di Vittorio A. Sironi
Da alcuni anni le neuroscienze hanno iniziato a interessarsi di arte per cercare di capire le basi neurobiologiche della produzione artistica e per tentare di conoscere quali sono le reti neurofisiologiche che consentono di cogliere come “bella” e/o “piacevole” una pittura, una scultura, un’opera architettonica. Ogni volta che formuliamo un giudizio estetico si attivano area differenti del nostro cervello. La moderne tecniche di neuroimagin (in particolare la Risonanza Magnetica Funzionale) consentono di indagare cosa avviene nel cervello delle persone che osservano l’opera realizzata da un artista. Se nel nostro campo visivo entra un’opera che “piace”, per la quale formuliamo un giudizio estetico positivo, insieme alle aree cerebrali occipitali deputate alla visione, viene attivata l’area orbito-frontale mediale. Se invece il nostro giudizio estetico è negativo si attiva la corteccia motoria sinistra. Infine se restiamo indifferenti entrano in azione la parte inferiore del cingolo e la corteccia parietale. Aree differenti sono interessate anche quando cambia il soggetto dell’opera artistica: paesaggi, ritratti e volti, nature morte od oggetti attivano aree differenti, come se a ogni tipo di rappresentazione corrispondesse una differente “microcoscienza” cerebrale.
È nata così la neurologia dell’arte o neuroestetica, come l’ha battezzata Semir Zeki dell’University College of London, cioè un approccio che considera l’analisi artistico-estetica in funzione dell’impatto neurologico e dello studio neurofisiologico dell’opera d’arte. In una ricerca pubblicata pochi mesi fa dal neuroscienziato londinese insieme al collega giapponese Tomohiro Ishizu, è stato cercato un riscontro neurobiologico all’esperienza di percezione del “bello” e del “sublime”. Dal punto di vista estetico il bello è il risultato determinato dalla completezza formale e dall’armonia delle parti di un’opera (una pittura, una scultura, un edificio), mentre il sublime è dato dalla capacità di qualcosa (un oggetto, un paesaggio, una rappresentazione) di sconvolgere – positivamente – l’animo dell’osservatore. Utilizzando la Risonanza Magnetica Funzionale i due ricercatori hanno localizzato con precisione l’attività cerebrale in un gruppo di volontari durante la percezione di immagini legate all’esperienza del bello e del sublime. Hanno così dimostrato che l’esperienza del sublime attiva aree cerebrali profonde (le strutture dei gangli della base e dell’ippocampo) e il cervelletto, a differenza dell’esperienza del bello, che attiva aree cerebrali neocorticali (soprattutto la corteccia orbito-frontale mediale) e strutture cerebrali profonde associate alla percezione di stimoli emotivi (come l’amigdala e l’insula). Ciò evidenzia che il sentimento del sublime è caratterizzato da componenti conoscitive più che emotive: non solo le due esperienze sono diverse, ma quella legata alla percezione del sublime si pone su un livello neurobiologico
più elevato.
Gli studi neuroestetici portano anche alla conclusione che il giudizio estetico non è qualcosa di soggettivo, ma di oggettivo. In questo senso l’esperimento multimediale sull’altare longobardo in atto nel Museo cristiano di Cividale del Friuli fornisce l’opportunità unica di sperimentare “dal vero” come cambia la percezione di un’opera d’arte quando, oltre che alla bellezza formale del manufatto – che resta tale anche se non è presente l’originaria policromia –, si associa l’esperienza (sublime) di poter osservare l’opera nello splendore dei suoi colori antichi. Una ragione in più per visitare questo straordinario museo.
È nata così la neurologia dell’arte o neuroestetica, come l’ha battezzata Semir Zeki dell’University College of London, cioè un approccio che considera l’analisi artistico-estetica in funzione dell’impatto neurologico e dello studio neurofisiologico dell’opera d’arte. In una ricerca pubblicata pochi mesi fa dal neuroscienziato londinese insieme al collega giapponese Tomohiro Ishizu, è stato cercato un riscontro neurobiologico all’esperienza di percezione del “bello” e del “sublime”. Dal punto di vista estetico il bello è il risultato determinato dalla completezza formale e dall’armonia delle parti di un’opera (una pittura, una scultura, un edificio), mentre il sublime è dato dalla capacità di qualcosa (un oggetto, un paesaggio, una rappresentazione) di sconvolgere – positivamente – l’animo dell’osservatore. Utilizzando la Risonanza Magnetica Funzionale i due ricercatori hanno localizzato con precisione l’attività cerebrale in un gruppo di volontari durante la percezione di immagini legate all’esperienza del bello e del sublime. Hanno così dimostrato che l’esperienza del sublime attiva aree cerebrali profonde (le strutture dei gangli della base e dell’ippocampo) e il cervelletto, a differenza dell’esperienza del bello, che attiva aree cerebrali neocorticali (soprattutto la corteccia orbito-frontale mediale) e strutture cerebrali profonde associate alla percezione di stimoli emotivi (come l’amigdala e l’insula). Ciò evidenzia che il sentimento del sublime è caratterizzato da componenti conoscitive più che emotive: non solo le due esperienze sono diverse, ma quella legata alla percezione del sublime si pone su un livello neurobiologico
più elevato.
Gli studi neuroestetici portano anche alla conclusione che il giudizio estetico non è qualcosa di soggettivo, ma di oggettivo. In questo senso l’esperimento multimediale sull’altare longobardo in atto nel Museo cristiano di Cividale del Friuli fornisce l’opportunità unica di sperimentare “dal vero” come cambia la percezione di un’opera d’arte quando, oltre che alla bellezza formale del manufatto – che resta tale anche se non è presente l’originaria policromia –, si associa l’esperienza (sublime) di poter osservare l’opera nello splendore dei suoi colori antichi. Una ragione in più per visitare questo straordinario museo.
«Avvenire» del 7 agosto 2015
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