qui si tratterebbe di vederlo in concreto) che le cose del mondo non possono essere illusione, ma sono «essenti», e dunque sono eterne, tutte; sì che il loro variare non può essere inteso come il loro provvisorio sporgere dal nulla, ma come il comparire e lo scomparire degli eterni. Il «destino della verità» sta al di là di tutto ciò che si è pensato intorno alla verità e al destino, ma non è una «dottrina» inventata da qualcuno, sia pure egli un Dio, ma è il firmamento che da sempre appare nel più profondo di ognuno di noi. In base alla fede nella creazione e annientamento delle cose Nietzsche ha argomentato l’impossibilità di ogni Dio. E rispetto agli amici di Dio, che condividono questa fede, la sua argomentazione è irrefutabile. (In base a questa stessa fede Nietzsche ha argomentato, anche qui in modo irrefutabile, la necessità dell’«anello del ritorno», l’«eterno ritorno» di tutte le cose). Amici e nemici di Dio hanno in comune quella fede che, essa sì, è l’autentica ed estrema follia. Ma anche nel più profondo del loro cuore brilla il firmamento del destino. Vicinissimo e insieme lontanissimo da esso, Parmenide lo chiama «il cuore, non tremante, della ben recintata verità».
Allievi e seguaci del teorico italiano
Tra i numerosi libri e saggi, senza contare centinaia di siti in rete, che recentemente si sono riferiti al pensiero di Emanuele Severino ricordiamo, in relazione a questo suo articolo, la raccolta-omaggio di saggi Le parole dell’essere. Per Emanuele Severino, a cura di Petterlini, Brianese e Goggi (Bruno Mondadori, 2006, pp. 718, 40.00). Né va dimenticato che lo storico tedesco Thomas Sören Hoffmann nel suo saggio Filosofia in Italia (Mariverlag, 2007, pp. 400, 18) ha considerato Severino il solo pensatore degno di rilievo nel nostro Paese dopo Vico. Severino e la sua filosofia sono inoltre presenti in: Bontadini e la metafisica, a cura di Carmelo Vigna (Vita & Pensiero, 2008, pp. 584, 35); Scenari dell’impossibile, La contraddizione nel pensiero contemporaneo, a cura di Francesco Altea e Francesco Berto (Il Poligrafo, 2007, pp. 308, 25); Verità e prospettiva in Nietzsche, a cura di Francesco Totaro, (Carocci, 2007, pp. 230, 20,50). Inoltre ha trattato l’argomento Salvatore Natoli, La mia filosofia (Edizioni ETS, 2007, pp. 136, 12,00). Tra i volumi usciti recentemente o in via di pubblicazione, e connessi ai temi di Emanuele Severino, vanno infine ricordati: Ines Testoni, La frattura originaria. Psicologia della mafia tra nichilismo e omnicrazia (Liguori, 2008, pp. 356, 25,50); Umberto Soncini, Il senso del fondamento in Hegel e Severino (è un saggio che vedrà la luce nel 2008).

Emanuele Severino (Brescia 1929), fu allievo di Bontadini. Nel 1962 diventa docente all’Università Cattolica e due anni dopo esce il suo «Ritornare a Parmenide», che provoca il suo allontanamento. Ha poi insegnato a Venezia e al San Raffaele di Milano
«Corriere della Sera» del 12 marzo 2008

La perfezione, un mito «faustiano»

di Michael J. Sandel
Qualche anno fa una coppia decise che voleva avere un bambino possibilmente privo dell’udito. Le due partner - perché di due donne si trattava - erano entrambe sorde e orgogliose di esserlo. Come altri membri della comunità del Deaf-Pride [letteralmente, «orgoglio della sordità», ndt], Sharon Duchesneau e Candy McCollough non consideravano la sordità una menomazione da curare, ma una vera e propria identità culturale. Secondo Duchesneau, «essere sordi è semplicemente uno stile di vita. Ci sentiamo completi quanto chi ha un udito normale e vogliamo condividere con i nostri figli i lati più belli della nostra comunità di non udenti - il senso di appartenenza e il tenerci in contatto. Siamo veramente convinti di vivere, in quanto sordi, un’esistenza ricca».
Nella speranza di concepire un figlio sordo, Duchesneau e McCollough cercarono un donatore di spermatozoi con cinque generazioni di sordi tra i progenitori. E riuscirono nel loro intento: Gauvin, loro figlio, è privo dell’udito dalla nascita.
Esse rimasero sorprese quando la loro vicenda, raccontata dal «Washington Post», suscitò una diffusa condanna.
L’indignazione era in gran parte legata all’accusa di avere volontariamente reso menomato loro figlio. Duchesneau e McCollough rifiutavano di considerare la sordità una menomazione, e sostennero di avere semplicemente voluto un figlio che fosse come loro. «Quello che abbiamo fatto non ci è sembrato così diverso da quello che fanno molte coppie eterosessuali quando hanno dei figli» dichiarò Duchesneau.
C’è qualcosa che non va nella scelta di avere un figlio sordo? E se c’è, da cosa dipende, dalla sordità o dalla scelta? Ammettiamo, a scopo di ragionamento, che la sordità non sia una menomazione, ma un aspetto dell’identità. Ci sarebbe lo stesso qualcosa che non va nel fatto che i genitori abbiano delle preferenze riguardo ai figli e le realizzino, o saremmo di fronte a ciò che i genitori fanno da sempre scegliendo il partner, e recentemente ricorrendo alle nuove tecnologie della procreazione?
Non molto prima del dibattito sulla decisione di Duchesneau e McCollough di mettere al mondo un figlio privo dell’udito, era apparso un annuncio sullo «Harvard Crimson» e su altri periodici studenteschi della Ivy League: una coppia infeconda cercava una donatrice di ovuli. Non una donatrice qualunque, però, bensì una alta almeno cinque piedi e dieci pollici [un metro e 78], con un fisico atletico, senza patologie familiari e con un punteggio Sat [Scholastic Assessment Test, test di iscrizione all’università, ndt] di almeno 1400. Per gli ovuli di una giovane con queste caratteristiche l’annuncio offriva una ricompensa di 50.000 dollari.
Forse i futuri genitori pronti a sborsare una somma così ingente per un ovulo da premio volevano semplicemente un figlio a loro somiglianza. O forse, al contrario, attingevano alle loro sostanze per cercare di avere dei discendenti più prestanti e brillanti di loro, insomma per migliorare il loro ceppo. Quali che fossero i motivi, la loro proposta fuori dal comune non aveva sollevato l’ondata di indignazione poi suscitata dal caso del figlio sordo per scelta parentale.
Nessuno aveva protestato che l’alta statura, l’intelligenza e un fisico atletico sono menomazione che andrebbero risparmiate a un nascituro. Eppure anche la loro proposta suscita una vaga inquietudine morale. Anche se non comporta nessuno svantaggio per il bambino, non c’è qualcosa che ci mette a disagio nella possibilità che un padre e un madre ordinino un figlio con certi tratti generici?
Alcuni difendono questi tentativi di concepire un figlio sordo o con alti punteggi Sat sottolineando la loro somiglianza con la procreazione naturale da un cruciale punto di vista: a dispetto di quanto fatto dai genitori per aumentarne la probabilità, il risultato non era garantito. Entrambi i tentativi restavano soggetti al capriccio della lotteria genetica. Questa giustificazione solleva un interrogativo interessante: perché una certa imprevedibilità sembra fare differenza, moralmente parlando? E come reagiremmo se la biotecnologia riuscisse a eliminare ogni incertezza, permettendoci di scegliere davvero i tratti genetici dei nostri figli?
I progressi della genetica ci consegnano una promessa e una difficoltà. La promessa è che forse potremo presto curare e prevenire un gran numero di gravi malattie. La difficoltà è che il recente sapere genetico può metterci in condizione di manipolare la nostra natura, di migliorare i nostri muscoli, la nostra memoria e il nostro umore; di scegliere il sesso, la statura e altri tratti genetici dei nostri figli; di potenziare le nostre facoltà fisiche e cognitive fino a stare, per così dire, «più che bene». Molti sono turbati da certi tipi di ingegneria genetica, ma non è facile capire da dove venga il loro disagio. L’abituale terminologia del discorso morale e politico rende difficile dire cosa ci sia di sbagliato nel riprogettare la nostra natura.
Come la chirurgia estetica, il miglioramento genetico impiega mezzi medici per fini non medici, cioè per fini non collegati con la cura e la prevenzione delle malattie, la riparazione delle lesioni traumatiche e il ristabilimento della salute. Ma diversamente dalla chirurgia estetica, il miglioramento genetico non riguarda solo l’aspetto; esso va oltre la pelle, modificandoci in profondità. Perfino i miglioramenti somatici, che non influenzeranno i nostri figli e nipoti, sollevano gravi interrogativi morali. Se nutriamo dubbi sulla giustezza della chirurgia plastica e delle iniezioni di Botox contro rughe della fronte e doppio mento, tanto maggiore sarà il nostro disagio davanti all’uso dell’ingegneria genetica per irrobustire il corpo, ringiovanire la memoria, accrescere l’intelligenza e migliorare l’umore. L’interrogativo è: è un disagio giustificato? E se lo è, quali sono i motivi?
Quando la scienza cammina più in fretta della comprensione etica, come fa oggi, gli uomini e le donne faticano a esprimere l’origine della loro inquietudine, e nelle società liberali ricorrono in primo luogo al lessico dell’autonomia, dell’equità e dei diritti individuali. Ma questa parte del nostro vocabolario morale non ci attrezza ad affrontare le questioni particolarmente ardue sollevate dalla donazione, dalla progettazione dei figli e dall’ingegneria genetica. È per questo che la rivoluzione genomica dà una specie di vertigine morale. Per affrontare l’etica del miglioramento genetico dobbiamo fare i conti con temi che il mondo moderno ha in gran parte perso di vista: temi relativi allo status morale della natura e al modo giusto di porci verso il mondo che ci è stato dato. Dal momento che simili questioni confinano con la teologia, i moderni filosofi e teorici della politica tendono a starne alla larga. Ma le nuove prospettive che le biotecnologie hanno messo alla nostra portata le rendono inevitabili.
«Avvenire» del 12 marzo 2008

Se i laicisti giocano con le parole

di Domenico Delle Foglie
«Laici e cattolici» oppure «credenti e non credenti»? Qual è il binomio migliore per sottolineare il rapporto fra due mondi, due culture, due immaginari distinti ma non separati? Questi interrogativi non vi sembrino peregrini. Nel volgere di pochi giorni ci è capitato di sentirli sollevare in due sedi completamente diverse, ma ambedue significative. La prima era quella di un’associazione che opera sul territorio italiano e che si occupa dei temi del vivere e del morire, la seconda addirittura una seguitissima trasmissione radiofonica in onda su Radio1 Rai. In un caso come nell’altro, il punto di partenza era quello di un credente che facendo appello al Concilio ecumenico Vaticano II e alla distinzione fra laico e religioso, inserita nella costituzione «Lumen gentium», si chiedeva se non dovesse essere preferibile la dizione «credente e non credente». Vale la pena ricordare la definizione conciliare: «Con il nome di laici si intendono… tutti i fedeli ad esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso nella Chiesa, cioè i fedeli che, in quanto incorporati a Cristo con il battesimo, costituiti Popolo di Dio e a loro modo fatti partecipi della dignità sacerdotale, profetica e regale di Cristo, per la loro parte adempiono la missione di tutto il popolo cristiano nella Chiesa e nel mondo». In sintesi, uomini e donne, battezzati, che vivono nella comunità cristiana e che come cittadini vivono nel mondo.
Nessuna condizione di separatezza, ma solo la consapevolezza di stare nel mondo ma di non essere del mondo. Perché dunque ne parliamo? Perché ad un interlocutore laicista più che laico, intervenuto a commentare la telefonata di una signora che in quanto laica-cattolica, suggeriva l’adozione del binomio «credente-non credente», si rispondeva con enfasi che «non bisogna darla vinta ai cattolici, a cominciare dalla volontà di imporre il loro linguaggio». La trasmissione era «Zapping», condotta da Aldo Forbice e l’interlocutore in studio il professor Massimo Teodori, notoriamente poco tenero con il mondo cattolico.
Di qui la sua difesa del binomio «laico-cattolico» come portatore di una sostanziale carica dialettica ed oppositiva, evocativo della forza della laicità in opposizione all’universo cattolico. Ecco il suo giudizio: noi sappiamo bene a cosa ci riferiamo quando parliamo di laici, perché li vediamo come contrapposti a clericali e integralisti. Ma la domanda sorge spontanea: chi, con un minimo di onestà intellettuale, può catalogare sic et simpliciter tutti i cattolici sotto le bandiere del clericalismo e dell’integralismo? Forse sarebbe più corretto utilizzare le coppie «laicisti-clericali», oppure «laicisti-integralisti».
Depurare la nozione «laici­cattolici» da queste sovrastrutture, sarebbe già un gran risultato. Soprattutto sul versante pubblicistico, sarebbe opportuno utilizzare il binomio «laico-cattolico» in un contesto di confronto positivo e costruttivo. Ma oggettivamente non è ancora venuto il tempo del disarmo. Troppi ancora sono i rancori sul fronte laico, che impediscono di cogliere l’essenzialità della presenza cristiana sulla scena pubblica. Una presenza non invasiva, ma collaborativa.
«Avvenire» del 12 marzo 2008

Il sembiante come ossessione cosmetica

Plastica per la figlia down
di Giuseppe Anzani
Gli occhi della bambina sono un po’ troppo distanti fra loro, le labbra sottili, il naso piatto, la lingua sporgente, il collo grosso, 'ci vorrebbe un intervento di chirurgia plastica a modificarne l’aspetto', così dice il papà. Correggere quei lineamenti del viso potrebbe 'rendere la vita più facile alla piccola e renderla più accettabile' in una società dove l’apparenza è tutto, così dice la mamma.
Il papà è un chirurgo plastico rinomato, la mamma è una donna bellissima, si dice un poco 'ritoccata'. Lei è una bambina di due anni, si chiama Ophelia, ed è una bambina 'down'. Un caschetto di capelli biondi è ciò che mostra la foto giustamente sfocata, e il pensiero rincorre l’immagine tenerissima di un sorriso di intensa e incomparabile affettuosità, qual è il sorriso dei down.
Rifarle il viso? Mi sforzo di intendere il proposito dei genitori su un versante positivo, come fosse la rimonta di un handicap, il contrasto di una disabilità, il desiderio una miglior protezione, la voglia di bene; ci metto anche il dolore, quel dolore che trova il suo picco quando sente il dolore del figlio e ne è trafitto. Ci provo. Ma quell’idea di stender la mano col bisturi a riplasmare il sembiante, quell’idea che vorrebbe vestire l’identità umana con la manipolazione dell’artificio, 'necessario' a definirla secondo quanto la 'società dell’apparenza' lo comanda, quell’idea coatta che ruba spazio all’istinto d’amore che vorrebbe allargate le braccia ad accogliere l’essere qual è, amato per se stesso, e invece piega la schiena al canone estetico fra gli ammessi e gli espulsi, finisce per togliere il respiro.
E sarebbe violenza, se si facesse. Leggo che il progetto dei genitori non è imminente e si proietta sul futuro, quando la figlia avrà 18 anni. Questo cambia orizzonte, quel che deciderà Ophelia da se stessa è un diverso problema. Ma in questo intervallo di vita in cui la sua vita fiorisce, quale sarà la suggestione muta di felicità o infelicità della vita che le viene dai genitori, di abbraccio o di repulsione sociale che le viene dai loro terrori o dai loro pregiudizi, quale sarà la comunicazione segreta sulla accettazione o sul rifiuto, sul valore o l’irrilevanza della sua attesa di amore?
È questa l’insidia di sventura, per lei e anche per i suoi genitori, per ogni figlio, per ogni essere umano che viene in questo mondo, abile o disabile quant’è, se ciò che ognuno di noi sperimenta nell’infanzia come 'il permesso di esistere' che vien dato dai primi referenti delle nostre coordinate identitarie, viene messo in forse, o piegato a una approvazione, ad una omologazione, persino ad un sembiante 'normalizzato', e dunque solo così divenuto 'accettabile'.
Senza integrazione affettiva suona falsa l’ossessione cosmetica, deficitario e devastante il suo tributo di angoscia. In faccia alle ipocrisie di una civiltà dell’apparenza, che invoca il sembrare come fuga dall’essere, il coraggio dell’amore non schiva la verità dell’handicap, della disabilità, del suo dolore e della sua speranza, della sua esigenza di un supplemento di relazione accogliente; e infine di quel suo misterioso laccio affettivo che risveglia ogni volta nella fragilità accolta e soccorsa la cifra della condizione umana che invoca. Invoca vita, quanto più è down. Restituisce alla vita il sorriso di un affetto che non ha pari.
«Avvenire» del 12 marzo 2008

Asini a scuola (e a casa)

di Andrea Bajani
La scuola italiana è rimasta schiacciata sotto le macerie del discredito di istituzioni e famiglia. Gli studenti italiani, riportano le pagelle vergate alla fine del quadrimestre, sono per la maggior parte somari, con debiti formativi trascinati come palle al piede, lacune che sembrano mari, e un generale disinteresse nei confronti di chi sta dietro la cattedra.
Le cronache, le indagini degli psicologi, le tabelle, e i grafici a torta dipingono una gioventù patologica allo sbando, picchiatori voyeuristi nei gabinetti scolastici, compulsivi smanettatori persi nei meandri di Internet o nell’isteria da pollice opponibile della messaggistica cellulare. E appunto somari a scuola, voti bassi e facce da chissenefrega.
E la scuola va giù, si grida al palazzo che crolla, il fumo che viene su quando l’edificio si schianta al suolo, e intorno è tutto un unanime urlare allo scandalo. Come fosse per caso che è saltato in aria, o come fossero gli stessi ragazzi, o soltanto loro, ad avere innescato l’ordigno, ad averlo messo a ticchettare sotto la scuola. Che è un modo tutto sommato rassicurante per assistere al crollo, e magari farci anche qualche foto ricordo, un buon modo per dire: «Ai nostri tempi era diverso».
E invece la scuola è venuta giù erosa giorno per giorno da un’idea di istruzione messa all’asta del migliore offerente, percepita come un servizio da negoziare nel rapporto con studenti che da studenti son diventati clienti.
Perché la scuola italiana è franata con i presidi che imbavagliano gli insegnanti nell’esercitare il loro rigore per paura che i clienti se ne vadano alla concorrenza, magari parlando con i giornali, gettando una cattiva luce sull’istituto. La scuola italiana è franata sotto le pressioni dei genitori che arrivano a scuola contestando in cagnesco i voti troppo bassi dei figli, il carico eccessivo di compiti a casa, persino le correzioni delle versioni latine. La scuola italiana è franata con gli sms e le telefonate delle mamme e dei padri italiani in orario scolastico per raccomandare ai figli di andare a mangiare dalla nonna, piuttosto che di comprare il pane prima di tornare a casa.
Mi chiedo, senza che questo deresponsabilizzi in alcun modo i ragazzi, come è possibile che gli studenti riconoscano un qualche ruolo a un’istituzione che da tutti è vissuta quale un qualsiasi servizio superfluo, alla stregua di una compagnia telefonica, una catena di negozi di abbigliamento, una discoteca, o un cinema multisala? Perché la scuola italiana è rimasta schiacciata sotto le macerie di chi ha smesso di crederci, prendendo a picconate sistematiche, con la logica finanziaria dei debiti e dei crediti, delle transazioni formative, delle negoziazioni pedagogiche, la crescita culturale di un Paese che rischia di rimanere bloccato. Perché a vedere quelle pagelle, quel disinteresse, quel disincanto, non si riesce a pensare all’Italia futura, di cui ci si riempie la bocca quando si parla dei giovani. In quelle insufficienze, e in quelle facce si vede tutto il disincanto e il menefreghismo degli adulti.
«La Stampa» del 12 marzo 2008

Diritti umani, è ora di riscriverli?

Conciliare giustizia e tutela della vita, anche quella di chi si macchia di gravi reati, è un tema che si fa strada anche in America dove la Corte Suprema restringe l’uso della pena di morte, e nello stesso tempo nega restrizioni al possesso delle armi da fuoco
di Carlo Cardia
Per raggiungere un traguardo di civiltà, o realizzare grandi ideali, a volte si seguono cammini contorti, con balzi in avanti e improvvisi ritorni indietro, che lasciano interdetti. È quanto sta avvenendo in questi giorni negli Stati Uniti d’America dove la Corte Suprema ha dichiarato la legittimità della pena di morte soltanto nei confronti di chi si sia macchiato dei delitti più gravi, dai quali è derivata la morte della vittima. Non si può quindi togliere la vita a chi ha commesso altri reati anche gravissimi, come quello di stupro su minori. Il candidato democratico alla presidenza Barack Obama, che pure si era pronunciato per la limitazione della pena di morte, ha affermato che lo stupro su minori è talmente grave da meritare comunque la morte del reo. La stessa Corte Suprema, poi, ha dichiarato incostituzionale una legge del distretto di Washington che pone forti restrizioni al possesso delle armi da parte dei privati. Ciò perché la Costituzione americana considera il possesso delle armi un diritto inviolabile. Insomma, la stessa Corte suprema cerca di limitare il ricorso alla pena di morte, e allarga la licenza per la armi, forse dimenticando che tra le due pratiche esiste un sottile collegamento risalente alla formazione stessa degli Stati Uniti.
Nella Convenzione americana dei diritti dell’uomo adottata nel 1969 dall’Organizzazione degli Stati Americani (Osa) c’è una disposizione illuminante per la quale 'nei Paesi che non hanno abolito la pena di morte, questa potrà essere inflitta solo per i reati più gravi', ma 'la pena di morte non potrà essere ripristinata nei paesi che l’hanno abolita'. Ciò vuol dire che i firmatari della Convenzione avvertivano come disumana e anacronistica l’uccisione del reo, ma spostavano il traguardo abolizionista più avanti quando il peso della storia e della tradizione in determinati Paesi si fosse esaurito. Gli Stati Uniti nascono in un contesto di conquista e di frontiera nel quale la giustizia era quasi un fatto privato, con l’applicazione della ritorsione, fino a sfiorare il linciaggio, per soddisfare una opinione pubblica bramosa di vendetta; di qui, tra l’altro, la naturalezza del possesso e uso privato delle armi. Il peso di questa tradizione è ancora oggi molto forte, e la sentenza della Corte Suprema che introduce un primo argine, sia pure con ragionamenti destinati a suscitare polemica, ci dice quanto sia lunga la strada per l’affermazione di un basilare principio etico in un ordinamento tra i più avanzati in senso democratico.
In altri Paesi asiatici, come la Cina, la condanna a morte è applicata sistematicamente anche come deterrente alla protesta sociale, e conosce l’alternanza di periodi di attenuazione a periodi di drastica estensione. In alcuni Stati islamici viene ucciso talvolta, per via legale o tribale, chi tiene comportamenti contrari alla shari’à che nel resto del mondo non sono neanche considerati reati, come l’adulterio o l’unione sessuale fuori del matrimonio, o addirittura chi esercita il diritto universale di libertà religiosa passando dall’Islam ad altra religione. Dopo il recente voto (pure importantissimo), dell’Assemblea dell’Onu per una moratoria della pena di morte a livello mondiale, la situazione sembra essere tornata ad essere quella di prima, e un senso di frustrazione prende chi resta convinto di una evoluzione lineare della civilizzazione.
La pena di morte non è soltanto quella applicata legalmente. C’è un altro scenario sotto i nostri occhi che riguarda tanti Paesi africani e asiatici, nei quali l’assassinio è praticato arbitrariamente e ferocemente, da chi è al potere e da chi ne è fuori, nei riguardi di persone, gruppi sociali, a volte intere etnie, per i motivi più diversi. La richiesta di autonomia e di libertà di un popolo, come in Tibet o in Birmania, può far sca- tenare la repressione politica e religiosa; la volontà di islamizzare una regione come il Darfur può provocare eccidi di massa ad opera di bande di predoni o di milizie più o meno regolari; addirittura lo svolgimento di una tornata elettorale come nello Zimbabwe potrebbe portare ad una guerra civile senza fine.
Di fatto, in diverse parti del pianeta c’è sempre il pericolo che un evento o un altro provochi lo scatenarsi improvviso della violenza con conseguenze terrificanti alle quali assisteremmo inermi e inerti.
Siamo di fronte a situazioni diversissime, una legata alla abolizione della pena di morte legale, l’altra al degrado di Paesi nei quali la vita delle persone potenzialmente non conta nulla e gli uomini possono da un momento all’altro essere annientati come se si dovesse bonificare un territorio dalla presenza di esseri nocivi. Riflettervi oggi, a sessanta anni dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, porta ad un bilancio non lusinghiero del rispetto dei diritti umani nel mondo, e ad una valutazione sfiduciata sulle possibilità che l’ordinamento internazionale sappia farli rispettare nei singoli Stati. Si deve constatare che la tutela della persona rappresenta un valore primario soltanto in alcune parti del pianeta, e che in altre la fatica compiuta dall’umanità per elaborare le Carte internazionali sui diritti umani non ha prodotto frutti. Anche gli strumenti per soccorrere e aiutare le vittime della repressione, degli eccidi e degli stermini, sembrano limitati o inutilizzabili di fronte allo scatenamento della forza bruta ad opera di regimi politici, o di qualche despota feroce, che agiscono come se ci trovassimo agli albori della storia umana.
C’è da chiedersi se non sia giunto il momento di riconsiderare l’intera materia dei diritti umani, e valutare realisticamente i problemi rimasti ancora aperti. Si dà ormai quasi per scontato che i più solenni documenti internazionali non hanno eguale valore per tutti gli Stati, e che i meccanismi di intervento di autorità sopranazionali vengono attivati soltanto quando sono in gioco interessi che coinvolgono le grandi potenze. I tentativi di porre nei Paesi a rischio dei presidi interni che prevengano le peggiori tragedie non sono mai stati realizzati con convinzione, e comunque non hanno portato a nulla. C’è da chiedersi se quel principio elementare di moralità che tutti dichiarano di voler onorare - la tutela della via umana in ogni luogo e in ogni circostanza - potrà mai diventare principio giuridico operativo nei paesi più piccoli come in quelli più grandi, a prescindere dai regimi politici che vi sono operanti. Se non si dà qualche risposta concreta a queste domande è facile prevedere che anche le mobilitazioni ricorrenti per l’esecuzione di qualche condanna a morte, o quelle più episodiche contro gli stermini di massa, potrebbero lasciare il posto ad una apatia e ad una indifferenza che si trasformerebbero in vere e proprie licenze di uccidere per il tiranno di turno. Sarebbe una sconfitta per tutti dalla quale uscirebbe vincente la violenza che si scatena qua e là nel mondo, mentre la speranza dei diritti umani accesa dalla Dichiarazione del 1948 potrebbe entrare in un cono d’ombra non si sa quanto lungo.
«Avvenire» del 16 luglio 2008

02 luglio 2008

Tra liberali e libertari una bella differenza

Risposta a una polemica intentata da Giulio Giorello
di Francesco D’Agostino
Come si declina la libertà? Come distinguere i 'liberali' dai 'libertari'? Belle e difficili domande. Giulio Giorello, nel reagire ironicamente all’articolo che ho pubblicato su 'Avvenire' lo scorso 24 febbraio (vedi il 'Magazine' del 'Corriere della Sera' del 6 marzo), sembra non avere dubbi: liberali e libertari sono a pari titolo critici delle istituzioni, ma i primi mirano solo a riformarle, i secondi a dissolverle. Con un pizzico di buon senso, lo stesso Giorello aggiunge che anche così la questione resta aperta, perché spesso ciò che distingue liberali e libertari è solo questione di grado… Non sono affatto d’accordo: la distinzione di Giorello non riesce a cogliere il diverso orientamento antropologico di due prospettive che, pur assumendo all’inizio orizzonti di riferimento tutto sommato omogenei, a un certo punto si allontanano radicalmente l’una dall’altra. E tra queste due prospettive bisogna alla fine scegliere, sapendo che sono incompatibili. Vediamo perché.
È proprio dell’idea liberale (pienamente condivisa anche dalle ideologie libertarie) quella secondo la quale l’esercizio della libertà, se non si traduce in un danno oggettivo a carico di altri soggetti, va rigorosamente rispettato dallo Stato. I liberali sono accaniti nemici dello 'Stato etico': con questa espressione essi indicano quello Stato che attraverso la sua legislazione pretende di orientare coercitivamente la libertà dei cittadini e per ciò giunge a soffocarla. Lo Stato, secondo i liberali (che qui si manifestano come i veri eredi della tradizione politica cristiana), non è e non deve mai pretendere di diventare la 'fonte' di alcun valore, né etico, né politico, né sociale. Di qui l’auspicio, tipico della più estrema tra le diverse 'correnti' interne del liberalismo, a che lo Stato riduca al 'minimo' le sue competenze e le sue prerogative e si limiti a garantire esclusivamente l’ ordine pubblico. Tutto il resto deve, per i liberali, restare di competenza della società civile, che ha il diritto di organizzarsi senza alcun vincolo e senza alcuna pastoia burocratica.
Fin qui, ripeto, tutti d’accordo: viva la libertà, purché non interferisca (e meno che mai violentemente) con quella degli altri. Dove nasce allora il disaccordo tra liberali e libertari? Nasce da questo: i primi non sono relativisti, i secondi sì. I liberali ritengono che lo Stato, che pure non può mai esserne fonte, abbia però il dovere di riconoscere i valori umani fondamentali. Per i libertari invece i valori o non esistono o comunque si equivalgono tutti (il che equivale a pensare che in realtà non esistano affatto). I liberali ritengono che non si debbano sanzionare penalmente nemmeno gli stili di vita più aberranti (purché innocui!), ma ritengono che essi possano e all’occasione debbano essere socialmente criticati e contrastati. Per i libertari invece 'va tutto bene': per chi è musicalmente stonato la musica di Mozart vale quanto quella di chi si inventa un motivetto e lo fischia per la strada.
Troppo forzata questa distinzione? Non direi. Lo Stato liberale non ci obbliga a lavorare, ma elogia il valore sociale del lavoro. Non ci impone se non una istruzione elementare di base, ma favorisce l’istruzione superiore. Non esige che i cittadini leggano i giornali, ma ne agevola la diffusione. Arriva a rispettare la libera scelta di chi rifiuti consapevolmente una terapia salvavita, ma sente il dovere di garantire a tutti un’assistenza sanitaria. Lo Stato liberale, insomma, cerca di intercettare bisogni umani reali e profondi e di soddisfarli, quando li riconosce dotati di valore oggettivo. Quando, viceversa, li percepisce come carenti di valore, cerca di contrastarli, pur non adottando, se non in casi estremi, politiche repressive.
Per un libertario coerente, che dovrebbe sostenere la neutralità delle politiche statali nei confronti di qualunque stile di vita (ma esistono libertari coerenti?), è pressoché impossibile giustificare queste forme di impegno pubblico. Ecco perché la distinzione tra liberali e libertari è di estremo rilievo: essa corrisponde, né più né meno, che a quella tra un’indifferenza che produce solo disordine sociale e un impegno che cerca di massimizzare il bene della società civile.
«Avvenire» del 9 marzo 2008

Illuministi

di Rino Camilleri
Com'è noto, le uniche radici su cui si è voluta fondare la Costituzione europea sono, rigettate le cristiane, quelle illuministiche. In nome di esse è stato bersagliato l'«integralismo cattolico» di Buttiglione. In verità si tratta di relativismo totalitario, ma tant'è: in fondo, ogni -ismo deriva dai Lumi. Ma se andiamo a vedere la carte, scopriamo, in detto Illuminismo, una sorta di schizofrenia basilare: da una parte, entusiasmi per il mito del «buon selvaggio» (mai esistito); dall'altra, l'invenzione delle «razze» e delle classifiche tra esse.
Lo storico francese Jean de Viguerie (su «Nova Historica» n. 8, 2004, commentato da Marco Respinti su «Il Domenicale» del 16.10.04) si è accorto che proprio grazie agli Illuministi settecenteschi quelli che fin lì erano stati solo «popoli» divennero d'incanto «razze».
I primo fu il solito Voltaire nell'Essai sur les moeurs del 1756: «Solo un cieco può mettere in dubbio che i bianchi, i negri, gli albini, gli ottentotti, i lapponi, i cinesi e gli americani siano razze completamente diverse». E dire che, per Montesquieu, i «persiani» erano molto più civili dei francesi. Forse perché«ariani». Ma sentiamo cosa pensa Voltaire degli africani: «Gli occhi tondi, il naso camuso, le orecchie dalla strana conformazione, i capelli crespi e il livello della loro intelligenza producono tra loro e le altre specie di uomini una differenza sorprendente», Nel suo Dictionnaire philosophique del 1764, alla voce Juifs, così si legge degli ebrei: «Un popolo ignorante e barbaro, che coniuga da lungo tempo l'avarizia più sordida alla superstizione più odiosa e all'odio più irrefrenabile per i popoli che li tollerano e li arricchiscono». Sia lui che il naturalista Buffon (George-Louis Leclerc, conte di) disprezzavano anche i contadini del Nord francese, «zotici che vivono in capanne con le proprie donne e qualche bestia», inferiori perfino agli indiani «del Canada e i cafri». Per Buffon erano tutti «grossolani, pesanti, mal fatti, stupidi», con donne «quasi tutte brutte». Commenta Respinti: così ammaestrati, «i giacobini del 17931794 ci metteranno poco a decretare lo sterminio totale della race maudite della Vandea». Infatti, Van-dea, Bretagna, Anjou, Poitou e Maine costituivano il Nord della Francia d'Ancien Régime, e si ribellarono alla Rivoluzione in nome del cattolicesimo.
Il «vescovo» scismatico Baptiste-Henry Grégoire, pezzo grosso giacobino, pubblicò nel 1788 addirittura un Essai sur la régéneration physique, morale et politique des Juifs, nel quale asseriva che gli ebrei «esalano costantemente cattivo odore» e «sono piante parassite che succhiano la sostanza dell'albero al quale si attaccano finendo con esaurirlo o distruggerlo».
Fu il pastore protestante Jean-Henry Formey a stilare la voce Nègre sull'Encyclopédie e a chiarire che «se ci si allontana dall'Equatore verso l'Antartico, il nero si schiarisce ma la bruttezza rimane». Per Claude Delisle de Sales (De la philosphie de la nature, traité de morale pour l'espèce humaine, 1777) i lapponi sono «aborti della razza umana» e gli ottentotti «hanno qualcosa della sporcizia e della stupidità degli animali che rigovernano»; per Buffon, questi ultimi «sono un popolo spregevole». Per Voltaire (Dialogues et anedoctes philosophiques, 1768), gli albini, «la natura li ha forse collocati dopo i negri e gli ottentotti, e sopra le scimmie». Ne ha anche per gli indios del Brasile (alla faccia del «buon selvaggio»): «Il brasiliano è un animale che non ha ancora raggiunto la maturazione della propria specie». Ma l'ossessione di tutti costoro (e del loro «braccio armato», i giacobini) pare fosse la régéneration, che dalla «filosofia»fece presto a passare all'antropologia e alla politica. Faremo della Francia un cimitero piuttosto che non rigenerarla a modo nostro, disse infatti uno dei caporioni sanculotti durante il Terrore. Respinti cita a proposito l'Essai d'éducation nationale (1763) di LouisRené Caradeuc de La Chalotais, nel quale l'autore si chiedeva: «Esiste un'arte per cambiare la razza degli animali, non ce ne sarebbe una per perfezionare quella degli uomini?», Sempre Respinti fa notare che fu il cugino di Darwin, sir Francis Galton, a rispondergli nel 1883, coniando un termine che il nazismo farà suo e che riemergerà nelle liberal democrazie relativiste del Terzo Millennio: eugenetica. In nome di questi «Lumi», che hanno come emblema la ghigliottina e che hanno generato tutti gli -ismi successivi (nazionalismo, fascismo, nazismo, comunismo, eccetera), si è voluto radicare l'Unione europea, la cui unica ideologia pare essere il relativismo, assoluto e indiscusso, intollerante in nome della (paradossalmente) «tolleranza». E che ha fatto parlare il «Wall Street Journal» del 13 ottobre 2004 di «Inquisizione laica».
Abbiamo visto cosa pensavano delle «differenze» gli IIluministi settecenteschi.
Chissà cosa avrebbero scritto se avessero dovuto inserire nei loro trattati «morali» e di «educazione», nelle loro «enciclopedie» e «dizionari filosofici», la voce «matrimonio gay».
«Il Timone» dell’aprile 2005

Cremazione: quando l’uomo vuole «sparire»

di Roberto Beretta
Volessimo fare i colti, potremmo sfoderare la classica sentenza : «Cupio dissolvi», anelo ad essere annullato. Sciolto. Annientato. Incenerito. In effetti la citazione sovviene scorrendo le cifre – riportate sabato dal «Corriere della Sera» – dell’impressionante balzo in avanti delle cremazioni nella metropoli meneghina: ben 10.500 su 15.000 decessi nel 2007. Bolzano e Como si attestano sul 50% dei cadaveri passati nei forni (altre città come Torino, Roma, Bologna, Trieste arrivano a un terzo circa), che è poi la media dei Paesi nordici; ma Milano va oltre, arriva a percentuali da Svezia e Danimarca, e soprattutto senza possedere una secolare e nemmeno decennale «cultura» in materia, con un’accelerazione bruciante che in soli tre anni ha fatto crescere i milanesi cremati dal 51% al 70%. Che cosa è dunque successo per convincere due meneghini su tre a farsi incenerire? Come mai tale pratica sta dilagando in modo tanto macroscopico nel Nord Italia (al Sud la media è dello 0,5%) e soprattutto nelle città?
Non basta notare che i costi di una cremazione sono assai inferiori a quelli dell’inumazione (324 euro contro tremila); è insufficiente allegare una progressiva carenza di spazi nei cimiteri delle metropoli e la conseguente pressione (inconscia?) verso scelte considerate più «ecologiche».
Certo, si tratta di fattori che hanno un loro peso, così come lo ha il crollo della barriera religiosa (la Chiesa cattolica non considera più la cremazione «ipso facto» peccato) e la possibilità di conservare in casa i resti del defunto ovvero di disperderli in natura, concessa dalla legge in 5 Regioni – in Lombardia già ne approfittano i parenti di 4 cremati su 10. Forse tutto ciò non basta a spiegare e non ha torto il vescovo ambrosiano Erminio De Scalzi a spingere la riflessione un passo oltre: «Si sta diffondendo un concetto sbrigativo della morte». È la montata del «cupio dissolvi», appunto; è il desiderio di scomparire, di non restare più presenti in un luogo precisamente consacrato alla memoria di sé, fors’anche l’idea di non «pesare» sulla vita di chi resta: così complicata e faticosa che non sembra il caso di accrescerne il disagio anche con l’acquisto e la manutenzione di una tomba...
Ma – in fondo – sotto tale presunto atto di «generosità» postuma, sta un giudizio negativo sulla vita: il massimo cui possiamo ambire non è aver lasciato un segno sui posteri, almeno quelli più cari, tale per cui la visita alle nostre spoglie non risulti un peso bensì una risorsa; l’imperativo è «non dar fastidio». La cultura dominante ha del resto talmente abituato all’«usa e getta» che non si vede perché tale mentalità dovrebbe arrestarsi davanti ai cancelli del cimitero: siamo al mondo per «produrre» ed «essere utili», una volta che non lo siamo più tanto vale scomparire; letteralmente.
Anche la dispersione delle ceneri ripete in fondo questo messaggio – se non di nichilismo – di depressione sociale, di profonda insoddisfazione esistenziale: non ho vissuto come volevo, almeno le mie ceneri finiscano nei luoghi che avrei desiderato amare. Altro che «morale laica», il Nord Italia ricco e industriale pretende qui che siano rispettate le sue ultime volontà: non solo la resurrezione dei corpi nell’aldilà non esiste, ma è meglio che non rimanga più nemmeno un segno del corpo nell’aldiqua. E così sia.
«Avvenire» dell’11 marzo 2008

Gulag: geografia dell’Arcipelago

Il lato forse più oscuro e rimosso dell’esperienza sovietica, descritto da uno degli intellettuali che più si sono battuti per riportare il tutto sotto una luce di verità
di Aleksandr Nikolaevic Jakovlev
Jakovlev fu presidente della Commissione per la riabilitazione delle vittime delle repressioni politiche, carica che mantenne fino alla morte nel 2005
Molti credono che Lenin fosse un idealista che solo le circostanze indussero ad essere eccessivamente crudele. In realtà fu Lenin che impose al paese il terrore. Le prese d’ostaggi, le fucilazioni di massa: tutto questo fu una sua iniziativa. Stalin pronunciò una sola frase veritiera: «Sono solo un fedele discepolo di Lenin». In questo egli aveva ragione. Non so se Lenin fosse pazzo, ma paranoico lo era sicuramente. Il sistema ha arrestato, deportato, ucciso. Ha diffuso la paura, favorito la delazione, distrutto il contesto sociale. Ha colpito i bambini, separati dai loro genitori vittime delle 'purghe' o condannati a morte in virtù di una legislazione penale che si faceva beffe della loro minore età.
Già nella primavera del 1918 incomincia il terrore aperto contro tutte le religioni, soprattutto contro la Chiesa ortodossa russa. Il suo iniziatore fu sempre Lenin. La sue azioni contro la religione e la Chiesa non possono non impressionare per la loro diabolica crudeltà e immoralità. Per aver rivolto un appello ai credenti a non partecipare alla dimostrazione per il Primo Maggio del 1918, che secondo il calendario giuliano cadeva al mercoledì della Settimana santa, incominciarono ad essere arrestati i membri del clero. A Vjatka, per esempio, furono arrestati 20 membri dell’Assemblea pastorale. Fu completamente distrutta la gerarchia della diocesi di Perm’.
Nella diocesi di Orenburg furono incarcerati più di 60 sacerdoti, di essi 15 furono fucilati. A Ekaterinburg nell’estate 1918 furono fucilati, uccisi a randellate o fatti annegare 47 membri del clero. Il metropolita di Pietroburgo, Veniamin, fu fatto morire assiderato, inondandolo d’acqua all’aperto con una temperatura gelida. Nel 1937 furono arrestati 136.900 membri del clero ortodosso, di essi 85.300 sono stati fucilati; nel 1938 ne furono arrestati 28.300, fucilati 21.500; nel 1939 arrestati 1.500, fucilati 900; nel 1940 arrestati 5.100, fucilati 1.100; nel 1941 arrestati 4.000, fucilati 1.900.
In tutte le città in cui si svolgevano arresti vennero allestiti dei campi di raccolta nei quali venivano inviati i bambini dopo l’arresto delle loro madri. I documenti dicono che al 4 agosto 1038 ai genitori colpiti da repressioni erano stati portati via 17.355 bambini e si prevedeva l’arresto di altri 5.000. Il 21 marzo 1939 Beria informava Molotov che «nei campi di lavoro correzionale presso le madri detenute si trovano 4.500 bambini di età pre-scolare che si propone di togliere alle madri. Ai bambini si propone di dare nuovi nomi, patronimici e cognomi». Il 7 aprile 1935 il governo dell’Urss approvò il decreto 'Misure di lotta contro la criminalità minorile'. In esso si legge: «I minori, incominciando dall’età di 12 anni, vengono processati penalmente con l’applicazione di tutte le misure di punizione penale». In molti luoghi venne posta la domanda se ciò comprendesse anche la pena di morte. Un rescritto del Politburo del 20 aprile 1935 confermò che «fra le misure di punizione per i minori rientra anche la pena di morte (fucilazione)».
Nel maggio 1941 l’Nkvd ordinò la creazione di una rete di agenti­ delatori nelle colonie di lavoro per adolescenti. I delatori dovevano essere iscritti al Partito comunista. Un notevole esempio di falsificazione delle accuse contro i minori è il processo contro il sedicenne Jurij Kamenev, fucilato con sentenza del Collegio militare il 30 aprile 1938. Si trattava del figlio di Lev Borisovich Kamenev, veterano della rivoluzione, fucilato per 'trotskismo' nel 1936.
Non avendo prove della sua colpevolezza, il Collegio militare nella sua sentenza scrisse: «J. Kamenev, trovandosi sotto l’influenza ideologica del padre, il nemico del popolo L. B. Kamenev, condivise le intenzioni terroristiche dell’organizzazione antisovietica trotskista: esasperato per le repressioni applicate a suo padre come nemico del popolo, Jurij Kamenev nel 1937, nella città di Gor’kij espresse fra gli studenti intenzioni terroristiche verso i dirigenti del partito comunista e del potere sovietico».
L’arbitrio del potere nelle condizioni di fame e generale rovina seguite alla Prima guerra mondiale si manifestò soprattutto contro i contadini. Presto, già a metà del 1918, incominciò l’attacco militare alle campagne. Ma l’inizio della vera tragedia fu il Plenum del Comitato Centrale del Partito comunista del novembre 1929 che prese la decisione di «intensificare la battaglia decisiva con i kulaki (contadini indipendenti, ndt) per sradicare il capitalismo nell’agricoltura». A metà novembre 1930 il Politburo decise di costituire una commissione speciale per elaborare le forme e i metodi della lotta contro i kulaki, a capo della quale venne posto Vjaceslav Molotov, membro della segreteria del partito. La commissione elaborò una direttiva che prevedeva: «La Gpu (polizia politica, ndt) si impegna a rinchiudere nei campi di concentramento approssimativamente 60.000 persone e a deportare i titolari di 150.000 proprietà agricole». Poco più tardi un dirigente della Gpu riferiva dalla regione degli Urali: «Deportati in tutto 32.000 individui, di cui: bambini fino a 12 anni – 15.000 individui, donne con lattanti o con bambini fino a 8 anni – circa 4.000 individui. Uomini – circa 8.500, di cui 1.000 inabili al lavoro».
Negli archivi vi sono non pochi documenti che raccontano come vivevano i deportati: «A causa dell’assenza di adeguata alimentazione, di controllo e di assistenza medica – dice uno di essi – la maggior parte dei deportati non è in grado di produrre la quantità richiesta di legname.
Perciò la direzione dei lavori forestali ha dato l’ordine di coinvolgere nella produzione tutti i deportati senza eccezione e senza distinzione di sesso ed età, stabilendo una 'norma' di produzione, per i bambini fino a 12 anni ed i vecchi, di 2-2,5 metri cubi di legname al giorno, mentre la norma media di lavorazione per gli adulti era stabilita in 3 metri cubi al giorno. Per questa ragione i deportati, per eseguire la 'norma', rimanevano al lavoro nei boschi anche per 24 ore di seguito, dove spesso congelavano, rimanevano assiderati o si ammalavano in massa».
(traduzione di Giovanni Bensi)
I minori, incominciando dall’età di 12 anni, vennero processati penalmente con l’applicazione di tutte le misure di punizione penale. In molti luoghi venne posta la domanda se ciò comprendesse anche la pena di morte. Un rescritto del Politburo del 20 aprile 1935 confermò che «fra le misure di punizione per i minori rientra anche la pena di morte (fucilazione)»

RITROVAMENTI
Pubblicate le foto dei detenuti
Materiali inediti, frutto di un ventennale lavoro di ricerca sono stati pubblicati nel nuovo numero della rivista La Nuova Europa. Lidija Golovkova (Università Ortodossa Umanistica di Mosca), e un gruppo di studiosi di associazioni come «Memorial», stanno portando avanti un progetto per identificare le vittime delle deportazioni, stabilire in quali fosse comuni riposano e ricostruirne le vicende personali.
Molti luoghi, così come molte fosse comuni, che erano stati poi dimenticati o volutamente cancellati, tornano alla luce e ne conosciamo nome e dati (Butovo, Kommunarka, Suchanovka). Tra le verità finora emerse, ha spiegato la ricercatrice russa, è che «il terrore non è da addebitare esclusivamente a Stalin, ma è nato con la stessa Rivoluzione»: i primi campi di concentramento furono aperti a Mosca nel 1918, nei monasteri di san Giovanni, di Andronico e del Salvatore Nuovo. Tra il 1918 e il 1922, sempre a Mosca, furono organizzati 11 lager di vario tipo.
L’intervento della Golovka è accompagnato da immagini impressionanti: prigioni di Mosca sconosciute agli stessi moscoviti, elenchi di nomi dattiloscritti, volti degli aguzzini. «Abbiamo raccolto gli incartamenti relativi a 30mila sacerdoti perseguitati dal potere sovietico. Guardando le loro foto segnaletiche, terribili eppure bellissime, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a icone di moderni martiri».

LE DATE
1918. Primi decreti sui «campi di concentramento».
1919. La Ceka ha il diritto di internare i nemici della rivoluzione.
1923. Le isole Solovki sono poste sotto l’autorità della polizia politica.
1930. Creazione della direzione generale dei campi di concentramento (Gulag).
1931. Primo cantiere modello: il canale del Mar Bianco.
1932-1935. Moltiplicazione dei giganteschi campi cantieri.
1941. Invio dei detenuti al fronte.
1948. Creazione dei campi «speciali» per personalità politiche.
1953. Morte di Stalin, seguita da una grande amnistia.
1953-1954. Grandi rivolte nei campi di Norilsk e della Vorkuta.
1960. Chiusura dei Gulag.
«Avvenire» del 9 marzo 2008

Quel corpo a corpo di santa Caterina contro il «nemico comune»

di Antonio Giuliano
Forse sarà colpa di quei santini che li ritraggono in pose arrendevoli, quasi colti da 'depressione'. Spesso però non riesci a pensare ai santi come uomini e donne 'battaglieri', con una vita 'infuocata' da Dio. Ecco perché la biografia di Caterina da Siena può invece 'bruciare' ogni pregiudizio. Soprattutto se la storia di questa intrepida senese viene tradotta in romanzo da un maestro del genere: Louis de Wohl (1903-1961). Lo scrittore tedesco fa vibrare in questo testo l’esperienza di santa Caterina, patrona d’Italia, così come aveva fatto con san Tommaso d’Aquino ne La liberazione del gigante e sant’Elena ne L’albero della vita. E vi riesce con un racconto ancora una volta molto fedele alle fonti agiografiche e una narrazione che appassiona il lettore fino all’ultima riga. Ci si ritrova così proiettati nel XIV secolo, un tempo di grandi conflitti politici e religiosi, per seguire le vicende di quella piccola donna capace di farsi ascoltare da papi, sovrani e cardinali. Sorprendente se consideriamo che Caterina era semianalfabeta: aveva chiesto e ottenuto da Dio di riuscire a comprendere le Scritture ma non sapeva leggere. E i numerosi scritti che ci ha lasciato (ben 381 solo le famose Lettere) sono stati in larga parte dettati. Caterina Benincasa cominciò a stupire sin dall’infanzia: a sei anni aveva avuto già la prima visione. Contro la volontà dei suoi genitori di maritarla, si tagliò i capelli e iniziò in tenera età un percorso di mortificazioni. A soli sedici anni entrò nell’ordine delle domenicane 'Mantellate'. Santa in terra o strega: da subito il giudizio su di lei si divise. Per il suo furore e i suoi 'strani comportamenti' venne messa sotto accusa persino da alcune consorelle. Ma la sua fiducia nella Provvidenza era incrollabile: Caterina fu un’orante ostinata, dava del tu a Dio. Per questo rivendicò con fierezza: La mia natura è il fuoco, come recita il titolo del libro. Non era presunzione, ma solo consapevolezza di una fiamma interiore alimentata da un Altro. E anche le astinenze forzate a cui si costringeva erano la via per quella gioia sovrumana che le si leggeva in viso. Soffrì molto, ebbe le stimmate (visibili solo dopo il suo trapasso) e ammalata si spense a soli 33 anni, proprio come il suo modello: Gesù. Così dissero alla sua morte: «Simone di Cirene portò la croce di Cristo a nostro Signore per un breve tratto; Caterina da Siena ha provato a portarla per tutta la vita». Fu una donna mistica, ascetica, andava spesso in estasi dopo aver ricevuto la comunione. Ma fu anche molto attiva nel volontariato ospedaliero e in politica: per il grande amore verso la Chiesa riuscì a riportare il papato da Avignone a Roma. Fu però altrettanto sferzante nel chiedere al clero e ai potenti di non dividere gli animi per la brama di potere. Una credente che non rinunciava ad esprimere pubblicamente la sua fede. Uno spirito guerriero. «Nostro Signore – disse – è il più grande capitano di tutti. Il suo destriero è la croce. Ha versato il proprio sangue per i suoi soldati, e la cosa più importante è continuare a combattere al suo fianco contro il nemico comune di Dio e dell’uomo».

Louis de Wohl, La mia natura è il fuoco. Vita di Caterina da Siena, Bur./Rizzoli, pp. 398, € 11,00
«Avvenire» dell’8 marzo 2008

Profilo della Ortese, maggior scrittrice del ’900

di Goffredo Fofi
Tra le molte iniziative interessanti del l’8 marzo si segnalano il film di Alina Marazzi Vogliamo anche le rose, montaggio di storia delle donne nell’Italia del secondo Novecento, e quelle dedicate a Napoli e a Ischia a una delle nostre grandi scrittrici, Anna Maria Ortese, irrequieta napoletana che a Napoli ha dedicato un libro realistico, di base giornalistica, Il mare non bagna Napoli, e un romanzo visionario, visionariamente autobiografico, Il porto di Toledo, sul quale tornò spesso in accanito lavoro alla ricerca di una difficile - rasserenante - perfezione. È uscita in questi giorni, con la prefazione di Lia Levi, la memoria di una corrispondente della Ortese, Adelia Battista, forse un po’ enfatica (e il titolo è certo eccessivo) e diluita, ma che aggiunge qualcosa alla nostra conoscenza della scrittrice, per esempio sulla sua amicizia con lo sfortunato Dario Bellezza, che fu l’amico della Ortese più convinto nel riconoscerne il genio, quando erano in pochissimi a farlo, molto prima della consacrazione avvenuta con il passaggio dell’opera ortesiana alla Adelphi grazie alla mediazione di Citati.
La Battista è in possesso dell’epistolario Ortese-Bellezza, che si spera venga un giorno pubblicato. Il suo è il riconoscente resoconto di una lunga ammirazione per la Ortese e di una rapida conoscenza della medesima, e ha taglio giornalistico più che saggistico o biografico. Raccoglie testimonianze di amici e conoscenti della scrittrice che vanno ad aggiungersi a quelle riportate da Luca Clerici nell’ottima biografia che dedicò alla scrittrice per Mondadori. Più che la vita dei grandi scrittori contano, come si sa, le loro opere e il loro destino, il modo in cui riescono a parlare ai lettori contemporanei e a quelli che vengono dopo.
L’opera della Ortese fu ai suoi inizi apprezzata da molti ma da molti anche detestata, e più incompresa che compresa per lunghi anni (le discussioni su Il mare... ma anche quelle su L’iguana, e in mezzo gli anni di una scarsissima attenzione critica) .E ci si interroga su come sia diventata , dopo Il cardillo addolorato che è del 1993 e il suo controcanto poetico-teorico Alonso e i visionari (1996, due anni prima della morte della scrittrice), così amata e studiata. La risposta è in realtà semplice e sta nel passaggio dell’Italia e del mondo da un’epoca di speranze nella capacità dell’uomo (e anzitutto della politica e della scienza) di risolvere i suoi perenni problemi - le disparità sociali, la convivenza tra popoli ed etnie, e insomma lo sviluppo e la pace - e un’epoca di nuove ed enormi incertezze e paure. Questo ci ha costretto a rivedere le nostre posizioni, a interrogarci sui nostri destini e sulla nostra fragilità, e di conseguenza ad ascoltare le voci che non avevamo voluto ascoltare. La Morante e la Ortese, le nostre maggiori scrittrici, hanno avuto in questo senso lo stesso destino. Esse ci hanno messo in guardia dalle illusioni nella Storia e ci hanno parlato del nascosto e del piccolo, dei misteri e delle verità che stanno oltre le apparenze, oltre le idee ricevute, oltre gli ottimismi di comodo, oltre l’orizzonte unico del sociale... È cambiata la nostra sensibilità, non quella di Elsa Morante o di Anna Maria Ortese. O di Hannah Arendt, di Simone Weil, di Maria Zambrano, di Etty Hillesum... Giancarlo Gaeta ci ricordò anni fa che forse il pensiero filosofico più radicale e convincente del Novecento è stato quello di artiste e pensatrici donne, quelle che ho ricordato e altre ancora: perché estraneo al discorso sul potere che invece ha permeato anche il miglior pensiero maschile.
Adelia Battista, Ortese segreta, Minimum fax, pp. 104, € 7,50
«Avvenire» dell’8 marzo 2008

Petrarca e Laura dall’icona alle foto

Analizzando tre sonetti del «Canzoniere», il critico Giorgio Bertone delinea gli «elementi sparsi» di una teoria dell’immagine e del ritratto nel grande poeta, in linea con il Secondo Concilio di Nicea: e per la prima volta un intellettuale riconosce alla pittura una qualità eccellente
Di Bianca Garavelli
Il punto di partenza è la questione del ritratto, «riassumibile, simbolicamente, nei poli del Concilio di Nicea e dell’avvento della fotografia». Questione nella quale si inscrive, sorta di pacificatore tra forze in contrasto, il poeta Petrarca. È l’affascinante percorso che Giorgio Bertone, docente e studioso letteratura italiana (per esempio di Calvino e di metrica, ma anche del rapporto fra scrittura e paesaggio), compie rileggendo tre sonetti del Canzoniere petrarchesco: il XVI, il LXXVII e il LXXVIII, nei quali individua gli «elementi sparsi» di una teoria del ritratto, non sistematica, ma significativa e sorprendente. Si parte dal celebre sonetto XVI, «Movesi il vecchierel canuto et biancho», in cui un pellegrino compie un viaggio per venerare la Veronica, la vera immagine di Cristo. Con questo pellegrino si identifica lo stesso poeta, che in un certo senso venera l’immagine della sua Laura.
E qui entra in gioco il Secondo Concilio di Nicea: nella quinta sessione, al centro della sala conciliare, «dove già la tradizione voleva in posizione d’onore i Sacri Vangeli», viene messa un’icona. Per la prima volta, l’immagine viene elevata allo stesso rango della parola divina: in effetti dai lavori del Concilio emergerà poi la prevalenza della vista sull’udito, e verrà ufficialmente attribuita alle immagini sacre la capacità di indurre i fedeli all’adorazione di Gesù incarnato, con grande vantaggio per le loro anime.
Petrarca, in tutto ciò, finisce per ricoprire il doppio ruolo di teorico e fruitore concreto della propria stessa teoria. Infatti sappiamo, per sua diretta testimonianza, che si era fatto dipingere dal famoso pittore Simone Martini un ritratto di Laura, al quale teneva moltissimo. Nel Terzo Libro del Secretum, però, dalle parole di Sant’Agostino emerge un duro rimprovero verso questa sua debolezza peccaminosa. Ma a leggere bene, osserva Bertone, si scopre che il male non sta nel ritratto, bensì nell’ossessione del pensiero continuo di Laura, che occupa e tormenta la mente del poeta anche quando la sua donna non è presente. Al contrario verso l’autore di quest’ultimo, Simone Martini, viene espresso un apprezzamento assoluto, al punto di parlare del «genio di un famoso artista».
Quindi Petrarca non si rivela affatto sulla linea dell’iconoclastia, della condanna dell’immagine in quanto inferiore rispetto alla parola, quanto piuttosto dell’idea che nel ritratto, sulla scia di quello divino della Veronica e delle icone, si ponga un fondamento di verità. L’arte del ritratto, e in generale la pittura, è dunque nobile, e in un certo senso divina, dotata com’è del potere di suggerire l’identificazione dell’immagine con la realtà che riproduce. È quanto Petrarca suggerisce nei due sonetti di ringraziamento per il ritratto di Laura, dedicati appunto a Simone Martini, il LXXVII e il LXXVIII. All’immagine, sia pure un’immagine non di per sé sacra, viene attribuito un valore del tutto positivo: la pittura è da ascrivere pienamente nel novero delle arti liberali. Da poeta, Petrarca assume qui anche un po’ il ruolo di storico dell’arte, e di pioniere di un discorso tuttora in atto sull’immagine e il suo ruolo.
Per la prima volta, un intellettuale riconosce all’immagine una potenza dirompente, esercitata attraverso l’emotività che suscita, sia nell’artista che la produce, sia nello spettatore che l’ammira: Simone Martini secondo Petrarca è salito «nel cielo» per ideare la sua opera e vedere la vera immagine di Laura, senza lo schermo ingannevole del corpo. Ecco perché ogni volta che guarda il suo ritratto il poeta tanto si commuove. Una rilettura di tre sonetti che ci fa riflettere su una sorprendente ipotesi: che l’immagine nasca nella cultura occidentale con le radici ben piantate nella dimensione della spiritualità.

Giorgio Bertone, Il Volto di Dio. Il volto di Laura, Il melangolo, pp. 76, € 15,00
«Avvenire» dell’8 marzo 2008