01 novembre 2018

Giacomo, facci l'autografo

di Matteo Motolese
È una pergamena bianca perfettamente conservata in cui, con una scrittura elegante e posata, un notaio, nel giugno del 1233, a Catania, conferma un privilegio imperiale al monastero di San Salvatore, vicino a Messina. Deve essere stata scritta in modo lento, con attenzione a ogni singola lettera: chi scriveva sapeva d'altronde che stava scrivendo per conto dell'imperatore. Un buco pochi centimetri dopo la fine del testo mostra il punto esatto in cui era stato posto il sigillo d'oro, portato via chissà quando, che rendeva l'atto ufficiale.
A prima vista sembrerebbe uno dei tanti documenti del Medioevo siciliano giunti fino a noi. Ma a guardare con attenzione il testo si comprende che chi ha scritto la pergamena non era solo un funzionario imperiale di alto rango ma era anche il primo grande poeta italiano. Nelle ultime righe della pergamena si legge infatti che l'atto è vergato "per manus Iacobi de Lentino Notarij et fidelis nostri"; in cui quel "nostri" si riferisce a Federico II di Svevia; e quel "Iacobi da Lentino" altri non è che Giacomo da Lentini, massimo poeta della Scuola siciliana e inventore della più longeva delle forme poetiche europee, il sonetto.
Si tratta del primo documento interamente autografo del poeta della corte di Federico II. Lo ha trovato Giuseppina Brunetti, ricercatrice di Filologia romanza all'Università di Bologna, a cui si devono altre scoperte eccezionali in questo campo (anni fa ha scovato, a Zurigo, la più antica testimonianza della poesia siciliana; e si veda qui accanto il suo racconto di questo nuovo avventuroso ritrovamento).
Stupor mundi e la sua corte. Federico II di Svevia sul trono regge i simboli del potere, mentre gli si fanno intorno i suoi dignitari (affresco del duomo di Salerno).Per oltre trecento anni questa pergamena del Duecento ha conservato il segreto della propria eccezionalità nella quiete della fondazione Casa Ducale di Medinaceli, a Toledo, in Spagna. Ma non ha avuto sempre una vita così tranquilla. È il gennaio 1679 quando il viceré spagnolo decide di infliggere una punizione esemplare alla città di Messina a séguito di una rivolta filofrancese. Fa prelevare dalla torre vicina alla cattedrale le carte che conservano le memorie cittadine e ordina poi di buttare giù la torre; fa rompere la campana della cattedrale e poi ne fonde i pezzi per farne una statua del re di Spagna. Poco tempo dopo spedisce per nave tutto quello che ha fatto prendere dalla torre prima di cannoneggiarla: venti sacchi di documenti che vengono inviati in Spagna, per mare. In uno di essi, stipata insieme a mille altri pezzi, ha lasciato l'Italia anche la pergamena scritta da Giacomo.
Quello della Brunetti è un ritrovamento importante: non solo ci testimonia la scrittura autografa di un poeta del XIII secolo (cosa di per sé già estremamente rara), ma proviene da un mondo - quello della Scuola poetica siciliana - di cui abbiamo perso praticamente tutto. I protagonisti della prima stagione poetica italiana sono, per noi, poco più che ombre: sappiamo a malapena i loro nomi, qualche sparso dato biografico; la loro stessa poesia ci è arrivata quasi solo attraverso riscritture toscane, tanto che la lingua letteraria da loro usata è ancora, in buona parte, un mistero.
Anche di Giacomo da Lentini sappiamo molto poco: ignoriamo la data di nascita come quella di morte; ma la trentina di componimenti che ci sono giunti ci dicono che era un poeta capace di una delle scritture più alte della nostra letteratura. A lui si deve l'invenzione della misura aurea della poesia occidentale, il sonetto: quella piccola gabbia metrica che permette colpi d'ala da voliera in cui si sono cimentati Dante e Shakespeare, Baudelaire e Caproni. E in cui lo stesso Giacomo ha saputo sillabare versi di rara bellezza: "A l'aire claro ò vista ploggia dare, / ed a lo scuro rendere clarore; / e foco arzente ghiaccia diventare, / e freda neve rendere clarore" in cui gli opposti atmosferici diventano il riflesso minore di una passione amorosa: "Ed ò vista d'Amor cosa più forte / ch'era feruto e sanòmi ferendo, / lo foco donde ardea stutò con foco; / la vita che mi dè fue la mia morte...".
Era un maestro della misura breve, Giacomo. Ma anche nelle canzoni più distese sapeva imprimere al verso un'intensità rimasta intatta dopo secoli. Non a caso a lui è dedicato uno dei tre volumi della splendida edizione dei Poeti della scuola siciliana uscita l'anno scorso nei Meridiani Mondadori (lo ha curato Roberto Antonelli, tra i massimi studiosi dei Siciliani).
Ma la pergamena di Toledo va al di là dell'emozione feticistica di essere dinanzi alla scrittura di uno dei più importanti poeti italiani antichi. Ci permette soprattutto di guardare meglio all'interno della corte in cui è scoccata la prima scintilla della migliore poesia italiana. Il fatto che rechi sul retro una scritta in greco ci rimanda, ad esempio, a una delle caratteristiche più note di quell'ambiente: l'incontro tra lingue e culture diverse. Lo stesso Federico era visto dai contemporanei come in grado di passare dal latino al greco, al tedesco, all'arabo oltre che ovviamente al siciliano; nella biblioteca che portava con sé nei suoi spostamenti i testi della medicina araba trovavano posto accanto ai codici della letteratura provenzale. Non solo. Il fatto stesso che la scrittura di Giacomo, in quanto notaio, potesse valere giuridicamente come quella dell'imperatore ci offre la testimonianza più evidente di quella saldatura tra corte, potere politico e letteratura che - a meno di cinquant'anni dal crollo della dinastia sveva - Dante vedeva già come qualcosa di mitico a cui ritornare.
Ex priore bandito da Firenze, costretto ad elemosinare ospitalità nell'Italia settentrionale, Dante sapeva bene infatti che i poeti attorno a Federico II erano stati, prima di tutto, alti funzionari. Sapeva che il loro era uno status ben diverso da quello dei trovatori che ancora vagavano per le corti settentrionali per allietare il pranzo dei signori locali. Erano giudici (come Guido delle Colonne), grandi cancellieri (come Pier delle Vigne), notai (come lo stesso Giacomo ma anche Mazzeo di Ricco). Lo sapeva anche perché i manoscritti due-trecenteschi toscani che tramandano la loro poesia registrano con scrupolo le singole professioni: lo stesso Giacomo da Lentini è sempre indicato come "Notaro Giacomo". Così, d'altronde, lui stesso si firmava non solo nei documenti imperiali ma anche nel chiedere l'amore in coda a una delle sue poesie più celebri: "Lo vostro amor, ch'è caro, / donatelo al notaro / ch'è nato da Lentino".
«Il Sole 24 ore» del 17 gennaio 2010

29 ottobre 2018

La noia delle cavallette

di Alessandro D’Avenia
«Metti via quel telefono!». È ormai la stanca litania che ripetiamo ogni giorno ai nostri figli per tentare di recuperarne la presenza: a casa, a tavola, in mezzo agli altri. La risposta, come a giustificare i loro occhi ipnotizzati dallo schermo, è quasi sempre la stessa: «Mi annoio». E hanno ragione, oggi più che mai. La costante stimolazione di cui sono capaci telefoni e tablet, infatti, attiva continuamente i meccanismi di ricompensa del cervello. Spento lo schermo il bambino o l’adolescente precipita in un mondo le cui sollecitazioni appaiono pallide rispetto agli «effetti speciali» digitali, motivo per cui la soglia di percezione della noia è molto più bassa rispetto a chi è cresciuto senza dispositivi elettronici. È un tipo di noia nuovo, con cui chi educa deve fare i conti. Una noia «artificiale», molto diversa da quella «naturale» che da sempre conduce i bambini a trasformare le cose che cadono sotto i cinque sensi in un viaggio di esplorazione e scoperta del nuovo: scoprire significa letteralmente togliere il coperchio alle cose ed è spesso la noia la molla per farlo. Ricordo ancora i pomeriggi in cui, per combatterla, mescolavo pericolosi intrugli improvvisandomi piccolo chimico o sfogliavo le pagine di Conoscere a caccia di storie e invenzioni altrui. La ricerca di senso riusciva così a «illuminare» le cose, permettendo loro di uscire dal buio e dalla piattezza. Faceva saltare i coperchi.
Oggi però il nuovo non è più sotto il coperchio, ma in superficie: le superfici luminose che ci abbagliano con le loro immagini sfavillanti, rendendoci passivamente soddisfatti. I dispositivi digitali creano dipendenza perché ci gratificano subito e sempre, diversamente dalla gioia duratura di un’attività impegnativa, che si confronta «fisicamente» con la resistenza di quella che infatti chiamiamo «la dura realtà». La gratificazione profonda si imprime nella memoria e la possiamo rievocare in ogni momento, perché è diventata esperienza: parola che, non a caso, viene da una radice che indica l’attraversare, la stessa di «pericolo» e «porta». Per fare esperienza della realtà bisogna infatti mettersi in pericolo, aprire porte, attraversare soglie. Lo schermo non apre porte ma, appunto, ci scherma dal mondo, imita le porte ma come metafore («cliccare», «home», «portale»...). Lo schermo non è una soglia ma un corridoio con infinite porte che restano chiuse, come mostra il senso di vuoto che proviamo dopo ore a navigare senza meta tra video e notizie, molto diverso dall’appagante stanchezza di chi ha scoperto o vissuto qualcosa. La gratificazione superficiale è sì immediata ma volatile, viene cancellata da un’ulteriore sollecitazione, che però deve essere più forte, potremmo chiamarla «escalation di click»: si tratta, di fatto, del meccanismo delle dipendenze. Steve Jobs e Bill Gates hanno impedito l’uso degli oggetti che hanno prodotto ai propri figli piccoli o adolescenti. Sapevano bene su cosa erano basati per poter essere venduti. Perché non dovremmo provarci anche noi? Questi oggetti creano dipendenza, soprattutto a chi non ha ancora sviluppato la padronanza di sé. Non si tratta di triti moralismi, ma della difesa dell’intelligenza dei bambini: alle superiori noto una crescente difficoltà nell’attenzione, nella tenuta, nella perspicacia, nella comprensione. E questo, purtroppo, è l’effetto dell’eccessiva esposizione agli schermi sin da piccoli, cioè quando si è più soggetti a ciò che cattura il piacere immediato. Ho deciso di scrivere queste righe perché martedì scorso, nella mensa scolastica, ho osservato questa scena: molti ragazzini delle medie mangiavano da soli fissando il cellulare o, se erano in coppie e gruppetti, commentavano il contenuto di qualcosa su uno dei loro telefoni. Come ormai troppo spesso siamo abituati a vedere, anche fra adulti, lo schermo sostituisce il volto, la conversazione, il corpo. L’accurata ricerca americana «Monitoring the Future» del National Institute on Drug Abuse, che da 40 anni verifica la salute psico-fisica degli adolescenti, ne ha segnalato un netto peggioramento a partire dal 2007 (uscita del primo smartphone): alla forte diminuzione delle interazioni sociali reali e delle ore di sonno (meno di sette) corrisponde l’aumento del senso di solitudine, la tendenza all’ansia e alla depressione, in particolare nelle ragazze. Più i ragazzi «frequentano» gli schermi più sono infelici: il medium, se diviene fine, blocca la vita invece di liberarne e allenarne le potenzialità.
Inoltre gli studi evidenziano che il cervello abituato agli schermi è intossicato dal «multitasking». Spesso presentata come qualità dei nostri tempi, se «abusata» si traduce nella difficoltà a concentrarsi e ad aver presa (com-prensione) e tenuta (con-tenuti) su qualcosa: oltre il livello normale di gestione di più problemi contemporaneamente, il multitasking diventa infatti mera dispersione. Si perde profondità e quindi comprensione del mondo, e per i contenuti ci si affida a chi sminuzza la realtà in atomi di informazione allettante e indifferenziata. Alcuni dicono che i miei articoli sono «troppo lunghi». Per leggerne uno ci vogliono al massimo 10 minuti ed escono una volta a settimana. Quindi sono troppo lunghi rispetto a cosa? Alla presa della nostra attenzione, la cui tenuta (circa cinque minuti) si è dimezzata non a caso nell’ultimo decennio. Come mai? È la conseguenza della lettura da schermo, definita «a F» o «a zigzag»: leggiamo la prima riga per intero, le prime parole delle righe successive, poi di nuovo una intera, e poi corriamo dritti alla fine. Se qualcosa ci ha colpito torniamo indietro a consolidare ciò che abbiamo intuito aggiungendo qualche altra parola. Questo modo di leggere soddisfa il bisogno di consumare novità, a scapito di profondità e comprensione. Che cosa vogliamo per i nostri figli? Intelligenza (intesa come intus-legere: leggere dentro e quindi l’attraversare tipico dell’esperienza) o una mente «da cavalletta» come è stata definita quella di chi, navigando, dimentica il compito di partenza? La mente-cavalletta non trattiene perché non fa esperienza, ma ne riceve solo l’apparenza emotiva: rimane nell’interminabile corridoio digitale, osservando tutte le porte senza aprirne realmente nessuna. I dispositivi spesso ci rendono «in-disponibili» all’esperienza: la mano piena non può ricevere né afferrare altro.
Da dove cominciare per restituire ai ragazzi la gioia dell’esperienza? Non basta aprire a forza la loro mano e limitare l’uso degli schermi, bisogna integrarli. Partiamo dalle parole, da sempre fonte di luce per riattivare i sensi e illuminare le cose. Mi soffermo oggi solo sul tema della lettura, seguendo i suggerimenti di «Lettore, vieni a casa», il recente bellissimo libro di Maryanne Wolf, tra le più importanti studiose degli effetti del cervello che legge. Il 90% di chi legge su schermo fa contemporaneamente anche altro, di chi legge su carta ci riesce solo l’1%. La lettura del libro fisico resta quindi una risorsa insostituibile per educare all’intelligenza profonda e all’attenzione. Da zero a due anni è fondamentale la lettura «in braccio» di libri di carta o simili (mia nipote, 11 mesi, ne ha uno con pagine di gomma), perché il bambino ha bisogno di: fisicità e ripetizione. Deve poter toccare, stropicciare, odorare e persino assaggiare le pagine. Le parole «incarnate», ripetute e associate al timbro di voce della madre o del padre, amplificate dal grembo o dal petto, aprono i sensi e preparano alla lettura. Tra i due e i cinque anni occorre immergere i bambini in uno spazio da esplorare liberamente, e riempirlo di libri, oggetti musicali, colori, e tutto ciò che serve al linguaggio creativo, evitando, se possibile, i baby-sitter analogici o digitali. I racconti possono diventare il rito per addormentarsi, la ripetizione delle fiabe allena i bambini sia alla logica sia al caos del mondo. Se volete prepararli alla vita leggete o ascoltate insieme (oggi su youtube trovate di tutto, anche le «fiabe sonore» di un tempo) racconti, tutte le sere, perché - diceva Chesterton - le fiabe non insegnano che esistono i draghi ma come sconfiggerli. Da cinque a dieci anni i bambini devono imparare a leggere bene e mi stupisce trovare alle superiori ragazzi ancora incerti proprio nel leggere un testo ad alta voce, il che significa che non lo capiscono e quindi non ne fanno esperienza, finendo per odiare la lettura e abbandonarsi al potere dell’immagine. Sarebbe opportuno avere tante ore curricolari dedicate alla sola lettura per il percorso della primaria e della secondaria di primo grado. Sogno scuole di lettura, prima che di scrittura, creativa: gli insegnanti dovrebbero fare pratica drammaturgica per leggere con la giusta intonazione e intensità un testo. Con gli alunni di prima superiore leggiamo insieme ad alta voce tutta l’Odissea. Ci vogliono 12 ore: ne basta una per 12 settimane. Ci lamenteremmo meno del fatto che in Italia non si legge: non legge chi legge male e non ha sperimentato la gioia delle parole-porta. Oggi occorre educare quello che la Wolf chiama il cervello «bi-alfabetizzato», che sappia muoversi sui due supporti, schermo e carta, perché richiedono attenzione e abilità diverse. Così avremo ragazzi capaci di intus-legere, di fare esperienza profonda del mondo. Il letto da rifare oggi è quello di proteggere i bambini dalla dipendenza da schermo e provare, almeno una sera a settimana, ad «accendere» le pagine leggendo ad alta voce in famiglia. Noi vogliamo figli liberi e intelligenti, non cavallette.
«Corriere della sera» del 29 ottobre 2018

30 agosto 2018

La scelta di Marco Borriello a Ibiza (e il coraggio di scalare marcia)

Dalla A al calcio minore, la svolta di Borriello e di quelli che fanno «downshifting», rinunciano per guadagnare «in vita». L’esperto: «È un gesto coraggioso, sfida le aspettative»
di Elvira Serra
Quando martedì si è diffusa la notizia che Marco Borriello aveva firmato il contratto con l’Union Deportiva Ibiza, la ripescata della Segunda División B (che corrisponde alla serie C italiana) qualcuno su Twitter ha aggiornato la classifica personale di chi avrebbe voluto essere, mettendo l’attaccante napoletano al primo posto. Tutta invidia maschile per le fortune sentimentali dell’ex calciatore di Milan-Juve-Roma-Cagliari (è ormai nella storia dell’antidoping la difesa dell’allora fidanzata Belen Rodriguez dopo che lui risultò positivo ai test; gli smemorati cerchino su Google). Ma in quelli che commentavano il nuovo ingaggio forse c’era anche un pizzico di ammirazione per un uomo che ha avuto il coraggio di fare downshifting, di scalare la marcia, rinunciando a qualcosa per guadagnarne un’altra.

Gli altri che hanno «scalato»
Borriello, in fondo, avrebbe potuto giocare un altro anno in A e segnare così i quattro gol che gli mancavano per raggiungere quota 100. Invece, a sorpresa, ha scelto la sfida spagnola: vincere il campionato, magari portare l’Ibiza in Liga, e scrivere la sua pagina di storia con gli infradito. Forse lo raggiungerà Antonio Cassano. E così sarebbero in due. Non soli, nella decisione di arretrare per vincere, non per forza una coppa. Molto più in piccolo, il fumettista Matteo Bussola a 35 anni decise di lasciare il lavoro di architetto per guadagnare sicuramente meno, ma passare più tempo in casa con le figlie: dalla sua nuova vita è nato un fortunato libro con Einaudi, Notti in bianco, baci a colazione, tradotto in Francia, Spagna, Germania e Stati Uniti. E il manager Simone Perotti, che dieci anni fa ha mollato il posto di manager per girare il mondo in barca, oggi 52enne nella sua bio online scrive: «Per vivere faccio qualunque cosa solo quando ho bisogno di soldi, cioè raramente perché vivo con poco. Ho pitturato case, preparato aperitivi, fatto la guida per turisti americani, fatto conferenze. Vendo le mie sculture e i miei “pesci” di ardesia e legno antico».

Il coraggio della lentezza
Daniele Trevisani, specializzato in formazione aziendale, coaching e counseling, non teme di scatenare ilarità dicendo che la decisione di Borriello è «spirituale». Anzi, la difende proprio perché si svolge a Ibiza. «Lì il calciatore può praticare una vita con abitudini quotidiane molto più allentate rispetto a quelle che avrebbe avuto in una squadra russa o cinese o araba. Soprattutto, Borriello ha scelto un life script, un copione di vita, che non è stato scritto da nessuno». Questo per Trevisani, autore di Psicologia della libertà, è un gesto molto coraggioso. Lui di norma ha a che fare con dirigenti e imprenditori che non riescono a uscire dalle modalità on o off: «Alternano il lavoro massacrante a periodi di isolamento totale, senza mai trovare un equilibrio».

Bisogno diffuso di nuovi valori
Fabio Introini, che è ricercatore di sociologia alla Cattolica di Milano, osserva una necessità diffusa di ridisegnare le priorità. «Per quelli come Borriello è più facile dire rallento, ma in generale i valori dominanti del tardo capitalismo hanno un po’ stancato: la nuova idea di benessere passa per la riscoperta della dimensione sociale. Ne sono prova le social street, le comunità di cittadini che abitano nella stessa strada e che hanno come principale obiettivo l’inclusione, la socialità e la gratuità». Avanguardie che sono la spia di un cambiamento che è già un orizzonte reale per le nuove generazioni. Perché, analizza Introini, «sono quelle che hanno risentito di più della crisi, e hanno il desiderio di riscoprire valori diversi, post individualisti. Sono naturalmente più rilassati di noi».9 agosto 2018
«Corriere della sera» del 29 agosto 2018

Bambini, ecco come insegnargli l'amore per la lettura

Si può iniziare fin da piccoli, ma con l'esempio dei genitori. Perché leggere deve trasformarsi in un piacere
di Sara Pero
Da Il piccolo principe a Il gabbiano Jonathan Livingston, passando per Topolino. Oppure libri di avventure, come Robinson Crusoe, o di fantascienza e fantasy. Ognuno ha avuto infanzia il suo preferito. Di certo la passione per la lettura è qualcosa che si consolida nel tempo, ma già da molto piccoli si può iniziare a sperimentare il mondo di carta. Per chi sta già pensando a come insegnare ai propri figli ad amare la lettura, qui non troverà alcun vademecum su come fare, ma dei consigli (utili) per invogliare i bambini a leggere, grazie a Alberto Pellai, psicoterapeuta dell'età evolutiva, che di libri per l'infanzia ne ha scritti parecchi - tra gli ultimi la collana di filastrocche illustrate per bambini Piccole grandi sfide, realizzato a quattro mani con Barbara Tamborini - che conosce bene il mondo dei più piccoli.
Si può iniziare a familiarizzare con i libri molto presto: "Il libro rappresenta uno stimolo importante per i bambini già verso i 6-9 mesi, un'età durante la quale si può iniziare a sfogliarlo e a manipolarlo. È bene che ogni bambino abbia una libreria personale già nei primi anni dell'infanzia, dalla quale può scegliere e pescare un libro che lo attira, proprio come si fa con il cestone dei giocattoli. Ovviamente - spiega Pellai - si può iniziare a far appassionare il proprio piccolo con dei libri-gioco, cioè quelli che attraverso suoni o odori, magari, stimolano la multisensorialità. O anche dedicando del tempo alla lettura a voce alta".

I PRIMI PASSI NELLA LETTURA
Quando il bimbo inizia a interagire un po' di più si può passare a dei libri che ritraggono le loro sfide evolutive, ad esempio "quelli che narrano la storia di bambini che non vogliono dormire, che non vogliono andare all'asilo. Che fanno quindi da specchio a situazioni che possono accadere nella loro realtà quotidiana, non con finalità didattiche - dice l'esperto - ma piuttosto di sostegno alla loro crescita. Per poi arrivare a quelli che contengono delle attività da fare insieme ai genitori, magari con canzoni, ricette, lavoretti".

NON "SOFFOCARE" I GUSTI
L’importante è tenere a mente che la lettura rientra nella sfera emotiva, più che cognitiva: "Leggendo un libro - aggiunge Pellai - il bambino scatena la sua fantasia e inizia a manifestare i propri interessi, ad esempio per un genere specifico o per un tema in particolare". Preferenze che i genitori non dovrebbero soffocare: "Se ad esempio nostro figlio legge solo fumetti, più che farglielo pesare - riflette lo psicoterapeuta - potremmo invogliarlo a leggere un libro al mese che tratti di altro e che soprattutto sia caratterizzato da una modalità di lettura differente. Tornando all'esempio dei fumetti, potremmo cercare di inserire saltuariamente la lettura di un libro di narrativa".

L'AMORE PER I LIBRI SI TRASMETTE CON L'ESEMPIO
Ogni libro ci offre la possibilità di sperimentare qualcosa di nuovo: con un libro di fantasia "entriamo" in luoghi inarrivabili, con uno di storia o di scienze soddisfiamo delle curiosità. Poi ci sono quelli che ci regalano delle sensazioni, quelli che ci fanno riflettere. Più che spiegare a un bambino perché è importante leggere - che ovviamente va bene - bisognerebbe dare l'esempio. E ritagliare del tempo, non solo per la lettura, ma anche per la scelta del libro.

"Ai bambini piace tantissimo essere accompagnati in biblioteca per esplorare il mondo dei libri. Quello che si potrebbe fare è riservare un budget a settimana o al mese, a seconda delle disponibilità, da far spendere al bambino in libreria. Oltre ai genitori, anche la scuola può rappresentare un forte promotore della lettura, con spazi dedicati alla lettura ad alta voce per esempio. L'importante, e forse in questi tempi rappresenta la sfida più grande, è ridurre l’iperstimolazione tecnologica, quella dei giochi su tablet, computer e così via perché, essendo caratterizzata da una gratificazione più immediata, può prendere il sopravvento sulla lettura di un bel libro, che viaggia su tempi di gratificazione più lenti, più lunghi".
«La Repubblica» dell’8 agosto 2018

04 febbraio 2018

La tecnologia ci farà licenziare? Ecco com’è andata con il Pc (dal 1980 a oggi)

s. i. a.
Da David Ricardo a John Maynard Keynes, passando per Karl Marx: in passato l’impatto dell’innovazione tecnologica sul lavoro è riuscito a preoccupare economisti di ogni scuola. Quanto ai lavoratori, oggi per fortuna non si arriva alla distruzione delle macchine (come accadeva duecento anni fa in Gran Bretagna con il telaio meccanico) ma l’angoscia di un futuro dominato da globalizzazione e automazione domina l’opinione pubblica, come dimostra l’ascesa di leader e partiti populisti.
Ma l’innovazione è davvero così mostruosa come la dipingono? Probabilmente no, se non altro perché la storia insegna che le ricadute del progresso tecnologico sono molto difficili da immaginare. Illuminante al riguardo è un corposo studio del McKinsey Global Institute (”Jobs lost, jobs gained: workforce transitions in a time of automation”), che esamina l’innovazione tecnologica del passato per cercare indizi su quello che accadrà nel prossimo futuro.
Intanto va smentito il luogo comune che l’automazione distrugga posti di lavoro. Le macchine permettono ai lavoratori di produrre di più, aumentando la produttività e (gradualmente) gli stipendi, e abbassando il prezzo di beni e servizi. Tutto questo crea una nuova domanda di beni e servizi che aumenta la richiesta di lavoro. Con il risultato di fare crescere l’occupazione. Non è solo teoria: guardiamo qualche dato.
Negli Stati Uniti il numero di lavoratori è quasi triplicato tra il 1960 e il 2017, passando da 65 milioni a 152 milioni secondo i dati dell’Us Bureau of Labor Statistics. Certo, le centraliniste telefoniche del 1960 hanno perso il lavoro per “colpa” dell’automazione, ma qualcuno avrebbe mai immaginato quanti altri posti sarebbero stati creati nel 2017 grazie alla nascita dello smartphone?
Il bancomat per esempio, inventato cinquant’anni fa, non ha portato come qualcuno temeva all’estinzione degli impiegati di banca: entrambi (sportelli automatici e fisici) sono cresciuti di numero tra il 1991 e il 2007, con le filiali che si moltiplicavano. Con la crisi del 2008 e l’avvento dell’e-banking le cose sono cambiate, gli sportelli fisici si stanno riducendo di numero ma non faranno la fine delle centraliniste.
Vediamo che cos’è accaduto con il personal computer, al quale “Jobs lost, jobs gained” dedica un intrigante approfondimento. Secondo le stime degli analisti di McKinsey, l’avvento del Pc ha portato dal 1980 alla creazione netta di 15,8 milioni di posti di lavoro, pari a circa il 10% dell’occupazione complessiva negli Stati Uniti. Questa cifra rappresenta in pratica la differenza tra i 19,3 milioni di posti creati in ambito informatico dal 1980 e la perdita di 3,5 milioni di posti dovuta all’avvento del “personal”.
A fare le spese dell’arrivo del Pc sono stati soprattutto dattilografe, tipografi e segretarie. Ma a fronte della riduzione del numero di queste figure professionali, ne sono nate milioni di completamente nuove: dai produttori di hardware (semiconduttori inclusi) a quelli di software, dagli sviluppatori di app ai data scientist, dai customer manager agli operatori dell’e-commerce, fino banalmente ai commessi dei negozi di Pc, ma anche agli analisti quantitativi del mondo finanziario. Senza l’avvento del personal computer non sarebbe stata possibile una creazione così possente di nuove professioni e posti di lavoro, tra l’altro in buona parte caratterizzati da stipendi più elevati della media.
La morale? L’innovazione tecnologica, spesso, non è poi così brutta come qualcuno la dipinge. Ma soprattutto mette a dura prova la capacità di fare previsioni, perché cambia completamente le carte in tavola. Anzi, fa saltare il banco stesso, creando dinamiche di business inedite.
«Il Sole 24 ore - suppl. Nova» del 2 febbraio 2018

04 gennaio 2018

Dante, vite che non sono la sua

Un volume raccoglie le prime biografie (più o meno accurate) e l’iconografia del poeta, con il primo ritratto tracciato da Boccaccio. Appuntamenti a Parigi e Milano
di Paolo Di Stefano
Al di là delle rispettive opere poetiche, una delle differenze sostanziali tra Dante e Petrarca è che del secondo sappiamo moltissimo, mentre disponiamo di pochi dati certi sul primo. Dell’autore del Canzoniere abbiamo le carte autografe e conosciamo perfettamente la sua biblioteca, mentre dell’Alighieri non ci è giunta neppure una riga scritta di suo pugno e la biblioteca ci è pressoché sconosciuta. Infine, mentre le tappe biografiche di Petrarca sono chiare, la vita di Dante è un campo sempre aperto di lavori in corso. Basti ricordare che negli ultimi dieci anni sono uscite, dell’Alighieri, numerose e importanti biografie, a cominciare da quelle di Emilio Pasquini (2007) e di Guglielmo Gorni (2008) per arrivare alle due più recenti: quella narrativa di Marco Santagata (2012) e quella essenziale di Giorgio Inglese (2015).
Le notizie a proposito di Dante si fondano sui documenti d’archivio e sui riferimenti autobiografici disseminati nelle sue opere, e non da ultimo anche sulle «vite» antiche che ne tramandano testimonianze più o meno dirette. Su questo versante, non possiamo che salutare con gratitudine l’ultimo tassello della Necod (pubblicata dal Centro Pio Rajna), e cioè il tomo IV del settimo volume, che si concentra, a cura di Monica Berté e Maurizio Fiorilla, sulle Vite di Dante dal XIV al XVI secolo, con una seconda parte dedicata all’iconografia dantesca curata da Sonia Chiodo e Isabella Valente.
Dante muore a Ravenna, in esilio, nel settembre 1321 lasciando nei contemporanei un enorme interesse sul suo poema e una discreta indifferenza rispetto alla sua vita. Pochi cenni biografici compaiono qua e là nei commenti e nelle esegesi della Commedia. Per esempio al notaio fiorentino Andrea Lancia, chiosatore del poema tra il 1341 e il ’43, si deve la prima identificazione anagrafica di Beatrice come Bice Portinari.
Il primissimo breve ritratto dell’Alighieri risale a Giovanni Villani, che nella Cronica, scritta a ridosso della morte, non risparmia qualche asprezza sul «sommo poeta e filosafo» che oltre a «garrire e sclamare (...) più che si convenia», si mostrò sempre «alquanto presuntuoso e schifo e isdegnoso», sprezzante e incapace di parlare con i «laici», cioè gli incolti. Risentimento verso il transfuga che aveva usato parole violente contro la sua città? In parte.
Un trentennio dopo, tra gli anni 50 e 60, a Giovanni Boccaccio, con il Trattatello in laude di Dante e la successiva revisione in forma ridotta, si deve il primo profilo biografico ragionato e documentato. Diversamente da Villani, l’autore del Decameron non ha conosciuto il Poeta ma si è impegnato a raccogliere informazioni sul suo conto presso molte persone «degne di fede», amici, discepoli e parenti che lo avevano frequentato, compresa una cugina di Beatrice, Lippa de’ Mardoli. Diversamente da Villani, Boccaccio, che fu anche suo trascrittore ed editore, è un fan incondizionato di Dante al punto da metterne in positivo anche i macroscopici (arcinoti) difetti caratteriali come la superbia, la ritrosia ombrosa, l’animosità che a volte lo spinge fino alla rabbia «insana»: specie se toccato nel vivo da questioni politiche, in particolare dopo la cacciata da Firenze e la conseguente maturazione di un odio senza limiti contro i guelfi. Fatto sta che i successivi tentativi biografici verranno influenzati dal Boccaccio, grazie alla enorme diffusione che il Trattatello ebbe in ambedue le redazioni (la lunga e la breve): da lì derivano numerose vite dantesche variamente accurate e attendibili, per lo più inserite in rassegne di uomini illustri. Ecco dunque quelle di Filippo Villani, nipote del vecchio cronista, del grammatico Domenico di Bandino, dell’umanista Leonardo Bruni, del coltissimo mercante e banchiere Giannozzo Manetti, del notaio friulano Marcantonio Nicoletti già sul declinare del Cinquecento. Sono questi sette i testi scelti dai curatori tra i numerosi possibili profili biografici danteschi che si succedono lungo i due secoli e mezzo presi in considerazione.
Colpisce comunque che pur essendo, le antiche vite dell’Alighieri, preziose nel restituirci informazioni ravvicinate sul poeta e sulla ricezione delle sue opere, esse siano anche portatrici di notevoli lacune ed errori destinati a resistere nel tempo. Si pensi per esempio alla sequenza delle opere: Giovanni Villani considera che il Convivio e il De vulgari eloquentia siano opere rimaste incompiute a causa della morte prematura del loro autore, e lo stesso Boccaccio colloca i due trattati nella vecchiaia, mentre oggi sappiamo che ambedue precedono la composizione della Commedia. Senza dire delle numerose leggende che riguardano la genesi del poema: Boccaccio ne attribuisce l’ispirazione (i primi sette canti) all’attività di governo nella repubblica, ben prima dell’esilio (i canti sarebbe stati poi rinvenuti e fatti reperire all’autore rifugiato in Lunigiana). Altre informazioni non si possono né smentire né confermare, come il viaggio a Parigi narrato da Boccaccio: «E già vicino alla sua vecchiezza n’andò a Parigi, dove, con tanta gloria di sé, disputando, più volte mostrò l’altezza del suo ingegno».
Le questioni più aneddotiche sono gustose. Per esempio, al discredito di Boccaccio per la moglie Gemma Donati (mai citata per nome, essendo ritenuta, in quanto donna, «contraria» agli studi del marito) si oppone Bruni, che nel difendere «la gentil donna della nobile famiglia de’ Donati» accusa il Certaldese di avere indugiato troppo sulle pene d’amore di Dante a discapito di argomenti più seri. Ma senza Boccaccio non avremmo il più pregnante ritratto fisico di Dante: media statura, portamento «curvetto», andatura grave, volto lungo, naso aquilino, occhi e mascelle grandi, labbro inferiore sporgente. Secondo il Trattatello, le donne veronesi, vedendo camminare Dante per la città con i suoi capelli neri e crespi come la barba e con il suo incarnato scuro, non dubitavano sulla discesa del Poeta dagli inferi. Probabilmente mediata dalla testimonianza di Andrea Poggi, nipote dell’Alighieri, la fisionomia dantesca così come fu restituita dal Boccaccio avrebbe avuto notevole fortuna sia sul piano letterario sia sul piano iconografico.
A proposito dell’iconografia, basti uno spunto. Sulla figura che compare nel famoso affresco giottesco situato nella cappella del Palazzo del Podestà a Firenze, realizzato nel 1337, scialbato nel ’500 e infine riscoperto e rivalutato nel 1840, si sofferma in particolare lo studio di Sonia Chiodo. Che parla di «un capolavoro di diplomazia»: era quello, infatti, il luogo in cui venivano accolti i colpevoli prima di incamminarsi verso il patibolo e il Poeta, condannato a morte dalla sua città nel 1302, era stato un peccatore che aveva espiato e che adesso finalmente poteva contare nella riabilitazione. Per questo, collocato tra gli eletti, tiene tra le mani lo stesso ramoscello di pomi, simbolo biblico, che si ritrova nella Commedia a rappresentare l’approdo finale del viaggio intrapreso nell’Inferno sotto la guida di Virgilio.


Appuntamenti. La monografia tradotta in francese e la conferenza

Si svolgerà giovedì 16 novembre alla Maison de la Recherche de la Sorbonne a Parigi (rue des Irlandais 4) una «giornata dantesca». L’incontro è stato ideato in occasione dell’uscita, presso Belles Lettres, della traduzione francese della monografia di Enrico Malato sull’Alighieri pubblicata in Italia da Salerno editrice. La giornata è organizzata dalla Société Dantesque de France e dal centro di ricerca sulla letteratura italiana del Medioevo (Cer-Lim). Malato terrà una conferenza dal titolo «Attualità d’un Dante europeo».
La presentazione dell’ultimo volume della «Nuova edizione commentata delle opere di Dante» (Necod) sulle vite di Dante e l’iconografia dantesca, edita dal Centro Pio Rajna, si terrà giovedì 23 novembre alla Biblioteca Ambrosiana di Milano (ore 17.30, Sala XXIII). Interverranno, oltre ai curatori, Marco Petoletti e Angelo Stella introdotti da Armando Torno.
«Corriere della sera» del 12 novembre 2017

Ma la battaglia sul genere delle parole ha davvero senso?

In Francia, ancor più che in Italia, si è scatenato un feroce dibattito sul sessismo della lingua. Ma prima di pareggiare l’idioma 
si dovrebbero uniformare i salari
di Raffaele Simone
Qualche giorno fa Donald Trump, mettendosi a sua insaputa sulle orme di personaggi come Mussolini e Hitler, ha disposto che negli atti del Cdc (Center for Disease Control), massima autorità sanitaria del paese, non compaiano più alcune parole (feto, transgender, diversità, scientificamente fondato). Donald pensa, candidamente, di liberarsi così delle parole e insieme dei problemi a cui alludono. Ma può davvero la politica influire sulla lingua? Forse no, ma ci prova, a giudicare non solo dalle uscite di Donald, ma anche dal putiferio che s’è scatenato in Francia per le rivendicazioni di gruppi e comitati vari contro gli stereotipi sessisti nella lingua (inclusa quella scritta).
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Si rivendicano due obiettivi: creare una versione femminile di nomi di funzione, di mestieri e di titoli attualmente solo al maschile (le président, le pompier); modificare l’ortografia in modo che un insieme di maschi e di femmine non sia più designato dal maschile onnicomprensivo (per esempio, les étudiants “gli studenti [e le studentesse]”) ma da una combinazione adatta a coprire sia gli uni che le altre. Per il primo punto, si propongono (e da qualche tempo si usano) forme come professeure (con e finale femminile) e écrivaine (idem) invece dei tradizionali (in verità grevi e ridicoli) femme professeur e femme écrivain. Ma spuntano anche préfète (“prefetta”), auteure (“autrice”, al posto del maschile generico auteur), ambassadrice (in luogo del maschile ambassadeur) e così via.
Fin qui le rivendicazioni somigliano molto a quelle avanzate sin dall’inizio del suo mandato dalla presidente (o presidenta) della Camera italiana, che ne ha fatto una delle sue bandiere. In Francia però vanno oltre e con ben maggiore caparbietà. Per ottenere che uomini e donne abbiano la stessa visibilità anche nella lingua scritta, s’è messo insieme un sistema ortografico (la “scrittura inclusiva”) che, dopo aver circolato informalmente nei social forum, è arrivato fino ai documenti ufficiali.
Al posto del maschile generico les étudiants (“gli studenti [e le studentesse]”) si ha allora les étudiant·e·s (con punti mediani di separazione), dove la e indica il femminile e la s finale il plurale. Alla stessa maniera, invece di électeurs (“elettori”) si ha électeur·rice·s; invece di citoyens “cittadini”, citoyen·ne·s, con la stessa logica. Una sequenza elementare come “A tutti i miei amici e amiche musicisti e musiciste” darebbe in scrittura inclusiva À tout·e·s mes ami·e·s musicien·ne·s. Questo metodo, già abbastanza acrobatico, con alcune parole dà luogo a soluzioni cervellotiche: da agriculteur (“agricoltore”) si dovrebbe trarre agriculteur·rice·s (“agricoltori uomini e donne”), dove il secondo segmento indica la donna e la s finale, al solito, il plurale.
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La seconda rivendicazione, meno contundente, vorrebbe che al posto di homme e femme (“uomo” e “donna”), sentite come discriminanti, si usassero parole dal significato più ampio: quindi, non droits de l’homme (“diritti dell’uomo [e della donna]”) ma droits humains (“diritti umani”, anche se in humain c’è sempre acquattato il maschio) o droits de la personne.
Potrebbe sembrare una disputa sul sesso degli angeli, invece si tratta di un dibattito accanito che ha investito in pieno la cultura e la politica francesi e si è esteso fino al Canada francofono. Si è costruito perfino un pedigree del cahier de doléances: ne sono stati trovati preannunci nella Dichiarazione dei diritti della donna della rivoluzionaria Olympe de Gauge (1791). Diversi editori hanno portato al macero i loro libri di testo per rifarli in base ai nuovi principi.
Il governo, investito della questione, ha però risposto picche. Jean-Michel Blanquer, il vivace ministro dell’educazione, se l’è cavata astutamente. Ha fatto notare in parlamento che il simbolo della Francia è una donna, la Marianne, e che le uniche autorità in fatto di lingua sono l’uso e… l’Académie Française.
Il primo ministro Edouard Philippe, più esplicito, ha decretato giorni fa che la scrittura inclusiva sia bandita dai documenti ufficiali. Per tutta risposta, le associazioni di insegnanti proclamano che a scuola useranno le nuove regole. Chiamata in causa, l’Académie Francese, su impulso della sua segretaria perpetua (che per sé vuole l’epiteto al maschile) Hélène Carrère d’Encausse, è contraria alla novità, salvo qualche componente, e avverte che la scrittura inclusiva potrà essere “un pericolo mortale” per la lingua. C’è chi nota che anche i transgender potrebbero pretendere la loro parte in grammatica. L’ex presidente Giscard d’Estaing suggerisce di portare la questione dinanzi al parlamento. Da linguista consumato, Alain Rey, decano dei lessicografi francesi, ha ricordato che “le lingue sono ovviamente machiste” e “totalmente arbitrarie nell’attribuire i generi”: la giraffa può esser maschio e la poltrona è femminile pur non corrispondendo a un genere naturale. Rey preconizza anche che la scrittura inclusiva, impronunciabile e difficile per i bambini che imparano a scrivere e leggere, avrà breve vita.
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Tutto questo battibeccare dà una fortissima impressione di déjà-vu. Nel remoto 1993 Alma Sabatini scrisse, per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e con una premessa di Tina Anselmi, una memoria intitolata Il sessismo nella lingua italiana, dove si additavano più o meno le stesse distorsioni che ora si denunciano in Francia. Si dibatté, si litigò, si propose, ma la lingua ritornò silenziosamente com’era. Salvo sindaca, deputata e ministra, poco rimane di quelle proposte così animosamente elaborate. Qualcuno suggerì che la discriminazione forse non era nelle parole, ma nella costruzione del discorso: perché di una ministra si può dire che è “carina e ben fatta” e di un ministro no?
Il dibattito trascurava però, allora come ora, alcuni cruciali dettagli tecnici. Anzitutto, che tutte le lingue dotate di generi distinti usano il maschile come termine onnicomprensivo: certo, è una traccia di primitive concezioni machiste, ma di simili concezioni le lingue sono gremite e, a voler fare pulizia, bisognerebbe smontarle da cima a fondo. Poi, che per una quantità di referenti l’attribuzione di genere è arbitraria: la tigre, il soprano, la guardia e tante altre parole dello stesso genere non contengono alcuna insinuazione discriminatoria.
Ancora: la possibilità di modificare le lingue per decreto trova una barriera insuperabile nella tipologia delle lingue stesse. Lo spagnolo ha da un pezzo presidenta, profesora, doctora, directora, autora, escritora, abogada e tante forme femminili il cui ingresso in italiano o in francese sarebbe considerato una conquista. Il sistema linguistico lo permette e lo ammette. Ma difficilmente le lingue romanze potrebbero accettare membra come femminile di membro, di una commissione o simili. (Anche se - a quel che mi racconta una mia collega - nel verbale di un recente concorso la presidenta ha scritto proprio così.) L’accademica di Francia Florence Délay forse dice il giusto quando osserva che «prima che pareggiare la lingua, sarebbe bene uniformare i salari».
«L'Espresso» del 4 gennaio 2018