18 novembre 2014

In difesa del liceo classico dove si capisce la storia

di Luciano Canfora
«Il Liceo classico ci ha corrotti» disse Luigi Berlinguer, neoministro quasi vent'anni fa. A quali sue esperienze attingesse quando così sentenziò, non sappiamo. Nel suo solco si è collocato da ultimo un più giovane studioso, Andrea Ichino, il cui pensiero pedagogico è ormai stabilmente legato all'aforismo «più mitocondri, meno aoristo». Ignari entrambi dell'allarme lanciato da Tocqueville: «Gli studi classici producono cittadini pericolosi» (Democrazia in America , parte II). Allarme voltato in prosa e reso più icastico dalla Enciclopedia del Boccardo (1878) che, alla voce Comunismo avverte: «In nome delle leggi graccane» i giovani imbevuti di studi classici preparano la rivoluzione sociale!
Questo grido non si è udito ieri nel Teatro Carignano a Torino, nel corso del «Processo al Liceo classico». Si è però levata, vibrante, la voce di Ichino, che ha sporto denuncia contro il Liceo classico tacciato di «ingannevole», «iniquo» e «causa del ritardo italiano nella mobilità sociale». Accuse cui Umberto Eco ha risposto con la necessaria ironia. Presieduto con sapiente ed equanime maestria da Armando Spataro, procuratore della Repubblica a Torino, il processo si è risolto con la assoluzione piena dell'imputato: i reati addebitati non sussistono.
Partita chiusa? No. Il Liceo - tutto il Liceo, anche lo Scientifico - deve rinnovarsi. Questo è certo. E deve saper offrire in modo più concreto e con migliori risultati proprio quelle lingue «morte» che, per alcuni, ne sono l'emblema. Ma c'è un convitato di pietra. La posta in gioco infatti non è la coppia, per gli sprovveduti malfamata, delle lingue greca e latina, bensì il sapere storico come tale. Mentre si fa chiasso intorno al bersaglio più comodo (le lingue antiche) si mira invece all'insegnamento della storia. Un sapere che già un nefando imperatore della Cina nel II secolo a.C. considerava «pericoloso per il governo in carica». Quasi come Tocqueville. Ah, questi liberali!
«Corriere della sera» del 16 novembre 2014

Lode allo scientifico. Ma anche a Cicerone. Basta licei a menù fisso

Se ci culliamo troppo nella «Grande Bellezza» delle nostre tradizioni, alla fine ci mancheranno i soldi per comprarci gli antibiotici, gli smartphone, le macchine non inquinanti. Agli studenti serve un mix di conoscenze
di Andrea Ichino
Nel processo di venerdì scorso al Carignano di Torino, il liceo classico è stato assolto da tre capi d’accusa: non preparare adeguatamente i giovani per studi universitari scientifici; non prepararli per le sfide che dovranno affrontare nella società del futuro; aver contribuito a frenare la mobilità sociale nel nostro Paese.
Sotto processo, tuttavia, non era solo questo tipo di liceo, ma una caratteristica ben più profonda della società italiana: l’idea che le conoscenze storico-umanistiche, il latino e il greco siano essenziali, mentre le conoscenze tecnico-scientifiche e le lingue vive possano considerarsi un optional.
I testimoni della difesa, guidati da Umberto Eco nel ruolo di avvocato, hanno convinto la Corte argomentando che quello di cui i giovani hanno bisogno è, prima di tutto, conoscere la storia, l’arte e le lingue della loro civiltà. Luciano Canfora, uno di essi, lo ha ben spiegato sul Corriere di ieri. Queste materie sono un requisito indispensabile per dare ai giovani quella formazione mentale, quel metodo e quei valori senza i quali non potranno essere buoni cittadini e nemmeno dedicarsi, in seguito, a studi scientifici e alle lingue vive se proprio vorranno farlo. Con le conoscenze storico-umanistiche si può fare tutto, ma non è vero il converso per quelle scientifiche.
Adriano Olivetti è stato citato ad esempio perché cercava solo ingegneri che avessero studiato a fondo le materie classiche. A nulla è valso far notare che l’azienda Olivetti non esiste più, dopo aver trascinato nel baratro l’intero settore hi-tech nel nostro Paese, mentre Apple e Microsoft sono ancora lì, sebbene Steve Jobs e Bill Gates non abbiano, credo, frequentato il liceo classico. Oppure suggerire che per tradurre i linguaggi cifrati dei nazisti, i servizi britannici abbiano assunto il matematico Turing, non un latinista.
Neppure hanno convinto le prove portate dall’accusa, riguardo alla peggiore performance degli studenti del classico che tentano il test di medicina a Bologna e nei primi due anni di questo corso di laurea. Oppure il dato che gli studenti del classico che fanno domanda per la classe di scienze della Scuola Normale passino l’esame con frequenza molto inferiore a quella dei candidati dello scientifico. E questo nonostante l’Istat mostri che i primi hanno famiglie più avvantaggiate economicamente e culturalmente. La Corte ha ritenuto che l’evidenza statistica e i numeri non siano fatti rilevanti per il giudizio.
In realtà, l’accusa, da me rappresentata come Pm, non aveva nessuna intenzione di negare importanza alle conoscenze storico-umanistiche, ma solo di suggerire che quelle tecnico-scientifiche non siano meno importanti e che non basti aver studiato la storia e la lingua dei greci e dei latini per poter scoprire la struttura elicoidale del dna. I due mondi non sono in una contrapposizione intrinseca.
Se il tempo fosse dilatabile (come per Hermione nella saga di Harry Potter) potremmo senza problemi imparare a leggere l’Odissea in lingua originale per conoscere la culla della nostra civiltà, così come studiare i mitocondri per conoscere l’origine della vita su questo pianeta.
Il tempo, però, non è dilatabile: le ore in una giornata sono limitate. Così come limitate sono le risorse in termini di spazi e di docenti, anche se potessimo, come dovremmo, pagarli tanto per averne di davvero bravi. L’economia è la «scienza triste» perché una delle sue missioni è ricordare al mondo che ci sono dei vincoli di bilancio: non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Per questo siamo costretti a fare delle scelte, a equilibrare esigenze opposte. Ragion per cui l’accusa ha proposto di offrire ai giovani scuole à la carte, non a menù fisso, che consentano a ciascun studente di costruire gradualmente il proprio mix ideale di conoscenze umanistiche, scientifiche e tecniche. Così accade in Germania, Paese che da anni ha abbandonato il suo rigido liceo classico.
La Corte, tuttavia, ha accolto la tesi contraria della difesa secondo cui avere tutto è perfettamente possibile (una visione «et-et» in contrapposizione allo «aut-aut» dell’accusa) e quindi non siamo condannati ad alcuna scelta imposta da limiti di tempo e spazio.
Rispetto, come doveroso, le decisioni motivate della Corte. Temo però che se continueremo a cullarci nella «Grande Bellezza» delle nostre tradizioni, alla fine ci mancheranno i soldi per comprarci gli antibiotici, gli antidolorifici, le macchine non inquinanti, gli smartphone e anche la tecnologia per la tutela del nostro meraviglioso patrimonio artistico. Beni che altri Paesi avranno prodotto, come meschine formiche, ma che saranno disposti a vendere a noi, cicale erudite, solo se saremo in grado di pagarle.
Per non parlare del debito pubblico che già abbiamo e che sarà difficile restituire solo con le orazioni di Cicerone. Il quale, però, credo ci ricorderebbe che onorare quel debito è in primo luogo un dovere morale.
«Corriere della Sera» del 17 novembre 2014

12 ottobre 2014

Colpa delle stelle: affrontare la morte per fregarla, da Omero a oggi

di Alessandro D'Avenia
In prima superiore ho chiesto di portare i libri letti durante l’estate. Sul banco di una studentessa c’era “Colpa delle stelle”, uno dei libri che ha infuocato le classifiche di libri e i cuori di molti ragazzi, anche grazie al film adesso nelle sale: una storia in cui due sedicenni per vivere il loro amore devono chiedere permesso alla morte. Dimmi cosa leggi e ti dirò chi sei: è la scorciatoia per iniziare a leggere la segnaletica dell’inedito che ogni ragazzo è e che, a 14 anni, non si manifesta scopertamente, ma attraverso scelte (musica, libri, film, serie tv…) che troppo spesso bolliamo come “adolescenziali”, come se da adolescenti si potesse essere altro che adolescenti o l’adolescenza fosse una colpa e non una tappa necessaria a far fiorire la vita.
Ma perché per sentirsi raccontare l’amore i ragazzi scelgono di passare per il crogiolo del dolore? Vivono immersi in una cultura che nasconde il dolore e la morte (se non come spettacolo che è un modo di occultarli). Esaurite le grandi narrazioni religiose e politiche, si trovano privi di codici simbolici capaci di dar senso alla realtà limite. L’uomo è un essere narrativo e simbolico, interpretiamo e stiamo nella realtà attraverso le storie: qualunque azione umana cerchiamo di comprenderla alla luce di una narrazione (Chi è? Da dove viene? Dove va?). Alla Musa si chiedeva di raccontare dell’uomo multiforme, perché quell’uomo era narrativamente la sintesi di ciò che ad un uomo accade nella vita, persino di dare un’occhiata all’aldilà per farsi raccontare come finisce la storia nell’aldiqua. Per poter vivere la vita in anticipo l’uomo si è arrangiato con le storie: gli scrittori sanno che i loro personaggi sono io sperimentali per saggiare la realtà. La società di Omero aveva inventato un modo per superare la morte (il grande tema su cui ogni cultura è costretta a fondare se stessa): socializzarla attraverso la tomba e i racconti epici. La pietra e l’esametro epico (il verso dell’Iliade e dell’Odissea) garantiscono immortalità a un effimero che precipiterebbe nell’oblio, che è peggio della morte.
Le cose non sono cambiate. Ieri come oggi abbiamo bisogno di segni che codifichino e decodifichino la morte, permettendoci di guardarla senza rimanerne pietrificati: abbiamo bisogno, come Perseo, dello specchio dei racconti, dei simboli, per affrontare Medusa. Non si può guardare Medusa direttamente, va affrontata con lo scudo-specchio dell’invenzione culturale. Oggi la Musa canta in serie televisive, musica, libri ... narrazioni che con coerenza gravitano attorno a temi evanescenti nell’educazione simbolica della nuova generazione. A differenza della società omerica che scongiurava la morte con la memoria perenne, oggi è l’amore che sembra avere le credenziali per sconfiggerla. Ma come può se non è per sempre? Gli adolescenti sanno che non si dichiara il proprio amore specificando la data di scadenza come lo yogurt, ma dicendo “ti amerò per sempre”. Per questo cercano storie che (as-)saggino la verità di questa formula: “per sempre” è un’illusione linguistica o la necessaria conseguenza dell’essenza amorosa? Quando lavoravo al film tratto da Bianca come il latte rossa come il sangue, uno sponsor propose di cambiare il titolo, perché la parola sangue poteva spaventare il pubblico. Mi feci una risata: proprio quella parola doveva rimanere, era come togliere il lupo dalla fiaba di Cappuccetto Rosso. I ragazzi di oggi leggono sui volti, ora stanchi ora cinici, della generazione che li cresce la caduta di ogni sogno, sostituito dal morbido o liquido pragmatismo consumistico, e temono che la vita sia una promessa non mantenuta. Ma sentono nel cuore e nella carne che la vita può essere grande e non è fatta per essere riempita di oggetti e botox, ma per essere spesa fino al sangue. Ma per chi o cosa? E come?
Così mi spiego il successo di saghe come quelle di Tolkien, Lewis, Rowling, Martin… L’epica, scacciata dalla porta del nostro cuore rimpicciolito, rientra dalla finestra dei desideri trasfigurati dalla fantasia. Le ragazze (soprattutto) leggono e guardano Colpa delle stelle (mentre i maschi ammirano gli eroi post-omerici del calcio) perché vogliono sapere come si fa ad amare ed essere amate con il coraggio che sfida la morte. Vogliono mettere la testa dove il cuore ha già intuito la verità, e la morte rimane narrativamente (cioè esistenzialmente) il modo più vero per chiamare le cose alla vita. Raymond Carver, scrittore e poeta minacciato – come i protagonisti del libro – dal cancro, volle che sulla sua lapide fossero scolpiti i suoi ultimi versi: “E hai ottenuto quello che/volevi da questa vita, nonostante tutto?/Sì./E cos’è che volevi?/Potermi dire amato, sentirmi/amato sulla terra”. Quando morì aveva solo 50 anni e le parole che un adolescente spesso non riesce a trovare. Ma sa cercare.
«La Stampa» del 18 settembre 2014

La lezione francese sull'utero in affitto

Bioetica, l’Italia rifletta sulla svolta della Gauche
di Francesco D'Agostino
I francesi ci stanno dando una lezione: le grandi tematiche della bioetica attuale (la procreazione eterologa, l’utero in affitto, l’omoparentalità per via artificiale o adottiva, la trascrizione automatica di atti di nascita eterologa avvenuta all’estero) sono da diversi mesi oggetto di un vigoroso dibattito pubblico, attivato da diversi movimenti, ma al quale – archiviata la fase supponente e dirigista anche in queste materie che così cara è costata al Partito socialista e al presidente Hollande – sta contribuendo non poco lo stesso Governo della Gauche, sia nominando commissioni di studio particolarmente qualificate (prive della timidezza che ormai contrassegna il nostro Comitato nazionale di Bioetica), sia attraverso interventi espliciti da parte di uomini politici di primo livello. Come quello dello stesso primo ministro Manuel Valls. In un’intervista a 'La Croix' (di cui 'Avvenire', in solitudine qui in Italia, ha dato ampia notizia sabato 4 ottobre), Valls ha affermato che il no alla maternità surrogata è una «scelta inflessibile» non solo del governo, ma dello stesso presidente Hollande e che la Francia pensa di contrastare la maternità surrogata anche a livello internazionale, attraverso opportune azioni diplomatiche, per indurre i Paesi dove l’utero in affitto è legale a vietarne il ricorso a cittadini stranieri, per stroncare in tal modo ogni tentazione di «turismo procreativo». Non c’è male, se consideriamo che in Italia il governo ha evitato di pronunciarsi su questioni bioetiche assai serie, ma purtroppo ora meno scottanti (come la regolamentazione dei centri di procreazione assistita pronti, dopo l’infausta sentenza della Corte costituzionale, a praticare l’eterologa), e ha rimandato ogni decisione in merito direttamente al Parlamento.
Come andranno le cose Oltralpe è difficile a prevedersi: non a caso il coordinatore della Manif pour tous, cioè del movimento che ha tenuto instancabilmente viva la polemica contro ogni manipolazione della vita, è tutt’altro che tranquillo. Non ha affatto torto, se si considera con quanta arroganza i fautori di una bioetica 'liberale' (come Irène Théry), invece di entrare nel merito delle questioni, continuano a smussarle, insistendo nel dire che il riconoscimento legale di nuove forme di famiglia e di procreazione sarebbe solo questione di tempo e di «maturazione» della pubblica opinione: come se il dibattito (per esempio in merito al diritto alla procreazione artificiale a carico di una coppia di donne) fosse riducibile al contrasto tra 'conservatori' e 'progressisti' (e quindi tra 'cattolici' e 'laici') o, per usare vecchie, ma efficaci espressioni di Umberto Eco, tra 'apocalittici' (terrorizzati dalle nuove tecnologie) e 'integrati' (coloro che invece ne sarebbero entusiasti). Non è così, come dimostra la petizione contro l’utero in affitto, nuova forma di servaggio femminile, pubblicata da 'Libération' (e di cui, ancora una volta, solo 'Avvenire' si è per ora incaricato di informare i lettori italiani) e firmata da numerose personalità di area laico-socialista. Dovrebbe essere chiaro, per chi riesca a togliersi gli occhiali dell’ideologia, che la questione non ha in prima battuta uno spessore religioso, ma antropologico e che la lotta contro la mercificazione del corpo femminile e delle nascite dovrebbe essere percepita come dovere di tutti e non solo dei credenti.
Eppure, incredibilmente, molti continuano a non capirlo, a partire dallo stesso presidente della nostra Corte Costituzionale, che in un’infelice intervista volta a giustificare la nota sentenza con cui la stessa Corte ha fatto cadere il divieto della procreazione eterologa, ha voluto sottolineare (da, ha detto, «cattolico»!) come egli abbia ritenuto un diritto umano fondamentale quello di poter aver comunque un figlio, quindi anche attraverso gameti 'donati'. Che purtroppo tali 'donazioni' siano assai spesso un rozzo trucco, che nasconde cospicue remunerazioni, che il diritto all’identità del nascituro da eterologa venga in tal modo pesantemente leso, che attraverso questi artifici si apra la porta a pratiche indirette, ma non perciò meno gravi, di eugenetica, che con la liberalizzazione della procreazione eterologa si stia creando, anzi già si sia creato, un mercato procreativo, tanto più sconcio quanto più nasconde profitti, interessi e svariate forme di sfruttamento, manipolando perfino le espressioni linguistiche più elementari (la più clamorosa delle quali è quella di «donatore/donatrice di gameti a pagamento»!), di tutto questo il governo socialista francese sembra che cominci ad accorgersene, manifestando una forte intenzione di reagire. In Italia è arrivato il momento di riconoscere, per onestà intellettuale, quanto anche la Francia laica e socialista – dopo la lacerazione al suo stesso interno a causa della introduzione di forza del matrimonio gay – stia facendo i conti con le grandi questioni di bioetica e ci stia sopravanzando su temi cruciali. Dovrebbe essere occasione per noi tutti, e soprattutto per politici e intellettuali, di severi esami di coscienza.
«Avvenire» del 7 ottobre 2014

Benson, apologia da romanzo

Cento anni fa moriva l'autore del «Padrone del mondo». Figlio del primate anglicano, divenne cattolico e prete
di Lorenzo Fazzini
Negli
Pochi anni di vita (solo 43: nato nel 1871, morì un secolo fa, il 19 ottobre 1914), ancor meno quelli da scrittore (10, dal 1904 alla prematura scomparsa), 15 romanzi; un vero, grande capolavoro, Il padrone del mondo (disponibile in due edizioni italiane, quella 'storica' di Jaca Book e quella di Fede & Cultura, che ne sta riproponendo diversi titoli).
Robert Hugh Benson oggi non è in cima alle classifiche, ma a suo tempo furoreggiava come autore di bestseller: «I miei libri stanno vendendo bene, gli editori mi stanno offrendo termini sempre più vantaggiosi» confidava a un amico sul finire della vita. Qualche cifra? La luce invisibile, scritto sulla soglia del passaggio al cattolicesimo, aveva già venduto 5 mila copie (siamo agli inizi del Novecento) quando Con quale autorità?, romanzo storico sullo scontro tra cattolici e anglicani nel ’500, raggiunse la IV edizione e Vieni ruota! Vieni forca! la settima, come certifica il suo (primo) biografo in italiano, il giovane anglista Luca Fumagalli.
Una biografia molto documentata, che inserisce la vicenda esistenziale e culturale di Benson nel quadro più ampio del Regno Unito del tempo, ovvero gli spinosi ma anche fecondi rapporti tra anglicani e cattolici. Fumagalli si sofferma sulla genesi e il retroterra di quei libri apologetici, tutti romanzi storici, che Benson vergava sulla spinta dell’adesione alla fede cattolica, lui ultimo figlio dell’arcivescovo di Canterbury, primate anglicano.
Sono numerose le scoperte sull’autore amato dagli ultimi due pontefici: sia Ratzinger (da cardinale) che Bergoglio (da arcivescovo e pure da papa) hanno dichiarato di aver letto in maniera appassionata Il padrone del mondo. Un libro – molto lodato per il suo tratto profetico anche dal filosofo Augusto Del Noce – che fece esplodere la notorietà dell’autore: Benson fu protagonista di 3 viaggi negli Stati Uniti per conferenze dove brillava come sagace oratore. In Italia i suoi testi, tradotti in almeno 10 lingue, arrivarono già negli anni Venti. «Quasi ogni famiglia cattolica in Inghilterra aveva almeno un libro di Benson» annota Fumagalli.
Nel saggio vengono messi in evidenza diversi legami culturali di Benson, che per un certo tempo fu amico e collaboratore letterario dello scrittore Frederick Rolfe, famoso per il suo Adriano VII (di recente ristampato da Neri Pozza). Benson collaborò con Rolfe per un libro su Tommaso Becket, progetto che però fece venire a galla la diversità incolmabile tra i due: tanto rigoroso e ricco di dirittura morale Benson, soprattutto dopo il sacerdozio ricevuto a Roma nel 1903 (il suo ingresso nel cattolicesimo risaliva al 1902), quanto bohémien e polemico Rolfe.
Ma sono numerosi gli incontri intellettuali di prestigio che Benson intesse nella sua breve vita. Il suo cammino verso il cattolicesimo riceve un impulso decisivo dagli scambi epistolari con padre Vincent McNabb, domenicano irlandese che predicava ogni domenica nei giardini londinesi di Hyde Park (Chesterton lo definì «il più grande uomo in assoluto nell’Inghilterra del nostro tempo»); McNabb aiutò Benson a chiarire il valore dell’infallibilità papale, principale scoglio di incomprensione tra cattolici e anglicani. Anche uno scrittore come Hilaire Belloc spese parole di estrema stima per Benson: «Mi è incredibilmente piaciuto. Ho trovato il suo lavoro di storico davvero unico».
Nel 1904 a Roma ecco poi due incontri quanto mai diversi: il 24 giugno l’udienza privata con Pio X, con un aneddoto curioso: «Il Papa si tolse lo zucchetto, prese quello di Hugh, e li scambiò. Hugh si abbassò per la benedizione, il copricapo cadde, entrambi tentarono di raccoglierlo e sbatterono le teste»... Sempre nella Capitale Benson ebbe un faccia a faccia pure con Romolo Murri, il sacerdote-politico marchigiano che sarà poi sospeso a divinis; i due si incontrano «a tarda notte, nascosti da grandi cappelli e lunghi mantelli, per non dare nell’occhio e non suscitare eccessivi mormorii nel mondo dell’intransigentismo romano».
«Avvenire» del 10 ottobre 2014

Zamagni: Alle radici del pensiero unico

Intervista
di Edoardo Castagna
Da formula di cortesia – o d’amore, o di piaggeria – quel «ogni tuo desiderio è un ordine» è diventato principio giuridico. Non c’è gruppo di attivisti che non reclami il riconoscimento per legge dei propri desiderata, elevati a “diritti”. E guai a contestare queste pretese, magari nel nome di valori che guardano appena un po’ più in là dei gusti personali: scatta immediatamente il “politicamente corretto”, che censura chiunque osi porre un argine tra desiderio e diritto. Una reazione da “totalitarismo culturale”, da “pensiero unico”: «Un’espressione – illustra l’economista Stefano Zamagni – relativamente recente e collegata al concetto sviluppato dal politologo inglese Irving Janis fin dal titolo del suo saggio del 1972 Victims of groupthink (“Vittime del pensiero di gruppo”). Nel pensiero di gruppo, gli individui che lo compongono credono, senza alcuna costrizione, alla verità di quanto elaborato da loro stessi o da chi riconoscono come autorità di riferimento».

Come ci si arriva?
«L’idea, nata studiando le sette religiose, si è poi estesa anche ad altri ambiti. Oggi per esempio i jihadisti sono espressione di un pensiero di gruppo: sono veramente convinti di combattere per la giusta causa, e lo fanno non perché minacciati o retribuiti, ma per seguire l’indicazione del califfo. Ebbene, tra gli anni ’80 e i ’90 questo concetto ha trovato spazio anche in economia, con l’affermazione del modello teorico neoliberista. Inizialmente le cose andavano talmente bene che c’erano economisti (anche premi Nobel) che ritenevano concluso il loro compito, giacché ormai avevano trovato un modello capace di diffondere ovunque il benessere e la stabilità dei mercati».

Erano gli anni in cui Francis Fukuyama teorizzava la «fine della storia» dopo il trionfo dell’Occidente capitalista sul comunismo...
«Sì, ma non solo: il pensiero unico neoliberista aveva dalla sua anche altre due armi di seduzione. La prima era l’eleganza dello strumento matematico. La matematica ha un forte potere persuasivo: quando un teorema “è dimostrato”, l’uomo della strada finisce per crederci, dimenticando che – come ricordano i matematici seri – ogni teorema è valido solo sotto determinate assunzioni di partenza. In ambito finanziario il “modello di Black-Scholes-Merton” è raffinatissimo dal punto di vista matematico e “dimostrava” come i mercati fossero in grado di auto-correggersi tendendo alla stabilità».

E l’altra “arma”?
«Il successo immediato: grazie a quel modello fino al 2007 si sono fatti soldi a palate. La supposta solidità teorica sembrava confermata dai fatti, e la conferma dei fatti contribuiva a diffondere il modello. Naturalmente oggi sappiamo che conteneva errori».

Quali?
«Il principale fu assumere che il rischio finanziario sia sempre esogeno, che cioè provenga sempre dal fattori esterni al sistema: lo rendo tanto più piccolo, quanto più aumento il volume delle transazioni finanziarie. È così che è nata la bolla speculativa dei derivati, sulla quale siamo franati perché invece il rischio era endogeno e quindi aumentava via via che aumentava lo spazio della finanza. I derivati sono stati creati in obbedienza al pensiero unico: per aumentare il numero delle transazioni».

E adesso a che punto siamo?
«Il re è nudo: quella teoria non è più in grado di suggerire linee d’azione. Ci troviamo in un limbo, ma io sono ottimista: la storia del pensiero economico insegna che dall’incertezza entro poco nasce un nuovo pensiero. Fu così nel ’700, quando dopo il mercantilismo si affermarono l’economia civile in Italia (Genovesi, Filangieri, Dragonetti) e l’economia politica in Scozia (Smith); fu così dopo la crisi del 1929, quando emerse Keynes. Oggi anche ex difensori del pensiero unico – come i Nobel Stiglitz, Phelps e Krugman – hanno cambiato direzione, per non parlare di Amartya Sen, che ha cominciato a criticarlo fin dagli anni ’70... Si sta preparando una nuova rivoluzione scientifica».

Ma se il politico continua a delegare al tecnico le proprie decisioni, non c’è il rischio di cadere subito negli stessi errori?
«L’economia deve essere autonoma, ma non separata dall’etica e dalla politica. Occorre ribaltare il principio del “Noma” (Non-overlapping magisteria) teorizzato fin dal 1829 da Richard Whateley, che sostiene che “i magisteri non si sovrappongono”, che per essere scienza l’economia non deve mescolarsi all’etica e alla politica. Business is business. Per evitare di riprodurre il pensiero unico bisogna garantire il pluralismo, invece negli ultimi decenni i fondi di ricerca, le cattedre universitarie, gli spazi di pubblicazione andavano solo agli “allineati”. Questa è dittatura del pensiero».

Una dittatura che non si limita al campo economico...
«Vale per l’economia come per le scienze sociali, il diritto, la bioetica. L’individualismo libertario tende a far credere che le preferenze degli individui abbiano lo stesso statuto dei loro diritti: se preferisco diventare donna e generare un figlio devo poterlo fare, se preferisco scegliere come dev’essere fatto il mio bambino devo poterlo fare... Eppure non c’è solo il “diritto” dell’adulto che decide: c’è anche, per esempio, quello del nascituro. Che non viene mai riconosciuto, perché non c’è nessuno che possa “negoziare” in vece di chi non ha voce».

Ma questa è la teoria liberale classica: mediazione tra diritti che confliggono…
«I vecchi liberali erano persone serie... John Stuart Mill diceva che le preferenze devono avere sfogo fino a quando compatibili con i diritti di tutti. Era lo spirito della prima rivoluzione dell’individualismo, quella illuminista di fine ’700. A fine ’900 invece la seconda rivoluzione ha imposto il pensiero unico di un individualismo non più liberale ma libertario – per il quale le preferenze dell’individuo hanno lo stesso statuto dei diritti. Ed è reso ancor più pericoloso dal fatto che oggi la tecnologia consente di ottenere quello che un tempo non si poteva nemmeno immaginare».
«Avvenire» dell'8 ottobre 2014

08 ottobre 2014

È confermato: la vita va oltre la morte

Studio inglese
di Emanuela Di Pasqua
L’Università di Southampton ha condotto una ricerca su 2mila pazienti colpiti da arresto cardiaco per indagare il livello di consapevolezza delle persone clinicamente decedute
La possibilità che la vita si estenda oltre l’ultimo respiro è una materia che è stata trattata ampiamente, spesso giudicata con aperto scetticismo. Le esperienze riportate dalle persone così fortunate da poterle raccontare sono state generalmente spiegate come allucinazioni dovute alla grave condizione psicofisica. È di questi giorni però la pubblicazione di un interessante studio inglese che comproverebbe il mantenimento di un certo grado di coscienza da parte di persone in arresto cardiaco.

Esperienze coscienti a cuore fermo
Per quattro anni i ricercatori della Southampton University hanno esaminato i casi di 2.060 persone, tutte vittime di arresto cardiaco, in 15 ospedali sparsi tra la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e l’Austria. Secondo i dati in possesso degli studiosi inglesi, circa il 40 per cento dei sopravvissuti ha descritto esperienze coscienti provate mentre il loro cuore aveva smesso di battere. In cifre, dei 330 scampati alla morte 140 hanno raccontato di essere rimasti parzialmente coscienti durante la rianimazione.

Uscire dal corpo e guardarsi
Singolare il caso di un assistente sociale cinquantasettenne di Southampton che ha raccontato di avere lasciato il proprio corpo e di avere assistito alle procedure di rianimazione dello staff medico da un angolo della stanza nella quale era ricoverato. L’uomo, benché il suo cuore si fosse fermato per tre minuti, ha raccontato nei dettagli le azioni dei medici e degli infermieri e ha ricordato anche i suoni delle apparecchiature mediche. Il particolare che ha attirato l’attenzione dei ricercatori è stato che l’uomo ricordava i beep emessi da un particolare apparecchio, programmato per emettere segnali sonori ogni tre minuti. «Quell’uomo ha descritto tutto quello che è avvenuto in quella stanza - ha dichiarato Sam Parnia, direttore della ricerca -, ma la cosa più importante è che si è ricordato di aver udito due beep. Questo ci permette di comprendere quanto è durata la sua esperienza».

Senso di pace e luce abbagliante
Le altre testimonianze tendono a essere piuttosto uniformi nel loro contenuto. Un paziente su cinque ha sperimentato un inusuale senso di pace e circa un terzo dei 330 sopravvissuti ha assistito a un rallentamento o a una accelerazione del tempo. Alcuni hanno rammentato una forte luce simile a un flash o a un sole splendente, mentre altri hanno raccontato di una sensazione di paura di affogare e venire trascinati in acque profonde. Infine, il 13 per cento di coloro che sono stati rianimati ha ricordato delle esperienze extracorporee e un aumento delle percezioni sensoriali.

Ai confini della morte
Sam Parnia è uno specialista in anestesia e rianimazione, attualmente primario del reparto di Terapia intensiva e direttore del dipartimento di ricerca sulla Rianimazione presso la Scuola di Medicina della Stony Brook University di New York. È considerato uno dei massimi esperti mondiali nel campo della morte, del rapporto mente-cervello e delle esperienze ai confini della morte. Dal 2008 Parnia fa parte del progetto AWARE, uno studio internazionale promosso da Human Consciousness Project al quale hanno aderito venticinque ospedali tra Europa e Nord America. Lo scopo del progetto è quello di verificare se le percezioni riportate da pazienti che hanno superato un arresto cardiaco possono essere provate.
«Corriere della sera» dell'8 ottobre 2014

28 settembre 2014

Némirovsky sulla conoscenza dell'umanità

Un brano tratto da Suite francese (Adelphi, p. 341)
di Irène Némirovsky
Lucile pensò che l'idea di quella nuova guerra li riempiva, visibilmente, di tristezza, ma proibì a se stessa di approfondire troppo i loro sentimenti: non voleva cogliere sull'onda dell'emozione qualche sprazzo di ciò che si sarebbe potuto chiamare «il morale del combattente». Era quasi un lavoro da spia, e lei si sarebbe vergognata di compierlo. Del resto, adesso li conosceva abbastanza per sapere che si sarebbero comunque battuti bene! ... Insomma, disse fra sé, c'è un abisso fra il giovane che vedo qui e il guerriero di domani. E' risaputo che l'essere umano è complesso, molteplice, diviso, misterioso, ma ci vogliono le guerre o i grandi rivolgimenti per constatarlo. E lo spettacolo più appassionante e più terribile, pensò ancora; il più terribile perché è il più vero: non ci si può illudere di conoscere il mare senza averlo visto nella tempesta come nella bonaccia. Solo chi ha osservato gli uomini e le donne in un periodo come questo può dire di conoscerli - e di conoscere se stesso.
Postato il 28 settembre 2014

12 settembre 2014

Scuola: il rischio noia se si perde la meraviglia

di Alessandro D’Avenia
​L’alternativa a una scuola noiosa non è una scuola divertente. Non esiste una scuola spensierata e senza fatica (e il digitale non la renderà tale), ma questo non vuol dire che debba essere noiosa (e il digitale ci darà una mano). La vera alternativa è una scuola interessante. Interesse (essere dentro) vuol dire coinvolgimento con tutto l’essere (corpo, cuore, testa, spirito) da ciò che viene presentato o rappresentato (dal corpo, cuore, testa, spirito dell’insegnante). L’interesse è perfettamente compatibile con l’impegno e la fatica, cosa che la noia non potrà mai ottenere, e neanche il divertimento che si esaurisce nella consumazione dell’esperienza.
Ma che cosa ha il potere di attraversare l’essere da dentro in tutti i suoi strati? Quale presenza riesce a muovere la persona nella sua completezza chiedendole di andare oltre?
Ancora una volta chiedo la soluzione alla lettera ricevuta da una giovane lettrice:
«Ho 15 anni, ho fatto il primo anno al classico e più l’inizio della scuola si avvicina più vado in crisi. Non mi fraintenda: io ho una sete di apprendere smisurata, la mia curiosità più viene alimentata e più cresce. Io ho veramente voglia di studiare. Ma se da una parte i miei occhi ardono di scoperta, dall’altra i miei professori, con occhi di ghiaccio assolutamente inespressivi, parlano con disinteresse alla materia, senza amore verso ciò che fanno. Come facciamo a mantenere vivo l’interesse e a realizzare noi stessi in una scuola che insegna senza amore? In una scuola che pensa solo a classificarci tutti tramite voti, voti e ancora voti? Ho avuto la fortuna di assistere a una lezione di un poeta, mentre parlava di Leopardi e parafrasava alcuni suoi versi, non si poteva che rimanere lì, incantati dal suo sapere, meravigliati da come la faceva diventare parole per noi, stupiti da come "un’altra poesia da studiare" si trasformasse in "questa poesia parla di me, la voglio approfondire!" Questo è ciò che io chiamo imparare».
Occhi ardenti (movimento) contro occhi di ghiaccio (immobilità). Interesse (esserci in pienezza) contro disinteresse (esserci se non in parte). Che cosa ha di diverso quell’uomo che parla di Leopardi: incanta, meraviglia, porge la poesia come un pane buono, spinge l’eros di sapere ad andare oltre, a lanciarsi nell’alto (altum in latino è l’aperto e il profondo al tempo stesso) dell’Ulisse dantesco, per dissetare la sete dei sensi in veglia.
L’alternativa ad una scuola noiosa è una scuola "meravigliosa", cioè capace di destare l’interesse attraverso la meraviglia. Già Aristotele descriveva così questo sentimento capace di unificare sensi, cuore e mente: «Gli uomini hanno cominciato a filosofare a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere». Sorprende la somiglianza tra la descrizione di Aristotele e le parole della quindicenne: questa cosa mi interessa, cioè riguarda tutto il mio essere da dentro, non posso perdermela, devo andare oltre.
Ma dobbiamo capire meglio cosa sia questa meraviglia, per poterla recuperare e suscitare. La definisco un sentimento misto: sorpresa unita a pace. Qualcosa di nuovo si impone alla nostra attenzione e spiazza la nostra intelligenza, ma non basta. Siamo chiamati a fermarci, sostare, osservare, andare alle fonti di quello stupore che ci ha afferrato, per attingerne la causa. Veniamo trasformati da passanti distratti in spettatori curiosi e attenti, per questo prima parlavo di (rap-)presentazione del sapere (il professore agisce il sapere).
La generica sete di sapere che caratterizza ogni essere umano attraverso la meraviglia diventa interesse specifico: dal bambino affascinato dal gioco nuovo che cerca di aprire per capire come faccia a muoversi, al ricercatore che osserva al microscopio un grumo di cellule.
La realtà è una promessa di sapere che aggancia attraverso la meraviglia, capace di generare una ricerca (un girare attorno all’oggetto: ri-circa) di tipo sapienziale o scientifico, come dice Aristotele.
Il compito di ogni insegnante è proprio quello di presentare nelle sue parole, nei suoi gesti, nei suoi occhi, la meraviglia verso l’oggetto in esame. Non esistono aspetti della realtà poco interessanti, esistono casomai persone poco interessate.
Quest’estate ho ascoltato da un amico appassionato di pesca il racconto di una notte passata a prendere i pesci-lama. Alla fine del racconto volevo sapere come erano fatti questi pesci, volevo capire il tipo di esca e di amo che aveva usato, volevo andare a pesca, che non è stata mai al centro dei miei interessi, ma la meraviglia del suo racconto mi aveva cambiato in pochi minuti.
L’insegnante è un narratore-attore della meraviglia verso ciò che insegna, provoca eros manifestando il suo eros. L’attenzione dell’allievo agganciata si porta verso la cosa e non verso l’insegnante, altrimenti non si tratterebbe di meraviglia ma di seduzione. Il sapere somiglierà ad un regalo impacchettato: un pacchetto ben fatto segnala qualcosa che è per me e solo per me, una sorpresa. Nessuno però si accontenta del pacchetto: va oltre, apre, riceve, ringrazia.
Questo non vuol dire che avrò una classe di occhi ardenti e assetati, ma semplicemente che darò a coloro che saranno pronti la possibilità di accendersi. Solo al fuoco della meraviglia cuore e mente vengono unificati e lanciati oltre. Solo chi coltiva questo fuoco in sé riesce a insegnare, altrimenti con il tempo si riduce ad assegnare.
«Avvenire» dell'11 settembre 2014

11 settembre 2014

Giovanni Raboni, l’ultimo dei maestri

Dieci anni fa moriva lo scrittore milanese, che fu anche critico letterario e teatrale del «Corriere della Sera». Impegno, passione civile e senso di appartenenza
di Paolo Di Stefano
Non è nostalgia affermare che Giovanni Raboni rappresenta un mondo letterario definitivamente tramontato: quello di un impegno totale e irrinunciabile, a 360 gradi, nella poesia, nella saggistica, nella critica militante in primis letteraria, ma anche teatrale e cinematografica (per «Avvenire»), nella traduzione di classici pressoché «impossibili» da tradurre (Baudelaire, Proust); senza dimenticare l’instancabile attività editoriale, la redazione, la promozione e la direzione di riviste e collane. La sua è una presenza che sin dagli anni Cinquanta, subito dopo la laurea in Storia del diritto romano (1955) — e ben prima di lasciare definitivamente le consulenze legali che hanno occupato Raboni professionalmente fino al 1964 — copre un arco di interessi pressoché illimitato, tenuto sempre ai massimi livelli di originalità e di rigore, sia pure sempre con quell’understatement che caratterizzava il suo «abito mentale e morale» (Mengaldo).
Nessuno, persino nella sua generazione, è riuscito a fare altrettanto. Basta un semplice elenco, anche parziale, delle date, delle funzioni, degli impegni per rimanere sbalorditi (e lasciando da parte i titoli delle sue opere): le collaborazioni alla «Fiera letteraria», a «Letteratura», ad «aut aut», al «Verri», la fondazione nel ’62 di «Questo e altro», il periodico letterario diretto da Dante Isella, Vittorio Sereni e Niccolò Gallo (ma il factotum era Giovanni), il contributo attivo a «Paragone» e ai «Quaderni piacentini» dei suoi amici Grazia Cherchi, Piergiorgio Bellocchio, Goffredo Fofi. E poi ancora: «Nuovi Argomenti» e la rubrica televisiva Tuttilibri; la consulenza, la redazione e infine la dirigenza nella Garzanti; per oltre un decennio l’attività recensoria per «Tuttolibri», il supplemento della «Stampa», e poi per il «Messaggero» e per il settimanale «L’Europeo» per un altro decennio. E ancora nuove consulenze: Mondadori e Guanda, per cui sarà chiamato a dirigere le collane «Poeti della Fenice» e «Quaderni della Fenice», e l’organizzazione con Antonio Porta del festival Milanopoesia, dall’85 al ’92. E non è tutto, ci vorrebbero due o tre vite ad altri per eguagliare, anche solo numericamente, la bio-bibliografia di Raboni.
Con quell’aria vagamente pigra, di apparente nonchalance, ha abitato il suo tempo con un’energia impressionante, fino alla collaborazione al «Corriere» dal 1988, al Consiglio d’amministrazione del Piccolo dal 1998, dopo un decennio di assidua militanza nella critica teatrale. Energia alimentata da una spinta civile che era il suo solo modo di intendere la letteratura, se si pensa che anche la sua produzione poetica, pur sembrandone a volte lontana, conserva sempre intenzioni «politiche» (non di rado anche senza virgolette). Erano le sue «devozioni perverse» (titolo di un suo libro), che andavano dalla rivendicazione dei valori letterari contro ogni luogo comune ereditato stancamente alle utopie politiche: ostinazioni che sentiva irresistibili e che sollecitavano l’editorialista su tutti i fronti a coniugare l’esperienza di studi tecnici di diritto, di economia politica e di scienze delle finanze con lo sguardo fermo (etico) sulla realtà, tratto saliente del poeta Raboni. Del resto, Raboni sembra aver preso molto sul serio il primo suggerimento rivoltogli, giovanissimo da Ungaretti, in una letterina del 1955: «Lavori», gli scrisse il vecchio poeta dopo aver ricevuto uno dei suoi componimenti d’esordio. Raboni aveva 23 anni e da allora il suo percorso sarebbe stato molto lungo, e pieno di soddisfazioni umane oltre che intellettuali, grazie agli incontri con critici-poeti-maestri diventati nel tempo suoi amici fedelmente ammirati. Tra questi Carlo Betocchi, che già nel 1953, premiandolo come giurato in un concorso poetico, vide molto lontano parlando di «ispirazione, vera e profonda» e consigliandogli di custodire i suoi indubbi «doni» «con la virtù, con lo studio, e con l’amore intenso che Lei ha per la verità». Mettiamo pure nel conto il cattolicesimo pastorale del poeta fiorentino, ma davvero è nostalgia segnalare come allora le relazioni tra giovani e vecchi erano alimentate da un rispetto reciproco, nell’ammirazione da una parte e nella generosità e fiducia dall’altra?
Raboni è stato forse l’esempio più illuminante di una generazione (l’ultima?) di maestri che hanno saputo coltivare i maestri ricevendone in cambio non effimeri attestati di stima, ma riconoscenza vera e insieme nutrimento diretto. Lo dicono molte lettere inedite che segnalano quanto quella rete di scambi, quella conversazione familiare e continua, cui Raboni non è mai venuto meno, fosse «nobilissima ed entusiasmante», come scrive Massimo Onofri chiudendo l’introduzione a una raccolta di recensioni raboniane per il «Corriere». Un’epoca davvero finita, aggiunge Onofri. Si direbbe che è finita la sua «pesantezza» e la sua serietà, lasciando spazio alla leggerezza e alla condivisione istantanea. Se nel ’62 Elio Vittorini si scomoda a scrivere al trentenne Raboni che il suo saggio su Rebora è un «intervento coi fiocchi», «ottimo sia come impostazione, sia come argomenti», si capisce oggi che non si tratta di complimenti rituali, essendo rimasto, quel contributo inizialmente consegnato a «Questo e altro», una pietra miliare per comprendere i versi del poeta-presbitero milanese. Altro che balletti in maschera da Prima Repubblica delle lettere. No, no. È tutta sostanza: materia viva, di confronto umano e intellettuale, da cui si evince la centralità conquistata da Raboni nel dibattito letterario e nella critica. Già nell’ottobre 1968, un tipo difficile come Andrea Zanzotto gli scrive che il saggio di «Paragone» sull’«antimateria» de La beltà traccia «le coordinate più attendibili per un discorso che, qui accennato soltanto, resta tuttavia il più definitivo». E nel ’71 il sessantenne Attilio Bertolucci, in stato di eccitazione dopo la lettura, si esprime così a proposito di un superlativo intervento raboniano in cui spiccavano la straordinaria inventività metaforica del critico e insieme il suo acume analitico: «immaginavo una cosa bella e profonda, ma quanto ha saputo scrivere sul “dissanguamento”, sulla metrica, è arrivato anche più in là di Pasolini, di Lavagetto, pure molto belli. È più in là di tutti».
L’entusiasmo suggerisce inoltre allo stesso Bertolucci una bellissima autocritica esistenziale: «La mia riluttanza a pubblicare (in volume), per anni, adesso, mi pare un po’ stupida. Voglio dire che il mio timore di non venire inteso, pur fondato in un certo senso, non teneva conto della vita, che va avanti, che a un certo momento ti fa trovare vicino, vicinissimo chi ha saputo, potuto, intendere tutto. E con una chiarezza che tu, implicato e inerme, non avevi né hai». E poi: Caproni, Sereni, Penna, Luzi, Giudici, Fortini, scambi che parlano di poesia come fosse vita e viceversa. Lunghe e lunghissime fedeltà radicate nella parola, nel rispetto del lavoro degli altri, nella cura della poesia (propria e altrui) intesa come totalità esistenziale e dunque senza risparmio di energie. Gira la testa a pensare all’abisso che si è aperto tra il tempo di Raboni, pur cronologicamente così vicino, e il nostro. Ha detto Giovanni, in un’intervista radiofonica del 2003: «in una poesia ho scritto che “cerco” a volte “di immaginare la felicità dei morti” e penso che anche per i morti la felicità sia la vita». Glielo auguriamo (a lui, ma anche a noi).
«Corriere della sera» del 9 settembre 2014

10 settembre 2014

Nel vivere e invecchiare abbiamo lo stesso eroismo che ebbe Achille

Soltanto la normalità della vita quotidiana ci rende eroici ed esemplari
di Javier Gomá
L’Antichità ha visto nel sublime una forma del bello e quindi si è potuto parlare propriamente di una «bellezza sublime». Solo più tardi, durante l’Illuminismo (Burke e Kant), è stato istituito un antagonismo radicale tra il bello e il sublime [...] da cui è risultato un concetto di sublime non solo senza forma (informe, deforme, brutto) ma anche senza luce, privo cioè di claritase pertanto tendente all’oscuro, al sinistro, al morboso e persino al demoniaco. L’etimologia latina di «sublime» (sublimis) designa ciò che è molto alto e «sublimare» ha significato dapprima l’atto di sollevare o elevare: sublime, insomma, si riferisce a ciò che è grande per altezza morale ed estetica. La modernità ha ignorato il concetto originario di grandezza come elevatezza e lo ha sostituito con un altro che lo assimila all’intensità del sentimento o al gigantismo dei grandi numeri (spettacolari opere di architettura, impensabile numero di stelle e galassie nell’universo). Questo cambiamento da una grandiosità qualitativa ad un’altra puramente quantitativa ha tralasciato quell’esemplarità che, per il suo carattere straordinario, è soprattutto degna di essere generalizzata socialmente mediante l’imitazione e di permanere nel tempo
Tuttavia, una modernità senza grandezza esemplare è una modernità senza gloria. Possiamo sentire, pensare e rappresentare il sublime nella cultura attuale? Molti direbbero no. La sola menzione del sublime suscita un cenno di scetticismo se non un’espressione di sarcasmo. Il cinismo imperante avrebbe sradicato dal mondo contemporaneo la possibilità stessa del grandioso; l’egualitarismo democratico avrebbe imposto un livellamento generale che lo esclude. [...] È proprio vero? Longino già si chiedeva perché nella sua epoca scarseggiassero i poeti sublimi e trovava due ragioni. La prima: l’assenza di libertà democratiche durante l’Impero romano: «La democrazia è un’eccellente nutrice di geni e solo al suo interno fioriscono i grandi uomini di lettere». La seconda: la brama smodata di ricchezza e di piaceri dei suoi contemporanei, i quali, dominati dall’indifferenza, non guardavano verso l’alto e non intraprendevano mai nulla degno di emulazione e di onore. Cosa dovremmo dire del nostro tempo? In questo inizio di XXI secolo la democrazia si è fermamente stabilizzata in Occidente, ma ovunque regna l’indifferenza verso il sublime. Perché?
Solo per brama di ricchezza e di piaceri? Senza un anelito di elevazione verso l’eccellenza, le culture si impoveriscono irrimediabilmente. Ogni epoca propone un ideale — greco, romano, medievale, rinascimentale, illuministico, romantico — che, come espressione suprema dell’essere umano, attrae per la sua perfezione, illumina l’esperienza individuale e mobilita l’entusiasmo latente facendo avanzare il gruppo verso una meta. Una società senza ideali — e il sublime è una forma di ideale — è condannata fatalmente a non progredire, a ripetersi e infine a decadere. [...] Il mio libro Esemplarità pubblica (del 2009; tradotto in italiano nel 2011 da Armando Editore) propone una teoria dell’esemplarità egualitaria, alternativa all’esemplarità aristocratica che, in modo implicito, è stata egemone per millenni. Di questo libro interessa qui evidenziare solo uno dei suoi corollari antropologici. Nella concezione dell’individuo moderno l’ideale dell’esemplarità è stato sradicato perché la modernità si immagina un io autonomo, libero dall’imitazione e dalla guida di altri. Secondo questa concezione inoltre ciascun io è consapevole della propria irripetibile unicità e manca perciò assolutamente di quegli elementi comuni tra le persone che stanno a fondamento dell’imitazione di un modello esemplare. In effetti, a partire da Herder ci siamo abituati a trovare il carattere dell’individualità umana solo in ciò che è differente, speciale, peculiare di ciascuno di noi: essere un individuo consiste nell’essere distinto, unico nel proprio genere; fare esperienza significa sperimentare la propria irripetibile singolarità. La rappresentazione moderna della soggettività prende in prestito le proprietà che Kant attribuiva esclusivamente al genio artistico: collocarsi al di sopra delle regole comuni, essere creatore e legislatore di se stesso.
La medesima avversione per ciò che è comune si trova anche nel Saggio sulla libertà di Stuart Mill, che presenta l’originalità del singolo come il «sale della terra». Loda la ricchezza, la varietà e pluralità delle forme dell’io e disprezza quanti operano secondo i costumi collettivi, per i quali sarebbe richiesta unicamente «la facoltà di imitazione delle scimmie». Per lui, i costumi — questo elemento imprescindibile di socializzazione e civilizzazione — sono il patrimonio della massa, della «mediocrità collettiva», rispetto alla quale raccomanda all’individuo di praticare l’«eccentricità». L’ideale dell’esemplarità richiede una rappresentazione della soggettività che, anziché mettere l’accento sulla eccentricità che ci distingue, assuma invece positivamente ciò che è comune e che tutti condividiamo in quanto uomini. [...]
Tutti partecipiamo di un’esperienza comune, generale, oggettiva che si riassume nell’universale «vivere e invecchiare» degli uomini; un’esperienza fondamentale che, pur essendo la mia esperienza, è però anche un’esperienza generale. Siamo tutti ugualmente mortali e questo essere mortali ci è essenziale. Tutti noi che sulla terra viviamo e invecchiamo facciamo ugualmente parte dei «comuni mortali» e di fronte a questa esperienza decisiva qualunque differenza si mostra irrilevante o secondaria. La condizione egualitaria e universale di essere dei «comuni mortali» crea i presupposti antropologici dell’esemplarità. Solo se vi è un sostrato comune che lega gli uomini tra loro diventa possibile l’imitazione di un modello, e questo accade perché l’esemplarità contiene per sua natura una chiamata alla ripetizione e può essere ripetuto solo l’esempio di qualcuno con cui si ha o si può avere qualcosa in comune. È quanto accade anche ad Achille, l’eroe del mito [...]. La sua esperienza fondamentale (quella di apprendere ad essere mortale) è anche la nostra. Achille non solo è il protagonista di un bel mito antico, [...] ma racchiude il paradigma permanente dell’umano. La sua gloria è anche la nostra. Tutti noi, uomini e donne, [...] abbandoniamo come Achille il gineceo della nostra adolescenza e ci imbarchiamo sulle navi greche con gli altri eroi in direzione di Troia, dove moriremo nella lotta per guadagnarci un nome, quello della nostra individualità personale plasmata nell’elemento della mortalità condivisa. Questa traversata di mare simboleggia l’impresa, comune a tutti gli uomini in tutti i tempi e luoghi del mondo — impresa permanente e mai del tutto compiuta — di apprendere la nostra condizione mortale.  
La sublime grandezza di Achille si ripete poi in tono più quotidiano ma altrettanto eroico nella vita di ciascuno di noi. Quell’io che avanza nel cammino e passa dal gineceo a Troia è il nuovo Achille, l’attualizzazione contemporanea dell’eroe esemplare, la reiterazione del migliore fra gli uomini. Lo stadio etico oltrepassa l’universo della fase precedente, ma ne conserva un momento estetico che, coniugato con l’eticità, illumina l’individualità umana. Questa, l’individualità, capolavoro dello stadio etico, costituisce l’esperienza comune, generale e normale dell’uomo in quanto uomo. Montaigne replica anticipatamente a Mill e alla sua dottrina dell’io eccentrico quando, nell’ultima pagina dei suoi lunghi Saggi annota una delle sue convinzioni più profonde: «Le vite più belle sono, a mio parere, quelle che si adattano al modello comune e umano con ordine ma senza miracoli, senza stravaganza». In realtà, ogni uomo che nasce, lavora, si fa una casa e muore, partecipa dell’intensità e della drammaticità del dilemma di Achille. Contempliamo questo io quotidiano — capofamiglia responsabile e professionista competente — che invecchia compiendo il suo dovere senza stravaganza e torna a casa ogni giorno dopo una giornata monotona e prevedibile, sì, ma utile per la comunità: in questo io della medietà, di un’esemplarità senza rilievo, risplende la gloria dell’antico eroe. Perché in questo io si deve giustamente ammirare l’atto eroico di assumere la propria mortalità, anche se questo eroismo per lo più è velato dal sereno compimento del proprio dovere e dall’assenza di manierismo propria dello stadio etico. Anche se il romanticismo, facendo del genio artistico il modello dell’individualità moderna, ci ha resi incapaci di cogliere la nobile semplicità e la serena grandezza dell’etica normale, la più alta missione dell’uomo consiste nel meritare questa normalità. Lungi dal non essere all’altezza dell’uomo, non ne esiste al mondo una più grande e degna di lui, e costituisce un compito così vasto da richiedere un’intera vita.

Testo della Lezione magistrale che Javier Gomá terrà a Modena, domenica 14 settembre alle ore 11.30 (traduzione dallo spagnolo a cura di Michelina Borsari)
«Corriere della sera» del 9 settembre 2014

09 settembre 2014

Usa: tramonta la tutela sul web, così la Rete rischia la deriva illiberale

L'allarme
di Massimo Gaggi
Arriva la svolta sui domini internet: più libertà o più potere alle dittature?
Molti pensano che l’evidente ritrosia di Barack Obama a continuare a svolgere, da presidente e comandante militare della maggiore potenza planetaria, il ruolo di gendarme del mondo ha contribuito a farci scivolare tutti in una situazione caotica, con la moltiplicazione di conflitti, violenze, atti barbarici. Ribelli, terroristi e regimi dittatoriali approfittano del vuoto di potere, della assenza di un credibile guardiano dell’ordine internazionale, per cercare di modificare gli equilibri a loro favore.
Analisi solo in parte fondata (Obama è comunque costretto a operare in un contesto molto più complesso di quello che avevano davanti i suoi predecessori «imperiali», da Eisenhower a Reagan, e ha alle spalle un’America economicamente più debole e stanca di guerre), ma di certo il presidente ha peccato per eccesso di prudenza. E adesso molti cominciano a chiedersi se lo stesso errore non lo stia facendo anche nella gestione del sistema di distribuzione dei domini di Internet, la linfa vitale dell’era digitale. L’amministrazione del Web fin qui è stata affidata all’Icann, una società privata non profit di diritto americano basata in California con un «board» di 16 membri scelti tra esperti e le altre associazioni del settore. Un sistema certamente anomalo ma che ha funzionato e ha garantito, fin qui, la libertà della Rete dalle interferenze governative. Salvo quella del governo Usa: Icann opera sulla base di un contratto con il dipartimento del Commercio Usa che però, fin qui, si è limitato a esercitare un discreto ruolo di sorveglianza. Dopo molte pressioni internazionali, anche in sede Onu, nel marzo scorso però Obama ha deciso di rinunciare a questo privilegio: contratto e sorveglianza Usa cesseranno dall’autunno 2015.
L’organismo tecnico dovrebbe difendersi da solo dalle interferenze dei governi espresse da un comitato intergovernativo che ha un ruolo solo propositivo. Ma un mese fa alcune regole sono state silenziosamente cambiate e ora per l’Icann diventa più difficile ignorare le richieste dei vari regimi mentre nel comitato intergovernativo, spesso riunito all’improvviso e con molte assenza, sono già emerse proposte liberticide. Il rischio che Paesi come Cina, Russia e Iran mettano in piedi maggioranze per avallare censure della Rete nei loro Paesi o addirittura per oscurare vicini «scomodi» (Hong Kong o l’Ucraina) sta diventando consistente. Ora sono le stesse imprese del Web, la Internet Commerce Association, a lanciare l’allarme.
«Il corriere della sera» del 9 settembre 2014

02 settembre 2014

Sette europei su 10 vedono film senza pagare

di Alessandro Longo
La pirateria non è un'anomalia di sistema, un cancro da estirpare: è diventata una prassi consolidata, seguita dalla maggior parte degli utenti internet, e rischia di essere persino funzionale allo sviluppo della creatività e dell'industria cinematografica. Emerge questa realtà - che contrasta le tesi dagli alfieri del copyright - se mettiamo assieme una serie di studi fatti negli ultimi anni da diversi istituti di ricerca, università e dalla Commissione europea.
Cominciamo da quest'ultima: un suo studio di quest'anno (http://bookshop. europa. eu/it/a-profile-of-current-and-future-audiovisual-audience-pbNC0414085) rivela che il 68 per cento degli utenti europei vede film gratis su internet (streaming o download). Non solo: il 50 per cento di loro dice di non pagare i film perché non può permetterselo per tutti quelli che intende vedere. Questa affermazione suggerisce che i film visti gratis non sono davvero una perdita di introiti per l'industria, visto che quelle persone non potrebbero mai pagarli (semmai, rinuncerebbero a vederli se non potessero farlo gratis). Ne deriva anche che la disponibilità di film gratis aiuta a diffondere la cultura cinematografica tra i ceti meno abbienti, che non avrebbero alternative alla pirateria. Sempre secondo lo studio europeo, infatti, la maggioranza degli utenti che vede gratis i film ha un reddito inferiore ai mille euro al mese e sono tipicamente giovani e con un alto livello di istruzione. E' l'identikit di una generazione che nonostante la laurea è sotto occupata e può soddisfare i propri interessi culturali anche (o solo) grazie alla pirateria.
Ci sono poi studi secondo cui la pirateria fa da volano alla visione legale dei film (al cinema e in dvd), a mo' di veicolo pubblicitario non convenzionale. Il primo che va in questa direzione è stato di Gfk, commissionato dall'industria cinematografica tedesca per certificare la crescita delle vendite nelle sale dopo la chiusura del portale pirata Kino.to. Studio mai pubblicato ufficialmente perché aveva scoperto una verità opposta; ma è finito comunque su internet per vie traverse e quindi ormai è di dominio pubblico (http://www. repubblica. it/tecnologia/2011/07/29/news/pirateria_cinema-19494246/). In seguito, uno studio dell'università del Minnesota ha aggiunto che non è possibile provare un rapporto causa-effetto tra pirateria e calo degli incassi cinematografici (http://papers. ssrn. com/sol3/papers. cfm?abstract_id=1986299).
Più di recente, una ricerca congiunta tra la ISM (International School of Management Campus München) e l'università di Copenhagen ha analizzato l'effetto della chiusura di Megaupload (celeberrimo sito pirata) e ha trovato evidenze interessanti. Ha rilevato l'aumento del business solo per i maggiori film blockbuster e nessun vantaggio per la maggioranza dei film. Per quelli di nicchia, non commerciali, ha scoperto che anzi l'impatto è stato negativo, perché secondo i ricercatori la pirateria fa in questo caso da cassa di risonanza per le opere di qualità poco pubblicizzate, "diffondendo l'informazione dai consumatori che hanno poco interesse a pagare a quelli che invece ne hanno molto", si legge nella ricerca. Inoltre, sempre nell'ottica del rapporto tra pirateria e diffusione della cultura, uno studio dell'Authority inglese Ofcom (http://stakeholders. ofcom. org. uk/market-data-research/other/research-publications/user-generated-content/) dice che una normativa copyright troppo rigida soffoca le nuove forme di creatività su internet, che spesso usano e reinventano opere protette da diritto d'autore.
Forse anche tra l'industria cinematografica sta cominciando ad attecchire l'idea- fino a ieri eretica- che la pirateria non sia una pratica del tutto avulsa dal normale business: nell'apprendere che il suo Il Trono di Spade è stato la serie tv più piratata dell'anno, il Ceo di Time Warner Jeff Bewkes, gran guru della televisione americana, l'ha definita "un'ottima notizia", "meglio che vincere un Emmy", arrivando ad aggiungere che la pirateria ha fatto da "passa parola"; ha concordato con lui il registra della serie, David Petrarca.
Qualcuno che potrebbe avere buoni motivi per attaccare la pirateria è anche Netflix, la principale piattaforma online di film (legali) al mondo. La pirateria gioca infatti sullo stesso terreno di Netflix (internet), ma è gratis e quindi potrebbe essere il peggiore avversario sleale che si possa immaginare per una piattaforma legale. Ebbene, il chief technology officer di Netflix Jon Nicolini ha detto che la pirateria è la minaccia numero uno per il business; ma invece di invocare leggi draconiane ha suggerito che per combatterla bisogna sforzarsi di migliorare l'offerta legale di film. "Il modo migliore di combattere la pirateria non è sul piano legale o giudiziario, ma dando buone opzioni legali, ai consumatori". Ragguardevole posizione da parte di una piattaforma che è nota per la sua ampia offerta di film e serie tv, ben più generosa di quella disponibile su analoghi servizi in Italia. Dove, per altro, Netflix ha appena dichiarato che arriverà solo nel prossimo anno, più tardi rispetto ad altri Paesi europei, in primo luogo perché da noi sono poco diffuse le connessioni internet veloci. Siamo il Paese con la peggiore copertura in fibra ottica e le connessioni più lente (in media, tra gli utenti), secondo la Commissione europea.
Insomma, tutti questi elementi suggeriscono un rapporto complesso e non scontato tra il cinema e la pirateria. E che le soluzioni possono essere trovate in azioni diverse dalla guerra ai pirati. "Fa fede l'esempio del mercato musicale, dove grazie alla maturità dell'offerta legale e dello streaming, la pirateria si è ridotta a una nicchia. E dove il mercato è tornato a crescere, dopo dieci anni di crisi, anche in Italia, come riportano i dati di Fimi", dice Fulvio Sarzana, avvocato esperto di diritto d'autore e storico promotore di campagne contro la normativa copyright dell'Agcom (Autorità garante delle comunicazioni), poi in effetti approvata e in vigore dal 31 marzo (http://www. repubblica. it/tecnologia/2013/12/12/news/regolamento_copyright_scheda-73437061/). "Di conseguenza si può prevedere che anche per il cinema la pirateria diverrà sempre più un fenomeno di nicchia. E questo, senza adottare sistemi maldestri e invasivi come quelli della delibera Agcom", conclude Sarzana.
«la Repubblica» del 18 agosto 2014

Ma scaricare gratis resta illegale

di Marco Fagnocchi
La pirateria digitale, i film e scaricati o guardati in streaming gratis da piattaforme che appaiono e scompaiono su internet, non solo non stanno danneggiando le grandi case di produzione cinematografiche, ma, anzi, secondo alcuni studi, starebbero facendo lievitare la presenza di spettatori nelle sale e aumentare gli introiti delle majors. Così le leggi repressive, le minacce di multe, arresti, blocchi di internet, oltre che inapplicate, si stanno dimostrando obsolete se non, addirittura, dannose. I pirati del web, insomma, stanno salvando Hollywood. Un paradosso. Perché la pirateria resta illegale. Chi scarica abusivamente film e brani musicali rischia ammende, così come chi li mette a disposizione sulla rete.
I nuovi mezzi di distribuzione hanno sempre creato allarme, in campo audiovisivo anche di più. In principio ci fu il "Betamax case". Universal e Disney denunciarono la Sony perché, siamo agli inizi del 1970, la compagnia giapponese mise sul mercato uno strano marchingegno che insieme al televisore avrebbe rivoluzionato la vita dello spettatore americano: il videoregistratore. Gli Studios, spaventati dalla possibile diaspora dalle sale, corsero ai ripari. Dopo diversi anni (1984) si arrivò alla storica sentenza: il videoregistratore non violava il diritto d'autore. Anzi, in quel periodo non solo le sale cinematografiche non avevano risentito di questa nuova apparecchiatura, ma il mercato dell'home video aveva portato nelle tasche degli Studios la metà degli introiti di tutta l'industria cinematografica. Passati ormai più di 30 anni lo schema sembra ripetersi nuovamente.
Internet sul finire degli anni '90 comincia ad affermarsi come nuovo strumento tecnologico, apolide, e, per gli Studios, apocalittico. Nascono siti di sharing, streaming, download. Basta andare su piattaforme peer to peer quali Emule, o affidarsi ai torrent sparsi nella rete e il gioco è fatto. Tutto è catalogato, schematizzato, fornito comodamente a casa, velocemente e soprattutto gratuitamente. Due i siti più famosi: The Pirate Bay e Megaupload.
È tra le pieghe di questi due siti che si combatte una battaglia non solo economica e giuridica, ma anche morale e culturale. Da una parte il sito svedese fondato da tre giovani hacker scandinavi si ispira alla nobile filosofia della free culture: la cultura è un bene di tutti e chiunque deve accedervi in maniera libera e gratuita. Dall'altra, non si può fare a meno di notare come il sito del tedesco Kim Donton presenti dei numeri da capogiro. 150 milioni di utenti registrati, 50 milioni di utenti unici al giorno, un introito che si aggira sui 200 milioni di dollari annui. Nel 2012 il Dipartimento di giustizia americano sequestra il sito e il povero Kim viene arrestato. L'accusa è violazione del copyright e pirateria. Si parla di perdite per l'industria cinematografica americana intorno ai 500 milioni di dollari.
Ma come si può calcolare scientificamente l'impatto della pirateria sull'industria cinematografica? Chi può assicurare che il ragazzo che ha visto uno dei tanti film a disposizione gratuitamente in rete, sarebbe andato in sala, o avrebbe comprato il dvd? E' questo uno dei punti più delicati dell'intera vicenda.
Come sostiene Marco Scialdone, avvocato in Diritto dell'Informatica e di internet, non esiste e non può esistere una diretta relazione tra pirateria senza scopo di lucro e mancato guadagno perché le ricerche commissionate dalle majors non sono scientificamente attendibili. Se si analizzano i dati infatti si può notare che, negli ultimi anni, gli incassi al botteghino non sono diminuiti, arrivando nel 2014 a segnare uno dei record storici dell'industria cinematografica. A dirlo è la Mpaa, l'ente americano formato dalle stesse compagnie cinematografiche che più di tutti in questi anni hanno combattuto la guerra alla pirateria. Dal 2009 al 2014 su scala internazionale si è registrato un incremento del 33% degli incassi per le sale. Un dato che si spiega anche con la ascesa di paesi quali il Brasile, la Russia e la Cina che sono, paradossalmente, sempre secondo la Mpaa, alcuni degli stati in cui la pirateria digitale è più forte.
Insomma le sale cinematografiche non sono mai state così in salute. E la fascia che va di più al cinema è proprio quella compresa tra i 12 e i 39 anni, quelli che teoricamente sanno meglio di chiunque altro come scaricare un film e hanno ogni tipo di supporto (smartphone, tablet, computer, smart tv) a portata di mano. Anche in Italia la situazione, almeno per quanto riguarda il botteghino e l'affluenza del pubblico, smentisce le cassandre. Si passa da un numero di spettatori che si aggira intorno ai 14 milioni nel 2005, quando la pirateria su internet era ancora contenuta, ai circa 22 milioni di spettatori del 2012 (fonte Cinetel).
L'aspetto più eclatante è che leggendo i dati riportati da alcuni studi indipendenti (quindi non commissionati dalle major) come quello realizzato dallo stato olandese, si scopre che chi scarica illegalmente è un cliente più attivo. Va di più al cinema, compra più dvd o film on demand di chi invece non scarica. Ad analoghe conclusioni arriva la ricerca di Ipsos Allemagne e lo studio fatto dalla Fondazione Luigi Einaudi. Anche Riccardo Tozzi, presidente dell'Anica, l'associazione nazionale industrie cinematografiche audiovisive, analizza molto lucidamente questi dati confermando che il problema non è tanto nelle sale cinematografiche, ma nel home video: la fetta della grande torta che ha subito maggiormente l'avvento di internet.
Effetti paradossali del mercato: la tecnologia che una volta veniva attaccata e portata in tribunale, viene oggi difesa dalla stessa industria. A risentirne, dopo la chiusura del colosso Blockbuster, sono sicuramente le piccole realtà locali, le videoteche. Se le vendite di dvd nel 2012 registravano un calo del 12% a fronte di un fatturato di 420 milioni di euro, il noleggio arrivava a perdere circa il 30%. Resistono in pochi, pochissimi, come Videobuco, nel quartiere San Lorenzo di Roma. Aperto ormai da circa trent'anni, punto di riferimento per universitari e appassionati di cinema, sembra un piccolo atollo nel mare digitale. Ma il mercato audiovisivo è in continuo fermento e le majors stanno finalmente accorgendosi di come anche questa nuova tecnologia possa essere sfruttata.
È ormai dal 2007 che nascono e si affermano realtà quali Hulu, iTunes/Apple tv, Google Play e realtà nostrane come Chili Tv, Cubovision (oggi diventata Timvision). Sono piattaforme che permettono di vedere in streaming, sul proprio smart tv, un catalogo sempre più aggiornato e facilmente consultabile di film di ogni provenienza, tutto in maniera legale. Basta abbonarsi o pagare il singolo film di volta in volta. I prezzi contenuti hanno lasciato, inizialmente, intimoriti le major che a fronte del calo dell'home video non vedevano nel così detto electronic home video, una valida alternativa. Ma i dati in continua crescita (solo rispetto al 2011 si segnala un incremento del 47% del fatturato proveniente da questa fascia di mercato) hanno portato molte case di produzione a ripensare le proprie strategie. Non ultima l'Anica, che ha siglato un accordo con My Movies creando un canale streaming a pagamento (Anicaondemand).
Su tutti svetta il colosso di Netflix (non ancora disponibile in Italia), una streaming tv americana presente anche in diversi paesi europei che ha registrato nel mese di luglio i 50 milioni di abbonati con un fatturato che si aggira intorno ai 3,5 miliardi di dollari. Insomma ancora una volta la tecnologia inizialmente osteggiata sta offrendo all'industria la possibilità di nuovi e facoltosi incassi. Assumono così dei contorni leggermente sfuocati le leggi che via via negli anni si sono susseguite per contrastare il fenomeno della pirateria.
Clamoroso è stato il caso della cosiddetta "legge dei tre colpi" francese che prevedeva il blocco a tempo indeterminato dell'accesso ad internet a chiunque fosse stato trovato per ben più di tre volte a scaricare o guardare un qualsiasi file coperto dal diritto d'autore. La norma è stata ritenuta incostituzionale e trasformata in una multa tra i 60 e i 150 euro. Dopo 4 anni, milioni di euro spesi per tenere in vita l'Hadopi (l'ente francese che deve individuare i casi di pirateria e far rispettare la legge), i casi sanzionati sono stati tre. Non meglio è andata alla Russia di Putin, presente nella così detta black list della Mpaa dei paesi con il più alto tasso di pirateria mondiale. Il capo del Cremlino a marzo 2014 si era abbandonato all'amara constatazione che le misure anti download erano state un totale fallimento e che il sistema di controllo doveva essere profondamente ripensato.
L'Italia da parte sua rincorre decreti e normative da anni, sfociate nel maggio del 2014 nel tanto agognato decreto Agcom che ha portato l'industria e la stessa Fapav a gridare alla fine dell'illegalità. Come potrà controllare chiunque abbia una connessione, i siti di streaming e di sharing "pirati" sono ancora lì. Cineblog cambia dominio di continuo non appena uno dei suoi tanti siti viene oscurato. Realtà come TnT Village continuano a fornire gratuitamente migliaia di film, spesso anche introvabili, a chiunque si colleghi al sito, combattendo quella che viene definita "una battaglia etica" che si rifà né più né meno ai principi della free culture. Il decreto Agcom si segnala, appena entrato in vigore, per aver fatto rimuovere dal sito ufficiale della Regione Marche un video che mostrava le bellezze architettoniche della regione.
In America intanto vengono sviluppate due realtà che imprimono un'accelerazione inarrestabile alla condivisione di qualsiasi tipo di file. Popcorn Time che viene ribattezzato il Netflix pirata, subito chiuso e poi riaperto e che dà la possibilità di vedere in streaming migliaia di film utilizzando i file torrent, e il sito TvStreamcms che opera probabilmente il passo definitivo in questa strenua battaglia tra il diritto alla condivisione e la necessità che venga riconosciuto a chi produce un ritorno economico. TvStreamcms permette a chiunque ne abbia voglia di aprire il proprio sito di file sharing. Come sostiene il ceo di Dreamworks, allora, la partita è ancora lontana dall'essere conclusa. Le case di produzione dovranno sicuramente ripensare i propri modelli distributivi, dare la possibilità di fruire un film sul dispositivo che si preferisce (lo schermo della sala, il televisore o il proprio smartphone) e adeguare i prezzi alle differenti piattaforme. Internet più che uno spazio da combattere si prospetta, così, come l'ennesima frontiera da dover definitivamente conquistare: l'ennesima corsa all'oro su cui piantare la propria bandiera.
«la Repubblica» del 18 agosto 2014

23 agosto 2014

I diritti umani sono figli del sacro, non dei Lumi

di Hans Joas
Uno dei dibattiti più frequenti, ma anche più sterili, verte sulla domanda se i diritti umani siano da ricondurre a origini religiose oppure umanistico-secolari. Un’opinione convenzionale, non tanto nella letteratura scientifica, quanto nel vasto pubblico sostiene che i diritti umani siano emersi dallo spirito della Rivoluzione francese, e che questa a sua volta sia l’espressione politica dell’Illuminismo francese, il quale era per lo meno anticlericale, se non apertamente anticristiano o nemico della religione. Secondo questo modo di vedere, i diritti umani evidentemente non sono il frutto di una qualche tradizione religiosa, ma assai più la manifestazione di un’opposizione contro l’alleanza di potere tra Stato e Chiesa (cattolica) o contro il cristianesimo nel suo complesso.
Tra questa visione convenzionale e un umanesimo secolare c’è una sorta di affinità elettiva, come tra le convinzioni dei pensatori cristiani, principalmente cattolici, del XX secolo e una grande narrazione alternativa. I sostenitori di questa visione si concentrano su tradizioni intellettuali e religiose che risalgono molto indietro nel tempo. Essi affermano che la strada per i diritti umani è stata aperta dall’idea della persona umana come ci viene presentata dai Vangeli, e dall’elaborazione filosofica di questa ispirazione religiosa in connessione con un concetto personalistico di Dio avvenuta fin dai tempi della filosofia medioevale [...].
Va da sé che le due rappresentazioni della storia ora menzionate non sono le uniche possibili, come anche non esistono soltanto l’umanesimo secolare e un’interpretazione auto-incensatoria e trionfalistica del cattolicesimo, l’uno di fronte all’altra. Esiste anche una sorta di posizione di compromesso, laddove si afferma che certamente nell’Illuminismo può avere prevalso un’auto-comprensione anticristiana, ma i suoi motivi più profondi non sono altro che una conseguenza dell’enfasi cristiana sull’individualità, la sincerità e l’amore del prossimo (o la compassione). Ma da questa prospettiva non si arriva a tenere conto delle ulteriori varianti che assumono maggiore rilevanza in certi ambiti nazionali o confessionali. È molto più fecondo aprire una nuova via, che si allontana da questa situazione del dibattito, da definirsi infruttuosa [...]. Tuttavia, benché distorca la realtà storica, soprattutto quella del XVIII secolo, essa ha almeno il vantaggio di voler spiegare un’innovazione culturale a partire dalle condizioni dello stesso periodo storico in cui tale innovazione ha concretamente avuto luogo. Al contrario, il resoconto alternativo non riesce a spiegare in modo convincente perché un determinato elemento della dottrina cristiana, che nel corso dei secoli si è accordato con i più diversi regimi politici – i quali non erano basati sull’idea dei diritti umani – improvvisamente avrebbe dovuto diventare la forza dinamica dell’istituzionalizzazione di tali diritti. La maturazione nel corso dei secoli non è una categoria sociologica. E anche se passiamo dalla considerazione dei precursori nell’ambito della storia dello spirito al piano delle tradizioni istituzionali – campo in cui la tesi suona piuttosto plausibile – non possiamo dimenticare che le tradizioni non si perpetuano da sole, bensì soltanto attraverso le azioni degli uomini.
Anche volendo ammettere, almeno retrospettivamente, che l’idea dei diritti umani può essere intesa in una certa misura come ri-articolazione moderna dell’ethos cristiano, dobbiamo essere in grado di rispondere a una domanda: perché ci sono voluti 1700 anni affinché il Vangelo, sotto questo aspetto, fosse tradotto in forma giuridicamente codificata? Inoltre, io sono molto diffidente nei confronti della suddetta posizione di compromesso. Appare un po’ come un gioco di prestigio il rivendicare una certa cosa come una conquista della propria tradizione, quando al momento del suo sorgere i rappresentanti della stessa tradizione l’avevano invece condannata.
siste un’alternativa a tutto questo confuso intreccio. Propongo d’interpretare la fede nei diritti umani e nell’universale dignità umana come il risultato di uno specifico processo di sacralizzazione. Si tratta di un processo in cui ogni singolo essere umano viene sempre più, e in modo sempre più fortemente motivante e sensibilizzante, considerato sacro. E questa comprensione viene istituzionalizzata nel diritto. Il termine “sacralizzazione” non può essere inteso come se avesse esclusivamente un significato religioso. Anche contenuti secolari possono assumere le qualità caratteristiche della sacralità: evidenza soggettiva e intensità affettiva. La sacralità può essere attribuita a contenuti nuovi; può migrare o essere trasferita, anzi l’intero sistema della sacralizzazione valido in una cultura può essere sovvertito. La tesi chiave è che la storia dei diritti umani sia appunto la storia di un processo di sacralizzazione, e precisamente una storia della sacralizzazione della persona [...].
Se i diritti umani si rifanno certo a tradizioni culturali come quella cristiana, ma pongono tali tradizioni entro un nuovo quadro di riferimento, allora valori come quello dell’universale dignità umana e diritti come i diritti umani non sono “rinchiusi” in una tradizione determinata. Sono accessibili anche a partire da altre tradizioni ed entro nuove condizioni, nella misura in cui a tali tradizioni riesca un’analoga reinterpretazione creativa di sé stesse, come indubbiamente è riuscita a quella cristiana. Perciò queste tradizioni religiose o culturali possono anche trovare nuovi elementi in comune tra loro, senza lacerarsi al loro interno.
«Avvenire» del 14 agosto 2014

22 agosto 2014

Scienza e teologia, punti fermi del dialogo

La discussione
di Andrea Galli
Il dialogo tra scienza e fede? Possibilissimo come dimostra la storia, necessario come richiede ancor di più l’attuale momento culturale. Ma a due condizioni: un certo "scientismo" deve lasciar cadere la tesi secondo cui soltanto quella scientifica, fondata su fatti sperimentalmente accertati, è conoscenza certa. Così come «il teologo deve rinunciare alla pretesa di piegare in senso apologetico i risultati della ricerca sperimentale». Lo ribadisce il gesuita Giandomenico Mucci sull’ultimo numero della Civiltà Cattolica, in un lungo intervento che ha comunque di mira la prima delle due condizioni e difatti si intitola “Le critiche degli scienziati alla teologia”. Padre Mucci passa in rassegna alcune delle voci che si occupano di scienza sui media italiani e ne stigmatizza l’approccio segnato da un «fastidioso atteggiamento di supponenza e di superiore saggezza» rispetto al mondo credente. Quell’atteggiamento che liquida l’esperienza religiosa come un insieme di «suggestioni evocative e autoconsolatorie» che frenano «le migliori predisposizioni morali dell’uomo» (Gilberto Corbellini), o che arriva a vedere nel magistero papale l’idea «che è la scienza in sé a essere pericolosa» (Armando Massarenti).
Una mentalità «provinciale», pungola Mucci, se si guarda per esempio al contesto angloamericano. E qui il riferimento va in primis a quanto formulato da uno dei massimi biologi evoluzionisti degli ultimi decenni, Stephen J. Gould (1941-2002), con la sua proposta di considerare due «insegnamenti non sovrapponibili», quello della scienza che si interessa della «scena dell’essere e dell’esistere», e quello della teologia che si occupa del «fondamento».
A questa disamina un filosofo della scienza come Giulio Giorello ribatte che «si fa sempre bene a richiamare un nucleo di idee come quelle di Gould, anche per sgomberare il campo da argomenti di tipo sociologico che io trovo molto deboli. Come quando si prova a impostare il dialogo tra scienza e fede sul numero di scienziati credenti o non credenti censiti in un determinato Paese». E se Mucci richiama il fatto che la scienza dovrebbe essere «un’attività antidogmatica», anche qui Giorello conviene, «anche se preferirei chiamarla atteggiamento critico, che è il modo in cui funziona l’impresa scientifica. Certo, alcuni scienziati possono essere condizionati dalle passioni più diverse, ma sono d’accordo con quanto ha scritto il primatologo Frans De Waal ne Il Bonobo e l’Ateo, rispondendo a chi sostiene cheanche la scienza ha i suoi "dogmi". De Waal dice che comunque, su lungo periodo, le obiezioni e l’anticonformismo in ambito scientifico vengono premiati. Anche se talvolta con fatica. Basti pensare alle puntigliose obiezioni mosse da Einstein alla meccanica quantistica e a Niels Bohr in particolare, che alla lunga hanno migliorato il livello di ricerca della stessa fisica quantistica. Io ho la sensazione che se c’è un contrasto tra scienza e fede non è perché parlano di due mondi diversi o dello stesso mondo cercando cose diverse. Ma nasce dal tipo di argomentazione che viene adottato. Nella scienza non c’è spazio per alcun principio di autorità, nessuna forma di sapere infallibile. Mentre la questione dell’infallibilità caratterizza, a partire dalle Sacre Scritture, diverse religioni».
Padre Mucci cita i «dolci lumi» evocati dalla filosofa Roberta De Monticelli e alla luce dei quali sarebbe possibile la soluzione delle conflitti tra scienza e fede. Ancora Giorello: «Concordo con De Monticelli sull’importanza dell’Illuminismo, ma è sul "dolci" che non sono d’accordo. Sono per valorizzare, come il grande studioso Jonathan Israel, quello che è chiamato "illuminismo radicale", che ha la sua radice in Spinoza e Hume, che è stato un illuminismo rigoroso e soprattutto che non ha avuto paura delle forti polemiche. Il non aver paura delle polemiche è il nerbo della libertà filosofica. Se la religione è capace di essere coraggiosa nel difendere le proprie posizioni e nel rendere il valore cristallino della fede, ben venga. La considero un arricchimento».
Detto questo, Giorello non concorda comunque con la tesi di fondo del gesuita: «Non trovo che in Italia ci sia un rischio di "scientismo", trovo invece che ci siano stati diversi movimenti antiscientifici. Non c’è bisogno di tornare al caso Galileo: pensiamo ai danni fatti dalla vulgata dell’idealismo italiano, con le teorie scientifiche viste come un insieme di pseudoconcetti, o a esponenti del marxismo che sono arrivati ad applicare il materialismo storico financo alla teoria della relatività».
Da parte di un epistemologo e storico della scienza come Giorgio Israel c’è invece ab initio una presa di distanza dalla proposta di Gould, vista con simpatia da Mucci: «Non la condivido, perché il pensiero non può essere diviso in zone d’influenza come un territorio mediante una transazione politico-diplomatica. Non può che finir male. Nel passato, l’intolleranza religiosa ha perseguitato un libero pensiero che di per sé non aveva alcun elemento strutturale di ateismo o di riduzione del ruolo della ragione ai "meri fatti". Oggi, si rischia la prepotenza di un pensiero ateistico-positivistico che, spacciandosi come portavoce della scienza, mira a dichiarare come irrazionale e illegittimo il pensiero religioso. Occorre ridare spazio a forme di pensiero che non s’identificano con il razionalismo "ridotto" e che non sono rappresentate dalla sola teologia».
E sul pregiudizio anti-religioso di non poca pubblicistica scientifica italiana, così commenta lo studioso: «Penso che andrebbe introdotta nelle scuole la lettura commentata dei brani in cui Edmund Husserl – che di scienza ne capiva più di molti "scienziati" di oggi – spiegava come la scienza moderna faccia parte di un progetto complessivo di comprensione razionale, una scienza onnicomprensiva della totalità dell’essere che riguarda tutti i problemi della ragione, e quindi non solo anche quelli metafisici, ma anche il "problema di Dio come fonte teleologica di qualsiasi ragione nel mondo, del senso del mondo". Husserl ha spiegato come alcuni fraintendimenti e oscurità irrisolti in questo progetto siano all’origine di un concetto positivistico della scienza come "concetto residuo" che ha accantonato tutto ciò che non appare come "mero fatto". Il caso più evidente è dato dalla trasformazione del dualismo cartesiano in una forma di monismo materialistico. Ed è ironico costatare che, tanto è forte il legame della scienza con la metafisica – che il positivismo fa credere di poter escludere – da riemergere nel tentativo di difendere una metafisica materialistica. Altro che mera aderenza positivistica ai fatti!».
«Ne è testimonianza – prosegue ancora Israel – l’interesse spasmodico che molti scienziati hanno più che nei temi specifici delle loro ricerche, nel dimostrare che il libero arbitrio non esiste, che tutto si riduce a Dna e neuroni. Beninteso, è legittimo coltivare una metafisica ateistica: a condizione di non spacciarlo come risultato della scienza. È un grave errore accettare una simile contraffazione e pensare di trovare terreni di transazione teorica entro discipline come la "neuroteologia", che oltre a essere inconsistenti sono strutturalmente atee. Ed è un grave errore accettare l’idea che scienziato sia, per definizione, chi propugna quelle visioni. Se si ripartisce il terreno in questo modo – da un lato i teologi, dall’altro la scienza e gli scienziati, tutti positivisti e atei – non c’è da stupirsi che i media selezionino in un certo modo commentatori e divulgatori e gli altri non esistano. E allora di che stupirsi se questo alimenta toni sprezzanti da parte di chi si sente legittimato come unico rappresentante della "scienza"?».
«Avvenire» del 13 agosto 2014

Richard Dawkins: "Partorire un bimbo down è immorale". Ed esplode la polemica

"Abortisci e ritenta": è scandalo in Inghilterra per alcuni controversi tweet del celebre studioso britannico, autore di "L'illusione di Dio". Le associazioni: "Anche i bambini affetti dalla Sindrome hanno diritto di vivere"
di Antonello Guerrera
Bufera su Richard Dawkins. Il celebre studioso e biologo britannico, già coinvolto in passato in varie polemiche e controversie, ha scandalizzato molti suoi connazionali ieri su Twitter. Dawkins, "orgogliosamente ateo" e autore di libri che hanno venduto milioni di copie in tutto il mondo, come il famoso L'illusione di Dio. Le ragioni per non credere o l'ultimo Il gene egoista, ha scritto sul celebre social network che i nascituri cui è stata diagnosticata la sindrome di Down dovrebbero essere tutti abortiti perché sarebbe "immorale" partorirli. A una donna che definiva "un dilemma" il fatto di portare in grembo un bambino affetto dalla sindrome, Dawkins ha risposto: "Abortisci e ritenta. Sarebbe immorale metterlo al mondo, visto che hai la possibilità di evitarlo".
"Ma gli autistici no". Frasi di agghiacciante stampo eugenetico che ovviamente hanno generato un putiferio oltremanica. L'account Twitter di Dawkins, che ha oltre un milione di follower, è stato travolto da proteste e critiche. Ma questo non ha spaventato affatto lo scienziato britannico. Che ha continuato nei suoi messaggi per molti utenti deliranti. A un'altra domanda della stessa donna sull'opportunità di partorire bambini cui durante la gravidanza vengono diagnosticati problemi legati all'autismo, Dawkins ha risposto di sì, perché gli autistici possono offrire "un grande contributo al mondo, in quanto alcune loro facoltà sono superiori alla norma. Non così per coloro affetti dalla Sindrome di Down", ha aggiunto spietato Dawkins.
Senza freni. Su Twitter, le proteste contro Dawkins sono ovviamente continuate, sempre più veementi. Tanto che, poco dopo, lo studioso si è reso protagonista di un altro tweet, in cui ha rivendicato tutto ciò scritto fino a pochi minuti prima, rincarando anzi la dose: "Quindi io sarei un orrido mostro solo per aver consigliato di fare ciò che accade realmente alla maggior parte dei feti affetti dalla Sindrome di Down. E cioè: vengono abortiti". L'Associazione Sindrome di Down britannica (Dsa) ha subito risposto a Dawkins, dicendo che anche i bambini affetti dalla malattia "hanno il diritto di vivere".
Il caso Gammy. Non è la prima volta che Dawkins finisce sotto il fuoco delle polemiche per le sue frasi al vetrolio. In passato aveva detto che "tutti i musulmani del mondo hanno vinto meno premi Nobel degli studenti del Trinity College di Cambridge", infiammando la comunità islamica. Ma anche che "alcuni tipi di stupro o pedofilia sono peggio di altri". Questa volta, invece, le sue frasi molto controverse hanno fatto venire alla mente un caso molto recente, e cioè quello di Gammy: il bambino scartato da una coppia australiana, a differenza del gemellino sano, proprio perché affetto da Sindrome di Down.
«la Repubblica» del 21 agosto 2014

21 agosto 2014

La decapitazione: i mostri dell’orrore e la scelta di non essere complici

Il video e la Rete
di Beppe Severgnini
Mostrare o non mostrare il filmato dell’esecuzione di James Foley? I limiti della condivisione, il diritto alla libertà e il gioco dei terroristi
La decapitazione di James Foley, recitata come la scena di un film, è sconvolgente: attori goffi, orrore vero. Un giornalista quarantenne, insaccato in una veste arancione, scannato nel deserto da un uomo - definizione che non merita - bardato di nero. Gesto mostruoso e preistorico; strumenti sofisticati e nuovi. Colori, luce, inquadratura, movimenti, tempi: tutto appare studiato per essere visto e diffuso. Se così fosse - e così è, quasi certamente - perché aiutare i carnefici? Gli abbiamo già fornito la tecnologia. Vogliamo diventare i loro portavoce? Questa è la domanda che si pongono molti in queste ore: i governi occidentali, i macchinisti della rete (Google per YouTube, Twitter), le grandi testate, le televisioni, chiunque abbia un collegamento internet veloce. #ISISMediaBlackout è diventato virale.
La dichiarazione recita così: «Quando terroristi o criminali di guerra disperatamente pubblicizzano i loro crimini, non aiutateli. Quando i social media, giornalisti e osservatori condividono immagini macabre per riportare i fatti, svolgono lavoro di PR per costoro. Descrivete i loro crimini, non pubblicate la loro propaganda».
Molti hanno aderito, altri hanno protestato: in nome della libertà. Libertà assoluta di sapere, di vedere, di esprimersi, di decidere. Chi ha ragione?
«Che i terroristi di Isis, da tempo abili nell’uso dei social network, possano contare su piattaforme gratuite per rilanciare i loro tremendi messaggi, e lo facciano sfruttando il passaparola degli utenti, è una distorsione terribile», scrive Marta Serafini sul blog «6 Gradi» di Corriere.it . E aggiunge: «Certo si lascia ad aziende e società commerciali una responsabilità enorme». E’ così, ma è inevitabile: strumenti nuovi, fenomeni nuovi, decisioni nuove. Scappare non serve: la realtà è più veloce di noi, e ci costringe ogni volta a scegliere.
Alcune testate di lingua inglese (New York Times, Wall Street Journal, Financial Times) hanno messo la notizia della decapitazione in basso, carattere piccolo, con foto d’archivio? Sembra un eccesso di zelo, e una curiosa scelta giornalistica. YouTube e Twitter hanno rimosso il filmato dell’esecuzione? E prima che ciò accadesse diversi media - tra cui il Corriere della Sera - hanno evitato di pubblicarlo? E’ giusto. Non perché lo ha chiesto la Casa Bianca. E’ giusto perché diffondere quel video è l’obiettivo dei carnefici: ostacolarli è un dovere. Le foto del massacro nella scuola di Beslan (2004)? Le immagini dei resti delle vittime dell’aereo abbattuto sull’Ucraina il 18 luglio? Sconvolgenti: ma servivano a raccontare due follie, e a evitarne altre.
I libertari assoluti non ci stanno: bisogna guardare/ascoltare/leggere tutto per poter decidere! Rimuovere quel video? Una censura. Domanda: condividiamo forse filmati pedopornografici prima di condannare la violenza sessuale sui bambini? Saremmo contenti se le immagini strazianti di un nostro familiare venissero date in pasto alla morbosità del mondo? Perché di questo si tratta, parliamoci chiaro. Assuefatti al sangue e alla violenza cinematografica - che l’America vezzeggia e vende senza scrupoli, non dimentichiamolo - vogliamo di più: sangue e coltello veri, non succo di pomodoro e lame di gomma. Anni fa a Los Angeles ho conosciuto Judeah Pearl, uomo dolce e mente finissima (studioso della causalità, ha vinto nel 2012 il Turing Prize, il Nobel dell’informatica). E’ il padre di Daniel, il giornalista americano decapitato in Pakistan nel 2002 da al-Qaeda. Chiediamo a lui se è nobile e utile, in nome della libertà d’espressione, scambiarsi il filmato dell’esecuzione di James Foley.
Leggo tra i commenti su Corriere.it : «Mostrare, assolutamente mostrare anzi da far vedere in TV in fascia protetta, che tutti vedano cosa vuol dire decapitare un uomo usando un coltello, che sentano le urla, il rumore gorgogliante dei fiotti di sangue che zampillano, e lo sguardo lucido e soddisfatto del carnefice che tiene per le mani la testa sgocciolante e che soprattutto si rendano conto di quanto tempo ci vuole e di quanto sia lungo l’orrore, e poi vediamo quanti simpatizzanti restano».
Resterebbero e aumenterebbero, vorrei dire al lettore. Tra di noi, infatti, non ci sono solo Di Battista inadeguati e presuntuosi («Quando non hai mezzi per combattere una guerra regolare, resta solo il terrorismo»). Ci sono persone che, davanti a problemi complessi, s’accontentano di risposte semplici e orrende (il mondo è ingiusto? Un genocidio lo purificherà!). Perché, noi che impediamo la propaganda nazista, dovremmo tollerare - anzi, sostenere - quella dell’estremismo islamico?
«L’orrore, l’orrore!», evocato dal protagonista di «Cuore di tenebra», aleggia sempre sul mondo: sta agli uomini liberi portare, faticosamente, la luce. Decidendo cosa fare e cosa non fare; cosa dire e cosa non dire; cosa ascoltare e cosa non ascoltare; anche cosa guardare e cosa non guardare. Papa Francesco ha ragione. E’ in corso «una terza guerra mondiale a puntate», e non è finita. Ma la vinceremo, anche questa volta.
«Corriere della Sera» del 21 agosto 2014