16 luglio 2008

La perfezione, un mito «faustiano»

di Michael J. Sandel
Qualche anno fa una coppia decise che voleva avere un bambino possibilmente privo dell’udito. Le due partner - perché di due donne si trattava - erano entrambe sorde e orgogliose di esserlo. Come altri membri della comunità del Deaf-Pride [letteralmente, «orgoglio della sordità», ndt], Sharon Duchesneau e Candy McCollough non consideravano la sordità una menomazione da curare, ma una vera e propria identità culturale. Secondo Duchesneau, «essere sordi è semplicemente uno stile di vita. Ci sentiamo completi quanto chi ha un udito normale e vogliamo condividere con i nostri figli i lati più belli della nostra comunità di non udenti - il senso di appartenenza e il tenerci in contatto. Siamo veramente convinti di vivere, in quanto sordi, un’esistenza ricca».
Nella speranza di concepire un figlio sordo, Duchesneau e McCollough cercarono un donatore di spermatozoi con cinque generazioni di sordi tra i progenitori. E riuscirono nel loro intento: Gauvin, loro figlio, è privo dell’udito dalla nascita.
Esse rimasero sorprese quando la loro vicenda, raccontata dal «Washington Post», suscitò una diffusa condanna.
L’indignazione era in gran parte legata all’accusa di avere volontariamente reso menomato loro figlio. Duchesneau e McCollough rifiutavano di considerare la sordità una menomazione, e sostennero di avere semplicemente voluto un figlio che fosse come loro. «Quello che abbiamo fatto non ci è sembrato così diverso da quello che fanno molte coppie eterosessuali quando hanno dei figli» dichiarò Duchesneau.
C’è qualcosa che non va nella scelta di avere un figlio sordo? E se c’è, da cosa dipende, dalla sordità o dalla scelta? Ammettiamo, a scopo di ragionamento, che la sordità non sia una menomazione, ma un aspetto dell’identità. Ci sarebbe lo stesso qualcosa che non va nel fatto che i genitori abbiano delle preferenze riguardo ai figli e le realizzino, o saremmo di fronte a ciò che i genitori fanno da sempre scegliendo il partner, e recentemente ricorrendo alle nuove tecnologie della procreazione?
Non molto prima del dibattito sulla decisione di Duchesneau e McCollough di mettere al mondo un figlio privo dell’udito, era apparso un annuncio sullo «Harvard Crimson» e su altri periodici studenteschi della Ivy League: una coppia infeconda cercava una donatrice di ovuli. Non una donatrice qualunque, però, bensì una alta almeno cinque piedi e dieci pollici [un metro e 78], con un fisico atletico, senza patologie familiari e con un punteggio Sat [Scholastic Assessment Test, test di iscrizione all’università, ndt] di almeno 1400. Per gli ovuli di una giovane con queste caratteristiche l’annuncio offriva una ricompensa di 50.000 dollari.
Forse i futuri genitori pronti a sborsare una somma così ingente per un ovulo da premio volevano semplicemente un figlio a loro somiglianza. O forse, al contrario, attingevano alle loro sostanze per cercare di avere dei discendenti più prestanti e brillanti di loro, insomma per migliorare il loro ceppo. Quali che fossero i motivi, la loro proposta fuori dal comune non aveva sollevato l’ondata di indignazione poi suscitata dal caso del figlio sordo per scelta parentale.
Nessuno aveva protestato che l’alta statura, l’intelligenza e un fisico atletico sono menomazione che andrebbero risparmiate a un nascituro. Eppure anche la loro proposta suscita una vaga inquietudine morale. Anche se non comporta nessuno svantaggio per il bambino, non c’è qualcosa che ci mette a disagio nella possibilità che un padre e un madre ordinino un figlio con certi tratti generici?
Alcuni difendono questi tentativi di concepire un figlio sordo o con alti punteggi Sat sottolineando la loro somiglianza con la procreazione naturale da un cruciale punto di vista: a dispetto di quanto fatto dai genitori per aumentarne la probabilità, il risultato non era garantito. Entrambi i tentativi restavano soggetti al capriccio della lotteria genetica. Questa giustificazione solleva un interrogativo interessante: perché una certa imprevedibilità sembra fare differenza, moralmente parlando? E come reagiremmo se la biotecnologia riuscisse a eliminare ogni incertezza, permettendoci di scegliere davvero i tratti genetici dei nostri figli?
I progressi della genetica ci consegnano una promessa e una difficoltà. La promessa è che forse potremo presto curare e prevenire un gran numero di gravi malattie. La difficoltà è che il recente sapere genetico può metterci in condizione di manipolare la nostra natura, di migliorare i nostri muscoli, la nostra memoria e il nostro umore; di scegliere il sesso, la statura e altri tratti genetici dei nostri figli; di potenziare le nostre facoltà fisiche e cognitive fino a stare, per così dire, «più che bene». Molti sono turbati da certi tipi di ingegneria genetica, ma non è facile capire da dove venga il loro disagio. L’abituale terminologia del discorso morale e politico rende difficile dire cosa ci sia di sbagliato nel riprogettare la nostra natura.
Come la chirurgia estetica, il miglioramento genetico impiega mezzi medici per fini non medici, cioè per fini non collegati con la cura e la prevenzione delle malattie, la riparazione delle lesioni traumatiche e il ristabilimento della salute. Ma diversamente dalla chirurgia estetica, il miglioramento genetico non riguarda solo l’aspetto; esso va oltre la pelle, modificandoci in profondità. Perfino i miglioramenti somatici, che non influenzeranno i nostri figli e nipoti, sollevano gravi interrogativi morali. Se nutriamo dubbi sulla giustezza della chirurgia plastica e delle iniezioni di Botox contro rughe della fronte e doppio mento, tanto maggiore sarà il nostro disagio davanti all’uso dell’ingegneria genetica per irrobustire il corpo, ringiovanire la memoria, accrescere l’intelligenza e migliorare l’umore. L’interrogativo è: è un disagio giustificato? E se lo è, quali sono i motivi?
Quando la scienza cammina più in fretta della comprensione etica, come fa oggi, gli uomini e le donne faticano a esprimere l’origine della loro inquietudine, e nelle società liberali ricorrono in primo luogo al lessico dell’autonomia, dell’equità e dei diritti individuali. Ma questa parte del nostro vocabolario morale non ci attrezza ad affrontare le questioni particolarmente ardue sollevate dalla donazione, dalla progettazione dei figli e dall’ingegneria genetica. È per questo che la rivoluzione genomica dà una specie di vertigine morale. Per affrontare l’etica del miglioramento genetico dobbiamo fare i conti con temi che il mondo moderno ha in gran parte perso di vista: temi relativi allo status morale della natura e al modo giusto di porci verso il mondo che ci è stato dato. Dal momento che simili questioni confinano con la teologia, i moderni filosofi e teorici della politica tendono a starne alla larga. Ma le nuove prospettive che le biotecnologie hanno messo alla nostra portata le rendono inevitabili.
«Avvenire» del 12 marzo 2008

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