Discriminazioni, intelligenza, Buona novella
di Francesco D'Agostino
L'intelligente, documentata ed esauriente analisi che Chiara Giaccardi ha pubblicato su Avvenire del 31 luglio (dal titolo, davvero perfetto, «Riappropriamoci del genere») ha suscitato qualche reazione stizzita e persino aggressiva, arrivata sino all’accusa a questo giornale e alla studiosa di non percepire (!) la gravità delle tensioni culturali che caratterizzano il mondo di oggi, di non tenere nel giusto conto (!!) l’antropologia cristiana e soprattutto di non dare la dovuta considerazione (!!!) alle dichiarazioni sul tema del Magistero e dello stesso Papa. Non intendo entrare nel merito di elucubrazioni frutto di letture grossolane e distorcenti, che si commentano da sole. A me interessa piuttosto rilevare come dietro certe pur modeste polemiche si nasconda un’insidia non irrilevante: quella di confondere la dimensione filosofica e quella teologica dell’antropologia cristiana e, cosa ancor più grave, quella di erigere l’adesione all’antropologia filosofica cristiana a unità di misura della stessa fede, quasi che al Credo che recitiamo ad alta voce ogni volta che partecipiamo alla Messa si dovesse aggiungere un’ulteriore proposizione: "Credo alla differenza tra i sessi". Il punto nodale della questione – già indicato in diverse occasioni su queste colonne, e che Giaccardi sottolinea molto bene – è che non esiste "una" teoria del gender, ma tutta una costellazione di temi, che vanno dal sociologico allo psicologico, dallo storico al giuridico, dal religioso al filosofico, dal politico al sociale, dall’etnologico al biologico. E per ciascuno di questi temi dovrebbero darsi autonomi profili di ricerca. L’antropologia filosofica occidentale sta lentamente prendendo coscienza della complessità del tema del genere, dopo averlo per secoli semplificato grossolanamente e brutalmente assumendo (tranne rare eccezioni) come paradigma unitario e unificante del rapporto tra i sessi quello biologico del primato del maschile sul femminile e quello corrispettivo dell’inferiorità del femminile rispetto al maschile. Da questo paradigma (peraltro fragile, anche biologicamente) sono derivate innumerevoli conseguenze a catena, ancora difficili a rimuoversi, e tutte riassumibili nel concetto di discriminazione tra i sessi: nel mondo della politica come in quello del lavoro, nel mondo della cultura come in quello giuridico e sociale. Di alcune di tali discriminazioni (come quelle, a volte indegne, di cui sono state vittime gli omofili) abbiamo preso coscienza (ma ancora non tutti) solo di recente. Per giustificare l’impegno dei cattolici contro queste discriminazioni non c’è bisogno però di fare specifico appello all’antropologia cristiana, se non per quella parte in cui essa coincide con la moderna antropologia della pari dignità delle persone; è solo necessario un supplemento di intelligenza, che ci faccia capire, nel bene come nel male, il peso della storia e delle dinamiche sociali.
Ma al di là dell’antropologia filosofica si dà anche un’antropologia teologica, desumibile prima dal racconto biblico della creazione dell’essere umano non come soggetto "generico" (come anthropos), ma come maschio e femmina, poi col racconto evangelico dell’incarnazione di Dio, come uomo, nel seno di una donna. Davanti alla Rivelazione, la filosofia non può che tacere e l’uso stesso di un termine come "discriminazione" (legittimo sul piano delle scienze umane) si rivela inopportuno. L’antropologia teologica ci chiama, prima che all’argomentazione, alla meditazione e ci aiuta a tal fine in tanti modi: splendido quello iconografico, che si manifesta nell’accostamento dell’immagine maschile di Cristo in croce a quella femminile di Maria che tiene sulle ginocchia il Figlio. All’icona del Crocifisso, che ci dice tutto quanto vogliamo sapere sul dolore, sulla morte e sull’amore che salva, il cristianesimo ha sempre unito l’icona della tenerezza assolutamente silenziosa e gratuita e del rapporto misterioso e indissolubile tra i sessi, che non è quello generico tra maschio e femmina, ma quello concretissimo tra la madre e il figlio. A questo livello, qualsiasi elaborazione del gender, anche la più stravagante e provocatoria, perde consistenza: resta solo il mistero del rapporto io-tu, dell’affidamento totale del bambino Gesù (e di ogni bambino) alla madre e dell’amore totale della Madonna (e di ogni madre) per il proprio piccolo.
È a questo livello che il cristianesimo può e deve dare, come dice con grande efficacia Chiara Giaccardi, un contributo «preziosissimo» alla teoria del genere (oggi a evidente rischio di deragliamento per radicale impazzimento) e della differenza tra i sessi, studiando le diverse forme di incarnazione culturale del messaggio cristiano. Ogni altro tipo di impegno, parlamentare, dottrinale, pedagogico, ecc., non può che essere benvenuto e anche ritenuto indifferibile e irrinunciabile; ma dovrà sempre essere ritenuto, da parte dei cristiani, secondario. Perché i cristiani, prima di operare per buone leggi, buona scuola, buona medicina (ambiti in cui è possibile trovare alleati in uomini e donne di buona volontà) devono operare per annunciare quella che è stata specificamente loro affidata: una Buona novella.
Ma al di là dell’antropologia filosofica si dà anche un’antropologia teologica, desumibile prima dal racconto biblico della creazione dell’essere umano non come soggetto "generico" (come anthropos), ma come maschio e femmina, poi col racconto evangelico dell’incarnazione di Dio, come uomo, nel seno di una donna. Davanti alla Rivelazione, la filosofia non può che tacere e l’uso stesso di un termine come "discriminazione" (legittimo sul piano delle scienze umane) si rivela inopportuno. L’antropologia teologica ci chiama, prima che all’argomentazione, alla meditazione e ci aiuta a tal fine in tanti modi: splendido quello iconografico, che si manifesta nell’accostamento dell’immagine maschile di Cristo in croce a quella femminile di Maria che tiene sulle ginocchia il Figlio. All’icona del Crocifisso, che ci dice tutto quanto vogliamo sapere sul dolore, sulla morte e sull’amore che salva, il cristianesimo ha sempre unito l’icona della tenerezza assolutamente silenziosa e gratuita e del rapporto misterioso e indissolubile tra i sessi, che non è quello generico tra maschio e femmina, ma quello concretissimo tra la madre e il figlio. A questo livello, qualsiasi elaborazione del gender, anche la più stravagante e provocatoria, perde consistenza: resta solo il mistero del rapporto io-tu, dell’affidamento totale del bambino Gesù (e di ogni bambino) alla madre e dell’amore totale della Madonna (e di ogni madre) per il proprio piccolo.
È a questo livello che il cristianesimo può e deve dare, come dice con grande efficacia Chiara Giaccardi, un contributo «preziosissimo» alla teoria del genere (oggi a evidente rischio di deragliamento per radicale impazzimento) e della differenza tra i sessi, studiando le diverse forme di incarnazione culturale del messaggio cristiano. Ogni altro tipo di impegno, parlamentare, dottrinale, pedagogico, ecc., non può che essere benvenuto e anche ritenuto indifferibile e irrinunciabile; ma dovrà sempre essere ritenuto, da parte dei cristiani, secondario. Perché i cristiani, prima di operare per buone leggi, buona scuola, buona medicina (ambiti in cui è possibile trovare alleati in uomini e donne di buona volontà) devono operare per annunciare quella che è stata specificamente loro affidata: una Buona novella.
«Avvenire» del 10 agosto 2015
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