Se ci culliamo troppo nella «Grande Bellezza» delle nostre tradizioni, alla fine ci mancheranno i soldi per comprarci gli antibiotici, gli smartphone, le macchine non inquinanti. Agli studenti serve un mix di conoscenze
di Andrea Ichino
Nel processo di venerdì scorso al Carignano di Torino, il liceo classico è stato assolto da tre capi d’accusa: non preparare adeguatamente i giovani per studi universitari scientifici; non prepararli per le sfide che dovranno affrontare nella società del futuro; aver contribuito a frenare la mobilità sociale nel nostro Paese.
Sotto processo, tuttavia, non era solo questo tipo di liceo, ma una caratteristica ben più profonda della società italiana: l’idea che le conoscenze storico-umanistiche, il latino e il greco siano essenziali, mentre le conoscenze tecnico-scientifiche e le lingue vive possano considerarsi un optional.
I testimoni della difesa, guidati da Umberto Eco nel ruolo di avvocato, hanno convinto la Corte argomentando che quello di cui i giovani hanno bisogno è, prima di tutto, conoscere la storia, l’arte e le lingue della loro civiltà. Luciano Canfora, uno di essi, lo ha ben spiegato sul Corriere di ieri. Queste materie sono un requisito indispensabile per dare ai giovani quella formazione mentale, quel metodo e quei valori senza i quali non potranno essere buoni cittadini e nemmeno dedicarsi, in seguito, a studi scientifici e alle lingue vive se proprio vorranno farlo. Con le conoscenze storico-umanistiche si può fare tutto, ma non è vero il converso per quelle scientifiche.
Adriano Olivetti è stato citato ad esempio perché cercava solo ingegneri che avessero studiato a fondo le materie classiche. A nulla è valso far notare che l’azienda Olivetti non esiste più, dopo aver trascinato nel baratro l’intero settore hi-tech nel nostro Paese, mentre Apple e Microsoft sono ancora lì, sebbene Steve Jobs e Bill Gates non abbiano, credo, frequentato il liceo classico. Oppure suggerire che per tradurre i linguaggi cifrati dei nazisti, i servizi britannici abbiano assunto il matematico Turing, non un latinista.
Neppure hanno convinto le prove portate dall’accusa, riguardo alla peggiore performance degli studenti del classico che tentano il test di medicina a Bologna e nei primi due anni di questo corso di laurea. Oppure il dato che gli studenti del classico che fanno domanda per la classe di scienze della Scuola Normale passino l’esame con frequenza molto inferiore a quella dei candidati dello scientifico. E questo nonostante l’Istat mostri che i primi hanno famiglie più avvantaggiate economicamente e culturalmente. La Corte ha ritenuto che l’evidenza statistica e i numeri non siano fatti rilevanti per il giudizio.
In realtà, l’accusa, da me rappresentata come Pm, non aveva nessuna intenzione di negare importanza alle conoscenze storico-umanistiche, ma solo di suggerire che quelle tecnico-scientifiche non siano meno importanti e che non basti aver studiato la storia e la lingua dei greci e dei latini per poter scoprire la struttura elicoidale del dna. I due mondi non sono in una contrapposizione intrinseca.
Se il tempo fosse dilatabile (come per Hermione nella saga di Harry Potter) potremmo senza problemi imparare a leggere l’Odissea in lingua originale per conoscere la culla della nostra civiltà, così come studiare i mitocondri per conoscere l’origine della vita su questo pianeta.
Il tempo, però, non è dilatabile: le ore in una giornata sono limitate. Così come limitate sono le risorse in termini di spazi e di docenti, anche se potessimo, come dovremmo, pagarli tanto per averne di davvero bravi. L’economia è la «scienza triste» perché una delle sue missioni è ricordare al mondo che ci sono dei vincoli di bilancio: non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Per questo siamo costretti a fare delle scelte, a equilibrare esigenze opposte. Ragion per cui l’accusa ha proposto di offrire ai giovani scuole à la carte, non a menù fisso, che consentano a ciascun studente di costruire gradualmente il proprio mix ideale di conoscenze umanistiche, scientifiche e tecniche. Così accade in Germania, Paese che da anni ha abbandonato il suo rigido liceo classico.
La Corte, tuttavia, ha accolto la tesi contraria della difesa secondo cui avere tutto è perfettamente possibile (una visione «et-et» in contrapposizione allo «aut-aut» dell’accusa) e quindi non siamo condannati ad alcuna scelta imposta da limiti di tempo e spazio.
Rispetto, come doveroso, le decisioni motivate della Corte. Temo però che se continueremo a cullarci nella «Grande Bellezza» delle nostre tradizioni, alla fine ci mancheranno i soldi per comprarci gli antibiotici, gli antidolorifici, le macchine non inquinanti, gli smartphone e anche la tecnologia per la tutela del nostro meraviglioso patrimonio artistico. Beni che altri Paesi avranno prodotto, come meschine formiche, ma che saranno disposti a vendere a noi, cicale erudite, solo se saremo in grado di pagarle.
Per non parlare del debito pubblico che già abbiamo e che sarà difficile restituire solo con le orazioni di Cicerone. Il quale, però, credo ci ricorderebbe che onorare quel debito è in primo luogo un dovere morale.
Sotto processo, tuttavia, non era solo questo tipo di liceo, ma una caratteristica ben più profonda della società italiana: l’idea che le conoscenze storico-umanistiche, il latino e il greco siano essenziali, mentre le conoscenze tecnico-scientifiche e le lingue vive possano considerarsi un optional.
I testimoni della difesa, guidati da Umberto Eco nel ruolo di avvocato, hanno convinto la Corte argomentando che quello di cui i giovani hanno bisogno è, prima di tutto, conoscere la storia, l’arte e le lingue della loro civiltà. Luciano Canfora, uno di essi, lo ha ben spiegato sul Corriere di ieri. Queste materie sono un requisito indispensabile per dare ai giovani quella formazione mentale, quel metodo e quei valori senza i quali non potranno essere buoni cittadini e nemmeno dedicarsi, in seguito, a studi scientifici e alle lingue vive se proprio vorranno farlo. Con le conoscenze storico-umanistiche si può fare tutto, ma non è vero il converso per quelle scientifiche.
Adriano Olivetti è stato citato ad esempio perché cercava solo ingegneri che avessero studiato a fondo le materie classiche. A nulla è valso far notare che l’azienda Olivetti non esiste più, dopo aver trascinato nel baratro l’intero settore hi-tech nel nostro Paese, mentre Apple e Microsoft sono ancora lì, sebbene Steve Jobs e Bill Gates non abbiano, credo, frequentato il liceo classico. Oppure suggerire che per tradurre i linguaggi cifrati dei nazisti, i servizi britannici abbiano assunto il matematico Turing, non un latinista.
Neppure hanno convinto le prove portate dall’accusa, riguardo alla peggiore performance degli studenti del classico che tentano il test di medicina a Bologna e nei primi due anni di questo corso di laurea. Oppure il dato che gli studenti del classico che fanno domanda per la classe di scienze della Scuola Normale passino l’esame con frequenza molto inferiore a quella dei candidati dello scientifico. E questo nonostante l’Istat mostri che i primi hanno famiglie più avvantaggiate economicamente e culturalmente. La Corte ha ritenuto che l’evidenza statistica e i numeri non siano fatti rilevanti per il giudizio.
In realtà, l’accusa, da me rappresentata come Pm, non aveva nessuna intenzione di negare importanza alle conoscenze storico-umanistiche, ma solo di suggerire che quelle tecnico-scientifiche non siano meno importanti e che non basti aver studiato la storia e la lingua dei greci e dei latini per poter scoprire la struttura elicoidale del dna. I due mondi non sono in una contrapposizione intrinseca.
Se il tempo fosse dilatabile (come per Hermione nella saga di Harry Potter) potremmo senza problemi imparare a leggere l’Odissea in lingua originale per conoscere la culla della nostra civiltà, così come studiare i mitocondri per conoscere l’origine della vita su questo pianeta.
Il tempo, però, non è dilatabile: le ore in una giornata sono limitate. Così come limitate sono le risorse in termini di spazi e di docenti, anche se potessimo, come dovremmo, pagarli tanto per averne di davvero bravi. L’economia è la «scienza triste» perché una delle sue missioni è ricordare al mondo che ci sono dei vincoli di bilancio: non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Per questo siamo costretti a fare delle scelte, a equilibrare esigenze opposte. Ragion per cui l’accusa ha proposto di offrire ai giovani scuole à la carte, non a menù fisso, che consentano a ciascun studente di costruire gradualmente il proprio mix ideale di conoscenze umanistiche, scientifiche e tecniche. Così accade in Germania, Paese che da anni ha abbandonato il suo rigido liceo classico.
La Corte, tuttavia, ha accolto la tesi contraria della difesa secondo cui avere tutto è perfettamente possibile (una visione «et-et» in contrapposizione allo «aut-aut» dell’accusa) e quindi non siamo condannati ad alcuna scelta imposta da limiti di tempo e spazio.
Rispetto, come doveroso, le decisioni motivate della Corte. Temo però che se continueremo a cullarci nella «Grande Bellezza» delle nostre tradizioni, alla fine ci mancheranno i soldi per comprarci gli antibiotici, gli antidolorifici, le macchine non inquinanti, gli smartphone e anche la tecnologia per la tutela del nostro meraviglioso patrimonio artistico. Beni che altri Paesi avranno prodotto, come meschine formiche, ma che saranno disposti a vendere a noi, cicale erudite, solo se saremo in grado di pagarle.
Per non parlare del debito pubblico che già abbiamo e che sarà difficile restituire solo con le orazioni di Cicerone. Il quale, però, credo ci ricorderebbe che onorare quel debito è in primo luogo un dovere morale.
«Corriere della Sera» del 17 novembre 2014
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