Soltanto la normalità della vita quotidiana ci rende eroici ed esemplari
di Javier Gomá
L’Antichità ha visto nel sublime una forma del bello e quindi si è potuto parlare propriamente di una «bellezza sublime». Solo più tardi, durante l’Illuminismo (Burke e Kant), è stato istituito un antagonismo radicale tra il bello e il sublime [...] da cui è risultato un concetto di sublime non solo senza forma (informe, deforme, brutto) ma anche senza luce, privo cioè di claritase pertanto tendente all’oscuro, al sinistro, al morboso e persino al demoniaco. L’etimologia latina di «sublime» (sublimis) designa ciò che è molto alto e «sublimare» ha significato dapprima l’atto di sollevare o elevare: sublime, insomma, si riferisce a ciò che è grande per altezza morale ed estetica. La modernità ha ignorato il concetto originario di grandezza come elevatezza e lo ha sostituito con un altro che lo assimila all’intensità del sentimento o al gigantismo dei grandi numeri (spettacolari opere di architettura, impensabile numero di stelle e galassie nell’universo). Questo cambiamento da una grandiosità qualitativa ad un’altra puramente quantitativa ha tralasciato quell’esemplarità che, per il suo carattere straordinario, è soprattutto degna di essere generalizzata socialmente mediante l’imitazione e di permanere nel tempo
Tuttavia, una modernità senza grandezza esemplare è una modernità senza gloria. Possiamo sentire, pensare e rappresentare il sublime nella cultura attuale? Molti direbbero no. La sola menzione del sublime suscita un cenno di scetticismo se non un’espressione di sarcasmo. Il cinismo imperante avrebbe sradicato dal mondo contemporaneo la possibilità stessa del grandioso; l’egualitarismo democratico avrebbe imposto un livellamento generale che lo esclude. [...] È proprio vero? Longino già si chiedeva perché nella sua epoca scarseggiassero i poeti sublimi e trovava due ragioni. La prima: l’assenza di libertà democratiche durante l’Impero romano: «La democrazia è un’eccellente nutrice di geni e solo al suo interno fioriscono i grandi uomini di lettere». La seconda: la brama smodata di ricchezza e di piaceri dei suoi contemporanei, i quali, dominati dall’indifferenza, non guardavano verso l’alto e non intraprendevano mai nulla degno di emulazione e di onore. Cosa dovremmo dire del nostro tempo? In questo inizio di XXI secolo la democrazia si è fermamente stabilizzata in Occidente, ma ovunque regna l’indifferenza verso il sublime. Perché?
Solo per brama di ricchezza e di piaceri? Senza un anelito di elevazione verso l’eccellenza, le culture si impoveriscono irrimediabilmente. Ogni epoca propone un ideale — greco, romano, medievale, rinascimentale, illuministico, romantico — che, come espressione suprema dell’essere umano, attrae per la sua perfezione, illumina l’esperienza individuale e mobilita l’entusiasmo latente facendo avanzare il gruppo verso una meta. Una società senza ideali — e il sublime è una forma di ideale — è condannata fatalmente a non progredire, a ripetersi e infine a decadere. [...] Il mio libro Esemplarità pubblica (del 2009; tradotto in italiano nel 2011 da Armando Editore) propone una teoria dell’esemplarità egualitaria, alternativa all’esemplarità aristocratica che, in modo implicito, è stata egemone per millenni. Di questo libro interessa qui evidenziare solo uno dei suoi corollari antropologici. Nella concezione dell’individuo moderno l’ideale dell’esemplarità è stato sradicato perché la modernità si immagina un io autonomo, libero dall’imitazione e dalla guida di altri. Secondo questa concezione inoltre ciascun io è consapevole della propria irripetibile unicità e manca perciò assolutamente di quegli elementi comuni tra le persone che stanno a fondamento dell’imitazione di un modello esemplare. In effetti, a partire da Herder ci siamo abituati a trovare il carattere dell’individualità umana solo in ciò che è differente, speciale, peculiare di ciascuno di noi: essere un individuo consiste nell’essere distinto, unico nel proprio genere; fare esperienza significa sperimentare la propria irripetibile singolarità. La rappresentazione moderna della soggettività prende in prestito le proprietà che Kant attribuiva esclusivamente al genio artistico: collocarsi al di sopra delle regole comuni, essere creatore e legislatore di se stesso.
La medesima avversione per ciò che è comune si trova anche nel Saggio sulla libertà di Stuart Mill, che presenta l’originalità del singolo come il «sale della terra». Loda la ricchezza, la varietà e pluralità delle forme dell’io e disprezza quanti operano secondo i costumi collettivi, per i quali sarebbe richiesta unicamente «la facoltà di imitazione delle scimmie». Per lui, i costumi — questo elemento imprescindibile di socializzazione e civilizzazione — sono il patrimonio della massa, della «mediocrità collettiva», rispetto alla quale raccomanda all’individuo di praticare l’«eccentricità». L’ideale dell’esemplarità richiede una rappresentazione della soggettività che, anziché mettere l’accento sulla eccentricità che ci distingue, assuma invece positivamente ciò che è comune e che tutti condividiamo in quanto uomini. [...]
Tutti partecipiamo di un’esperienza comune, generale, oggettiva che si riassume nell’universale «vivere e invecchiare» degli uomini; un’esperienza fondamentale che, pur essendo la mia esperienza, è però anche un’esperienza generale. Siamo tutti ugualmente mortali e questo essere mortali ci è essenziale. Tutti noi che sulla terra viviamo e invecchiamo facciamo ugualmente parte dei «comuni mortali» e di fronte a questa esperienza decisiva qualunque differenza si mostra irrilevante o secondaria. La condizione egualitaria e universale di essere dei «comuni mortali» crea i presupposti antropologici dell’esemplarità. Solo se vi è un sostrato comune che lega gli uomini tra loro diventa possibile l’imitazione di un modello, e questo accade perché l’esemplarità contiene per sua natura una chiamata alla ripetizione e può essere ripetuto solo l’esempio di qualcuno con cui si ha o si può avere qualcosa in comune. È quanto accade anche ad Achille, l’eroe del mito [...]. La sua esperienza fondamentale (quella di apprendere ad essere mortale) è anche la nostra. Achille non solo è il protagonista di un bel mito antico, [...] ma racchiude il paradigma permanente dell’umano. La sua gloria è anche la nostra. Tutti noi, uomini e donne, [...] abbandoniamo come Achille il gineceo della nostra adolescenza e ci imbarchiamo sulle navi greche con gli altri eroi in direzione di Troia, dove moriremo nella lotta per guadagnarci un nome, quello della nostra individualità personale plasmata nell’elemento della mortalità condivisa. Questa traversata di mare simboleggia l’impresa, comune a tutti gli uomini in tutti i tempi e luoghi del mondo — impresa permanente e mai del tutto compiuta — di apprendere la nostra condizione mortale.
La sublime grandezza di Achille si ripete poi in tono più quotidiano ma altrettanto eroico nella vita di ciascuno di noi. Quell’io che avanza nel cammino e passa dal gineceo a Troia è il nuovo Achille, l’attualizzazione contemporanea dell’eroe esemplare, la reiterazione del migliore fra gli uomini. Lo stadio etico oltrepassa l’universo della fase precedente, ma ne conserva un momento estetico che, coniugato con l’eticità, illumina l’individualità umana. Questa, l’individualità, capolavoro dello stadio etico, costituisce l’esperienza comune, generale e normale dell’uomo in quanto uomo. Montaigne replica anticipatamente a Mill e alla sua dottrina dell’io eccentrico quando, nell’ultima pagina dei suoi lunghi Saggi annota una delle sue convinzioni più profonde: «Le vite più belle sono, a mio parere, quelle che si adattano al modello comune e umano con ordine ma senza miracoli, senza stravaganza». In realtà, ogni uomo che nasce, lavora, si fa una casa e muore, partecipa dell’intensità e della drammaticità del dilemma di Achille. Contempliamo questo io quotidiano — capofamiglia responsabile e professionista competente — che invecchia compiendo il suo dovere senza stravaganza e torna a casa ogni giorno dopo una giornata monotona e prevedibile, sì, ma utile per la comunità: in questo io della medietà, di un’esemplarità senza rilievo, risplende la gloria dell’antico eroe. Perché in questo io si deve giustamente ammirare l’atto eroico di assumere la propria mortalità, anche se questo eroismo per lo più è velato dal sereno compimento del proprio dovere e dall’assenza di manierismo propria dello stadio etico. Anche se il romanticismo, facendo del genio artistico il modello dell’individualità moderna, ci ha resi incapaci di cogliere la nobile semplicità e la serena grandezza dell’etica normale, la più alta missione dell’uomo consiste nel meritare questa normalità. Lungi dal non essere all’altezza dell’uomo, non ne esiste al mondo una più grande e degna di lui, e costituisce un compito così vasto da richiedere un’intera vita.
Testo della Lezione magistrale che Javier Gomá terrà a Modena, domenica 14 settembre alle ore 11.30 (traduzione dallo spagnolo a cura di Michelina Borsari)
Tuttavia, una modernità senza grandezza esemplare è una modernità senza gloria. Possiamo sentire, pensare e rappresentare il sublime nella cultura attuale? Molti direbbero no. La sola menzione del sublime suscita un cenno di scetticismo se non un’espressione di sarcasmo. Il cinismo imperante avrebbe sradicato dal mondo contemporaneo la possibilità stessa del grandioso; l’egualitarismo democratico avrebbe imposto un livellamento generale che lo esclude. [...] È proprio vero? Longino già si chiedeva perché nella sua epoca scarseggiassero i poeti sublimi e trovava due ragioni. La prima: l’assenza di libertà democratiche durante l’Impero romano: «La democrazia è un’eccellente nutrice di geni e solo al suo interno fioriscono i grandi uomini di lettere». La seconda: la brama smodata di ricchezza e di piaceri dei suoi contemporanei, i quali, dominati dall’indifferenza, non guardavano verso l’alto e non intraprendevano mai nulla degno di emulazione e di onore. Cosa dovremmo dire del nostro tempo? In questo inizio di XXI secolo la democrazia si è fermamente stabilizzata in Occidente, ma ovunque regna l’indifferenza verso il sublime. Perché?
Solo per brama di ricchezza e di piaceri? Senza un anelito di elevazione verso l’eccellenza, le culture si impoveriscono irrimediabilmente. Ogni epoca propone un ideale — greco, romano, medievale, rinascimentale, illuministico, romantico — che, come espressione suprema dell’essere umano, attrae per la sua perfezione, illumina l’esperienza individuale e mobilita l’entusiasmo latente facendo avanzare il gruppo verso una meta. Una società senza ideali — e il sublime è una forma di ideale — è condannata fatalmente a non progredire, a ripetersi e infine a decadere. [...] Il mio libro Esemplarità pubblica (del 2009; tradotto in italiano nel 2011 da Armando Editore) propone una teoria dell’esemplarità egualitaria, alternativa all’esemplarità aristocratica che, in modo implicito, è stata egemone per millenni. Di questo libro interessa qui evidenziare solo uno dei suoi corollari antropologici. Nella concezione dell’individuo moderno l’ideale dell’esemplarità è stato sradicato perché la modernità si immagina un io autonomo, libero dall’imitazione e dalla guida di altri. Secondo questa concezione inoltre ciascun io è consapevole della propria irripetibile unicità e manca perciò assolutamente di quegli elementi comuni tra le persone che stanno a fondamento dell’imitazione di un modello esemplare. In effetti, a partire da Herder ci siamo abituati a trovare il carattere dell’individualità umana solo in ciò che è differente, speciale, peculiare di ciascuno di noi: essere un individuo consiste nell’essere distinto, unico nel proprio genere; fare esperienza significa sperimentare la propria irripetibile singolarità. La rappresentazione moderna della soggettività prende in prestito le proprietà che Kant attribuiva esclusivamente al genio artistico: collocarsi al di sopra delle regole comuni, essere creatore e legislatore di se stesso.
La medesima avversione per ciò che è comune si trova anche nel Saggio sulla libertà di Stuart Mill, che presenta l’originalità del singolo come il «sale della terra». Loda la ricchezza, la varietà e pluralità delle forme dell’io e disprezza quanti operano secondo i costumi collettivi, per i quali sarebbe richiesta unicamente «la facoltà di imitazione delle scimmie». Per lui, i costumi — questo elemento imprescindibile di socializzazione e civilizzazione — sono il patrimonio della massa, della «mediocrità collettiva», rispetto alla quale raccomanda all’individuo di praticare l’«eccentricità». L’ideale dell’esemplarità richiede una rappresentazione della soggettività che, anziché mettere l’accento sulla eccentricità che ci distingue, assuma invece positivamente ciò che è comune e che tutti condividiamo in quanto uomini. [...]
Tutti partecipiamo di un’esperienza comune, generale, oggettiva che si riassume nell’universale «vivere e invecchiare» degli uomini; un’esperienza fondamentale che, pur essendo la mia esperienza, è però anche un’esperienza generale. Siamo tutti ugualmente mortali e questo essere mortali ci è essenziale. Tutti noi che sulla terra viviamo e invecchiamo facciamo ugualmente parte dei «comuni mortali» e di fronte a questa esperienza decisiva qualunque differenza si mostra irrilevante o secondaria. La condizione egualitaria e universale di essere dei «comuni mortali» crea i presupposti antropologici dell’esemplarità. Solo se vi è un sostrato comune che lega gli uomini tra loro diventa possibile l’imitazione di un modello, e questo accade perché l’esemplarità contiene per sua natura una chiamata alla ripetizione e può essere ripetuto solo l’esempio di qualcuno con cui si ha o si può avere qualcosa in comune. È quanto accade anche ad Achille, l’eroe del mito [...]. La sua esperienza fondamentale (quella di apprendere ad essere mortale) è anche la nostra. Achille non solo è il protagonista di un bel mito antico, [...] ma racchiude il paradigma permanente dell’umano. La sua gloria è anche la nostra. Tutti noi, uomini e donne, [...] abbandoniamo come Achille il gineceo della nostra adolescenza e ci imbarchiamo sulle navi greche con gli altri eroi in direzione di Troia, dove moriremo nella lotta per guadagnarci un nome, quello della nostra individualità personale plasmata nell’elemento della mortalità condivisa. Questa traversata di mare simboleggia l’impresa, comune a tutti gli uomini in tutti i tempi e luoghi del mondo — impresa permanente e mai del tutto compiuta — di apprendere la nostra condizione mortale.
La sublime grandezza di Achille si ripete poi in tono più quotidiano ma altrettanto eroico nella vita di ciascuno di noi. Quell’io che avanza nel cammino e passa dal gineceo a Troia è il nuovo Achille, l’attualizzazione contemporanea dell’eroe esemplare, la reiterazione del migliore fra gli uomini. Lo stadio etico oltrepassa l’universo della fase precedente, ma ne conserva un momento estetico che, coniugato con l’eticità, illumina l’individualità umana. Questa, l’individualità, capolavoro dello stadio etico, costituisce l’esperienza comune, generale e normale dell’uomo in quanto uomo. Montaigne replica anticipatamente a Mill e alla sua dottrina dell’io eccentrico quando, nell’ultima pagina dei suoi lunghi Saggi annota una delle sue convinzioni più profonde: «Le vite più belle sono, a mio parere, quelle che si adattano al modello comune e umano con ordine ma senza miracoli, senza stravaganza». In realtà, ogni uomo che nasce, lavora, si fa una casa e muore, partecipa dell’intensità e della drammaticità del dilemma di Achille. Contempliamo questo io quotidiano — capofamiglia responsabile e professionista competente — che invecchia compiendo il suo dovere senza stravaganza e torna a casa ogni giorno dopo una giornata monotona e prevedibile, sì, ma utile per la comunità: in questo io della medietà, di un’esemplarità senza rilievo, risplende la gloria dell’antico eroe. Perché in questo io si deve giustamente ammirare l’atto eroico di assumere la propria mortalità, anche se questo eroismo per lo più è velato dal sereno compimento del proprio dovere e dall’assenza di manierismo propria dello stadio etico. Anche se il romanticismo, facendo del genio artistico il modello dell’individualità moderna, ci ha resi incapaci di cogliere la nobile semplicità e la serena grandezza dell’etica normale, la più alta missione dell’uomo consiste nel meritare questa normalità. Lungi dal non essere all’altezza dell’uomo, non ne esiste al mondo una più grande e degna di lui, e costituisce un compito così vasto da richiedere un’intera vita.
Testo della Lezione magistrale che Javier Gomá terrà a Modena, domenica 14 settembre alle ore 11.30 (traduzione dallo spagnolo a cura di Michelina Borsari)
«Corriere della sera» del 9 settembre 2014
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