Un'analisi del dibattito culturale e giuridico
di Chiara Giaccardi
Oggi la questione del 'gender' si pone come spinosa ma necessaria. Al di là di incomunicabilità e fraintendimenti, azioni di attacco e barricate difensive, proprio nella sua incandescenza il dibattito segnala un nodo di senso ineludibile: quale rapporto intrattenere e coltivare con la nostra dimensione biologica, in un tempo in cui i confini di ciò che è 'naturale' si sono ridefiniti e sono continuamente forzati in ogni direzione? La polarizzazione tra le fazioni opposte – no gender-pro gender – ha ipersemplificato e in molti casi banalizzato la questione, e sembra arrivata a un punto di stallo.
Per questo è importante uscire dalla forma che il dibattito ha assunto e reincorniciarlo in modo nuovo. Una prima questione, preliminare, riguarda la legittimità stessa del problema. Due posizioni si contrappongono: la prima (no gender) sostiene che l’«ideologia gender» esiste ed è unica; la seconda (pro gender) che non esiste ed è una invenzione di chi non accetta i cambiamenti. Posta così, nessuno ha ragione; a uno sguardo più ampio, ognuno ha le sue ragioni.
È vero che i «gender studies» hanno una tradizione di ormai mezzo secolo, e sono nati proprio per denunciare e contrastare posizioni teoriche astratte e pratiche consolidate, basate sulla disuguaglianza: per mostrare che l’essere umano è sempre un essere situato (prima di tutto in un corpo sessuato, poi in una storia, una cultura, un territorio); che il preteso universalismo delle culture e delle regole sociali è in realtà un’astrazione, che prescindendo dalla realtà la mortifica (nella fattispecie, il punto di vista femminile); che rispetto alla nostra corporeità la cultura è tutt’altro che irrilevante. Sin dalle origini i «gender studies» hanno affrontato questioni di tutto rispetto, anzi, doverose.
E questa attenzione continua anche oggi: basta dare un’occhiata, tra i tanti esempi, al bel filmato «Why gender matters for social sciences» (Perché le questioni di genere nelle scienze sociali) sul sito del Gender Institute della London School of Economics, per rendersi conto che le questioni sono molte e che sull’asse delle differenze di genere si giocano ancora oggi molto in termini di rispetto e pari dignità: chi ha accesso a cosa, chi può fare cosa, è ancora fortemente determinato dal genere.
La stessa ragione per cui Edith Stein, in quanto donna, non poté essere titolare di una cattedra di filosofia, oggi fa sì che, a parità di qualifica professionale e competenze, le donne vengano pagate meno degli uomini, o addirittura, in alcuni Paesi, non possano avere diritto all’istruzione né a guidare l’auto, per non parlare del resto. Una questione sulla quale è recentemente intervenuto persino papa Francesco. Una tipica questione di 'gender'.
Dunque gli studi di genere sono diversificati al loro interno; hanno dato importanti risultati e molti possono ancora favorirne in termini di giustizia sociale; non sono esclusivamente né principalmente focalizzati sulla questione del 'genere sessuale come scelta' che prescinde dalla natura. Se non si riconosce questo, si rischia di divenire ideologici a propria volta. Il che non significa che il problema non esista. Semplificando si può dire che oggi ci sono due scuole di pensiero sul 'gender', che a loro volta presentano diversificazioni interne. Nella prima – essenzialista – si opera un passaggio diretto dall’anatomico all’ontologico (le caratteristiche corporee esprimono l’essenza della differenza di genere, ricavabile da esse); è un approccio scientista-positivista, ma anche quella dei primi gender studies femministi, con la tendenza a una visione scissa della sessualità, che alimenta un dualismo contrappositivo e competitivo tra maschile e femminile.
La seconda – culturalista-costruttivista – insiste sul 'gender' come costruzione sociale, e presenta in realtà due varianti. Una versione moderata, che sottolinea il ruolo della rielaborazione culturale del dato biologico, e una radicale – oggi prevalente – secondo la quale la natura non conta e vale solo il discorso sociale e la scelta individuale (posizione che tende all’astrazione del 'neutro').
Oggi il dibattito sul 'gender' è identificato con quest’ultima tipologia, che è la più insensata. Non bisogna però cadere nell’errore della 'cattiva sineddoche': prendere una parte del dibattito, la più discutibile, come il tutto e buttare il bambino con l’acqua sporca. In realtà la battaglia ideologica sul 'gender' (perché una componente ideologica è innegabile) si combatte più a colpi di diritto che di teorie che la giustifichino.
Persino Judith Butler (con la quale peraltro molte sono le ragioni di dissenso), autrice del celebre Questioni di genere, ha affermato di recente che «il sesso biologico esiste, eccome. Non è né una finzione, né una menzogna, né un’illusione. Ciò che rispondo, più semplicemente, è che la sua definizione necessita di un linguaggio e di un quadro di comprensione (...). Noi non intratteniamo mai una relazione immediata, trasparente, innegabile con il sesso biologico. Ci appelliamo invece sempre a determinati ordini discorsivi, ed è proprio questo aspetto che mi interessa».
Di 'gender', dunque, non solo si può, ma si deve parlare. Perché l’essere umano non è solo biologico, né dato una volta per tutte al momento della nascita.
L’identità non è solo espressiva (tiro fuori ciò che già sono) ma relazionale. Non solo biologica, ma simbolica. Dire che semplicemente uomini e donne si nasce, o che semplicemente lo si diventa, è contrapporre due verità che invece stanno insieme: uomini e donne si nasce e si diventa. E in questo processo, che dura tutta la vita, contano tanti aspetti: la storia, la cultura, la religione, l’educazione, i modelli, le vicende personali, l’essere situati in un tempo, uno spazio, un corpo.
In ogni caso, non c’è mai un’aderenza totale e senza resto tra il nostro essere biologico e il nostro essere umani. In questo l’uomo è diverso dall’animale: alla certezza meccanica dell’istinto corrisponde nell’uomo l’incertezza non garantita della libertà e della responsabilità. Il dibattito su come ci riappropriamo (o non riusciamo a riappropriarci) delle nostre caratteristiche anatomiche, e quanto il contesto ci sostiene, ci ostacola, ci indirizza, ci offre le categorie è non solo legittimo ma doveroso.
La forma che ha preso oggi il dibattito sul gender, nella sua punta estrema, commette un errore epistemologico grave, sovrapponendo elementi molto diversi tra loro: in particolare facendo coincidere universalismo e astrazione da una lato, e non-discriminazione ed equivalenza dall’altro, e rivelando così un problema con l’alterità concreta, che si traduce in una cancellazione, di fatto, della dignità delle differenze. Non a caso le nuove forme di educazione spingono alla promozione del 'neutro', che è appunto la cancellazione delle differenze, una forma di discriminazione violenta contro la concretezza del reale, rimosso in nome di una normatività procedurale e astratta.
A questo si collega un altro dei problemi della contemporaneità: il demandare al piano giuridico ciò che andrebbe prima affrontato a livello culturale. Poiché non ci si riesce a mettere d’accordo su cosa significa essere umani oggi, sui contenuti profondi che ci riguardano, si spostano le decisioni sul piano astratto delle procedure, come se fosse neutro dal punto di vista valoriale. Ma l’astrazione non garantisce affatto la neutralità, e, di fatto, il legislatore finisce col ratificare e rendere normativo il caso particolare. Quindi si dovrebbe parlare oggi di 'ideologia giuridica' come minaccia effettiva alla libertà delle nostre scelte, educative prima di tutto. Una deriva legata ai processi di tecnicizzazione che, nell’illusione di garantire la vita collettiva dall’arbitrio delle posizioni di valore, impongono senza nemmeno rendersene conto i valori che li impregnano (efficientismo, fattibilità, controllo, individualizzazione, assenza di senso del limite...).
Un’ideologia che si salda in modo perfettamente funzionale, rafforzandolo, con l’individualismo radicale del pensiero contemporaneo mainstream, e con lo strapotere dei sistemi tecnoeconomici, ai quali fa buon gioco raccontare la favola della 'sovranità dell’io', che ha ben pochi riscontri nella realtà.
A fronte di una 'idolatria dell’io' che, come riconosceva Hannah Arendt, a partire dalla modernità ha preferito scambiare ciò che ha ricevuto come un dono con qualcosa che ha fabbricato con le proprie mani, un discorso sul 'gender' oggi dovrebbe uscire dall’opposizione naturacultura (siamo naturali e culturali in quanto umani) e spostarsi sul piano simbolico. Contro l’illusione idolatrica e tecnocratica di trovare il termine che esprime esattamente, senza resto, ogni sfumatura possibile della nostra identità sessuale, come i 56 profili di 'gender' proposti da Facebook, dovremmo riaprirci alla parola simbolica, capace di ospitare in sé un’apertura, una gamma inesauribile di possibilità espressive (quali la femminilità e la mascolinità, nella loro dualità), e soprattutto una relazionalità costitutiva: la mia identità di genere nasce dall’incontro delle differenze e si è costruita nella relazione con altri, concreti come me. In un movimento di apertura e scoperta che si chiama libertà: nella gratitudine per quanto ricevuto, nella relazionalità del legame, nella consapevolezza che non siamo mai liberi dai condizionamenti culturali eppure abbiamo la capacità di non esserne completamente succubi, se solo evitiamo di aderire ottusamente al dato di fatto.
Credo che un’antropologia cristiana abbia, oggi, da portare un contributo positivo preziosissimo alla doverosa riflessione sul 'gender'. Perché, con Hölderlin, «là dov’è il pericolo cresce anche ciò che salva».
Per questo è importante uscire dalla forma che il dibattito ha assunto e reincorniciarlo in modo nuovo. Una prima questione, preliminare, riguarda la legittimità stessa del problema. Due posizioni si contrappongono: la prima (no gender) sostiene che l’«ideologia gender» esiste ed è unica; la seconda (pro gender) che non esiste ed è una invenzione di chi non accetta i cambiamenti. Posta così, nessuno ha ragione; a uno sguardo più ampio, ognuno ha le sue ragioni.
È vero che i «gender studies» hanno una tradizione di ormai mezzo secolo, e sono nati proprio per denunciare e contrastare posizioni teoriche astratte e pratiche consolidate, basate sulla disuguaglianza: per mostrare che l’essere umano è sempre un essere situato (prima di tutto in un corpo sessuato, poi in una storia, una cultura, un territorio); che il preteso universalismo delle culture e delle regole sociali è in realtà un’astrazione, che prescindendo dalla realtà la mortifica (nella fattispecie, il punto di vista femminile); che rispetto alla nostra corporeità la cultura è tutt’altro che irrilevante. Sin dalle origini i «gender studies» hanno affrontato questioni di tutto rispetto, anzi, doverose.
E questa attenzione continua anche oggi: basta dare un’occhiata, tra i tanti esempi, al bel filmato «Why gender matters for social sciences» (Perché le questioni di genere nelle scienze sociali) sul sito del Gender Institute della London School of Economics, per rendersi conto che le questioni sono molte e che sull’asse delle differenze di genere si giocano ancora oggi molto in termini di rispetto e pari dignità: chi ha accesso a cosa, chi può fare cosa, è ancora fortemente determinato dal genere.
La stessa ragione per cui Edith Stein, in quanto donna, non poté essere titolare di una cattedra di filosofia, oggi fa sì che, a parità di qualifica professionale e competenze, le donne vengano pagate meno degli uomini, o addirittura, in alcuni Paesi, non possano avere diritto all’istruzione né a guidare l’auto, per non parlare del resto. Una questione sulla quale è recentemente intervenuto persino papa Francesco. Una tipica questione di 'gender'.
Dunque gli studi di genere sono diversificati al loro interno; hanno dato importanti risultati e molti possono ancora favorirne in termini di giustizia sociale; non sono esclusivamente né principalmente focalizzati sulla questione del 'genere sessuale come scelta' che prescinde dalla natura. Se non si riconosce questo, si rischia di divenire ideologici a propria volta. Il che non significa che il problema non esista. Semplificando si può dire che oggi ci sono due scuole di pensiero sul 'gender', che a loro volta presentano diversificazioni interne. Nella prima – essenzialista – si opera un passaggio diretto dall’anatomico all’ontologico (le caratteristiche corporee esprimono l’essenza della differenza di genere, ricavabile da esse); è un approccio scientista-positivista, ma anche quella dei primi gender studies femministi, con la tendenza a una visione scissa della sessualità, che alimenta un dualismo contrappositivo e competitivo tra maschile e femminile.
La seconda – culturalista-costruttivista – insiste sul 'gender' come costruzione sociale, e presenta in realtà due varianti. Una versione moderata, che sottolinea il ruolo della rielaborazione culturale del dato biologico, e una radicale – oggi prevalente – secondo la quale la natura non conta e vale solo il discorso sociale e la scelta individuale (posizione che tende all’astrazione del 'neutro').
Oggi il dibattito sul 'gender' è identificato con quest’ultima tipologia, che è la più insensata. Non bisogna però cadere nell’errore della 'cattiva sineddoche': prendere una parte del dibattito, la più discutibile, come il tutto e buttare il bambino con l’acqua sporca. In realtà la battaglia ideologica sul 'gender' (perché una componente ideologica è innegabile) si combatte più a colpi di diritto che di teorie che la giustifichino.
Persino Judith Butler (con la quale peraltro molte sono le ragioni di dissenso), autrice del celebre Questioni di genere, ha affermato di recente che «il sesso biologico esiste, eccome. Non è né una finzione, né una menzogna, né un’illusione. Ciò che rispondo, più semplicemente, è che la sua definizione necessita di un linguaggio e di un quadro di comprensione (...). Noi non intratteniamo mai una relazione immediata, trasparente, innegabile con il sesso biologico. Ci appelliamo invece sempre a determinati ordini discorsivi, ed è proprio questo aspetto che mi interessa».
Di 'gender', dunque, non solo si può, ma si deve parlare. Perché l’essere umano non è solo biologico, né dato una volta per tutte al momento della nascita.
L’identità non è solo espressiva (tiro fuori ciò che già sono) ma relazionale. Non solo biologica, ma simbolica. Dire che semplicemente uomini e donne si nasce, o che semplicemente lo si diventa, è contrapporre due verità che invece stanno insieme: uomini e donne si nasce e si diventa. E in questo processo, che dura tutta la vita, contano tanti aspetti: la storia, la cultura, la religione, l’educazione, i modelli, le vicende personali, l’essere situati in un tempo, uno spazio, un corpo.
In ogni caso, non c’è mai un’aderenza totale e senza resto tra il nostro essere biologico e il nostro essere umani. In questo l’uomo è diverso dall’animale: alla certezza meccanica dell’istinto corrisponde nell’uomo l’incertezza non garantita della libertà e della responsabilità. Il dibattito su come ci riappropriamo (o non riusciamo a riappropriarci) delle nostre caratteristiche anatomiche, e quanto il contesto ci sostiene, ci ostacola, ci indirizza, ci offre le categorie è non solo legittimo ma doveroso.
La forma che ha preso oggi il dibattito sul gender, nella sua punta estrema, commette un errore epistemologico grave, sovrapponendo elementi molto diversi tra loro: in particolare facendo coincidere universalismo e astrazione da una lato, e non-discriminazione ed equivalenza dall’altro, e rivelando così un problema con l’alterità concreta, che si traduce in una cancellazione, di fatto, della dignità delle differenze. Non a caso le nuove forme di educazione spingono alla promozione del 'neutro', che è appunto la cancellazione delle differenze, una forma di discriminazione violenta contro la concretezza del reale, rimosso in nome di una normatività procedurale e astratta.
A questo si collega un altro dei problemi della contemporaneità: il demandare al piano giuridico ciò che andrebbe prima affrontato a livello culturale. Poiché non ci si riesce a mettere d’accordo su cosa significa essere umani oggi, sui contenuti profondi che ci riguardano, si spostano le decisioni sul piano astratto delle procedure, come se fosse neutro dal punto di vista valoriale. Ma l’astrazione non garantisce affatto la neutralità, e, di fatto, il legislatore finisce col ratificare e rendere normativo il caso particolare. Quindi si dovrebbe parlare oggi di 'ideologia giuridica' come minaccia effettiva alla libertà delle nostre scelte, educative prima di tutto. Una deriva legata ai processi di tecnicizzazione che, nell’illusione di garantire la vita collettiva dall’arbitrio delle posizioni di valore, impongono senza nemmeno rendersene conto i valori che li impregnano (efficientismo, fattibilità, controllo, individualizzazione, assenza di senso del limite...).
Un’ideologia che si salda in modo perfettamente funzionale, rafforzandolo, con l’individualismo radicale del pensiero contemporaneo mainstream, e con lo strapotere dei sistemi tecnoeconomici, ai quali fa buon gioco raccontare la favola della 'sovranità dell’io', che ha ben pochi riscontri nella realtà.
A fronte di una 'idolatria dell’io' che, come riconosceva Hannah Arendt, a partire dalla modernità ha preferito scambiare ciò che ha ricevuto come un dono con qualcosa che ha fabbricato con le proprie mani, un discorso sul 'gender' oggi dovrebbe uscire dall’opposizione naturacultura (siamo naturali e culturali in quanto umani) e spostarsi sul piano simbolico. Contro l’illusione idolatrica e tecnocratica di trovare il termine che esprime esattamente, senza resto, ogni sfumatura possibile della nostra identità sessuale, come i 56 profili di 'gender' proposti da Facebook, dovremmo riaprirci alla parola simbolica, capace di ospitare in sé un’apertura, una gamma inesauribile di possibilità espressive (quali la femminilità e la mascolinità, nella loro dualità), e soprattutto una relazionalità costitutiva: la mia identità di genere nasce dall’incontro delle differenze e si è costruita nella relazione con altri, concreti come me. In un movimento di apertura e scoperta che si chiama libertà: nella gratitudine per quanto ricevuto, nella relazionalità del legame, nella consapevolezza che non siamo mai liberi dai condizionamenti culturali eppure abbiamo la capacità di non esserne completamente succubi, se solo evitiamo di aderire ottusamente al dato di fatto.
Credo che un’antropologia cristiana abbia, oggi, da portare un contributo positivo preziosissimo alla doverosa riflessione sul 'gender'. Perché, con Hölderlin, «là dov’è il pericolo cresce anche ciò che salva».
«Avvenire» del 31 luglio 2015
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