Così la nuova politica finisce in balìa dei tweet
di Aldo Cazzullo
I followers stanno sostituendo i sondaggi
La «democrazia on line» non esiste. È un ponte sospeso sul vuoto. Ma è anche una suggestione irresistibile, una forza che sta cambiando la storia. Può distruggere la democrazia tradizionale, quella rappresentativa. Ma può concorrere a costruire una democrazia nuova, davvero partecipata. Purché la si usi con discernimento e con rispetto reciproco. Senza cedere all’esaltazione e alla paura. Insomma, senza ripetere quel che è accaduto in questi giorni. Non è negativo che l’opinione pubblica entri nel Palazzo, anzi. Purché non si confondano i 4 milioni di italiani che twittano con l’insieme dell’opinione pubblica. E si trovi la serenità di decidere da uomini non sordi ma liberi.
Il totem della Seconda Repubblica furono i sondaggi. Berlusconi orientava le sue scelte in base alle rivelazioni di Pilo o di Crespi. Le rare volte in cui indulgeva a passeggiare in Transatlantico, ai suoi deputati o a quelli pronti a passare con lui sussurrava in un soffio: «Sapessi, i sondaggi... ». I capi della sinistra, che andavano maturando i rancori culminati venerdì nel killeraggio di Prodi, trovavano sempre sondaggisti che li davano in netto vantaggio, fino all’apertura delle urne.
Il totem della Repubblica che sta nascendo in questi giorni è la Rete. E il fenomeno non riguarda solo i Cinque Stelle, nati senza soldi e senza l’appoggio dei media, come nella conferenza stampa di ieri (una delle prime) Grillo ha ripetuto spesso. Si è parlato molto dei grillini, e poco dei giovani del Pd. Che appartengono
alla stessa generazione, passano anche loro molto tempo davanti a Facebook e agli altri social network, e
rendono conto non a capipartito mai così screditati ma a poche centinaia di amici, che li hanno votati alle primarie e li influenzano via web.
Si spiega anche così non solo la bocciatura di Marini, ampiamente annunciata,ma pure l’incredibile affondamento di Prodi. Considerato l’uomo di maggior statura che la sinistra potesse mettere in campo (Napolitano a parte). Votato anche da Vendola (che il giorno dopo diceva: «Ho verificato di persona che in Cina Romano è una star, come faccio a spiegarlo alla Rete?»). Ma visto dalla generazione del web come un antico democristiano. Tra i 101 franchi tiratori ci sono certo anche i vindici dei vecchi capi. Ma ci sono anche, se non soprattutto, i terminali di un movimento per cui Prodi ha il fascino che per un sessantottino aveva Rumor.
Il fenomeno non è reversibile. Ma può essere indirizzato nella giusta direzione. L’epoca interconnessa è una straordinaria opportunità, che ha già sconvolto non solo la politica. Aziende abituate ai porti tranquilli degli oligopoli si sono trovate a navigare in mari tempestosi. Soloni avvezzi a pontificare senza contraddittorio si sono dovuti calare in un gioco che ha incrinato le loro sicumere (anche se talora non il loro narcisismo). L’importante è non scambiare un fenomeno di avanguardia con l’intera società, le opinioni frammentate e volubili con la complessità degli interessi economici e sociali.
Il problema non è solo l’esclusione di chi la Rete non la usa, o non ha il tempo di usarla. Riguarda anche la formazione del personale politico. Il mondo invecchia, e ai disastri della sinistra non è estraneo il fatto che nella segreteria dove un tempo si confrontavano Amendola, Ingrao, Pajetta, Terracini — uomini temprati dalle carceri fasciste, dall’esilio, dalla guerra di liberazione, dal condizionamento terribile di Stalin — oggi siedono personaggi il cui spessore si deve soprattutto alle amatriciane. Colpiva vedere in Transatlantico, in una folla di parlamentari fissi sul tablet o sullo smart-phone, due deputati quasi sempre soli, senza che gli altri rivolgessero loro la parola, forse intimiditi dall’intensità delle loro storie di formazione. Uno era Antonio Boccuzzi, l’operaio scampato al rogo della Thyssen. L’altro era Mario Tronti, uno studioso che ha scritto più libri di quanti un deputato medio abbia letto, che nel ’68 esercitava il potere sulle anime e che i ribelli di oggi non sanno chi sia.
Ma la tenuta e la sagacia di un uomo politico non si possono ridurre all’arte di indignare e divertire on line. Lo stesso Grillo non è certo un prodotto dei computer, che un tempo distruggeva in scena così come dileggiava Rodotà per la sua pensione. Il capo - con Casaleggio - dei Cinque Stelle deve la sua popolarità alla tv, e la sua presa sulle folle alla lunga pratica dell’Italia maturata nelle discoteche. Fin dai primi Anni Ottanta Grillo non arrivava sul palco all’ultimo momento, come fanno quasi tutti gli artisti. Passava volentieri un po’ di tempo con la gente del posto. Si faceva raccontare curiosità, proverbi dialettali, tic linguistici. Chiedeva: «Come si dice qui “vaffa”? Come fate per mandar qualcuno a quel paese?». Poi impostava il primo quarto d’ora di spettacolo su quel che aveva imparato, davanti a un pubblico estasiato dalla star televisiva che parlava la loro lingua, si metteva al loro livello. Nei decenni successivi Grillo ha affrontato a teatro i temi che ora ha portato in politica, dalla corruzione ai beni comuni, e cominciava lo show facendo l’appello di coloro che avevano ottenuto biglietti omaggio: «Dov’è l’onorevole? Si vergogni! Lei è l’assessore? Almeno si alzi in piedi per ringraziare!». Stava già mettendo a punto i meccanismi del suo successo, di cui i (vergognosi) privilegi castali rappresentano il detonatore ma la cui essenza è la rivolta contro le élite, e il retrotesto è: i vostri guai non dipendono da voi, dai ritardi italiani nel mondo globale, ma da loro; tagliati i loro vitalizi, estirpate le loro tangenti, ci saranno banda larga e decrescita felice per tutti.
È lo stesso Casaleggio a sostenere che la Rete vada orientata, per non dire manipolata. Siti, blog, profili degli agitatori diventano discariche di odio e frustrazione, in cui ogni intervento comincia con un insulto. Questo deturpa un’opportunità meravigliosa, e trasforma Internet in una piazza elettronica dove tutti parlano, molti gridano, qualcuno inveisce, e nessuno ascolta. Non c’è da stupirsi se si cerca di sfuggire al vuoto ancorandosi ad approdi saldi, rivolgendosi a uomini davvero autorevoli perché giunti al vertice dopo un lungo e tormentato percorso. Si spiega anche così l’innamoramento collettivo per papa Francesco, e la credibilità che Giorgio Napolitano si è guadagnato non solo nell’establishment internazionale ma anche tra la gente. Anche la sua rielezione è stata criticata on line. Ma è davvero questa l’attitudine prevalente nell’opinione pubblica? Non c’è anche il sollievo per la fine di una vicenda così distruttiva? Gli italiani desiderano cambiamenti perché sono indignati dagli scandali, offesi dai privilegi, angosciati dal futuro. Paradossalmente, il presidente rieletto avrà più forza di qualsiasi altro candidato per fare le riforme rinviate da troppo tempo. Tra le quali ci potrebbero essere il ritorno ai collegi uninominali e l’elezione diretta del capo dello Stato. Per riportare la «democrazia on line» al suo ruolo naturale di stimolo e di controllo. E restituire la parola a tutti i cittadini che non sanno cosa sia What’s App, ma hanno comunque a cuore il bene comune.
Il totem della Seconda Repubblica furono i sondaggi. Berlusconi orientava le sue scelte in base alle rivelazioni di Pilo o di Crespi. Le rare volte in cui indulgeva a passeggiare in Transatlantico, ai suoi deputati o a quelli pronti a passare con lui sussurrava in un soffio: «Sapessi, i sondaggi... ». I capi della sinistra, che andavano maturando i rancori culminati venerdì nel killeraggio di Prodi, trovavano sempre sondaggisti che li davano in netto vantaggio, fino all’apertura delle urne.
Il totem della Repubblica che sta nascendo in questi giorni è la Rete. E il fenomeno non riguarda solo i Cinque Stelle, nati senza soldi e senza l’appoggio dei media, come nella conferenza stampa di ieri (una delle prime) Grillo ha ripetuto spesso. Si è parlato molto dei grillini, e poco dei giovani del Pd. Che appartengono
alla stessa generazione, passano anche loro molto tempo davanti a Facebook e agli altri social network, e
rendono conto non a capipartito mai così screditati ma a poche centinaia di amici, che li hanno votati alle primarie e li influenzano via web.
Si spiega anche così non solo la bocciatura di Marini, ampiamente annunciata,ma pure l’incredibile affondamento di Prodi. Considerato l’uomo di maggior statura che la sinistra potesse mettere in campo (Napolitano a parte). Votato anche da Vendola (che il giorno dopo diceva: «Ho verificato di persona che in Cina Romano è una star, come faccio a spiegarlo alla Rete?»). Ma visto dalla generazione del web come un antico democristiano. Tra i 101 franchi tiratori ci sono certo anche i vindici dei vecchi capi. Ma ci sono anche, se non soprattutto, i terminali di un movimento per cui Prodi ha il fascino che per un sessantottino aveva Rumor.
Il fenomeno non è reversibile. Ma può essere indirizzato nella giusta direzione. L’epoca interconnessa è una straordinaria opportunità, che ha già sconvolto non solo la politica. Aziende abituate ai porti tranquilli degli oligopoli si sono trovate a navigare in mari tempestosi. Soloni avvezzi a pontificare senza contraddittorio si sono dovuti calare in un gioco che ha incrinato le loro sicumere (anche se talora non il loro narcisismo). L’importante è non scambiare un fenomeno di avanguardia con l’intera società, le opinioni frammentate e volubili con la complessità degli interessi economici e sociali.
Il problema non è solo l’esclusione di chi la Rete non la usa, o non ha il tempo di usarla. Riguarda anche la formazione del personale politico. Il mondo invecchia, e ai disastri della sinistra non è estraneo il fatto che nella segreteria dove un tempo si confrontavano Amendola, Ingrao, Pajetta, Terracini — uomini temprati dalle carceri fasciste, dall’esilio, dalla guerra di liberazione, dal condizionamento terribile di Stalin — oggi siedono personaggi il cui spessore si deve soprattutto alle amatriciane. Colpiva vedere in Transatlantico, in una folla di parlamentari fissi sul tablet o sullo smart-phone, due deputati quasi sempre soli, senza che gli altri rivolgessero loro la parola, forse intimiditi dall’intensità delle loro storie di formazione. Uno era Antonio Boccuzzi, l’operaio scampato al rogo della Thyssen. L’altro era Mario Tronti, uno studioso che ha scritto più libri di quanti un deputato medio abbia letto, che nel ’68 esercitava il potere sulle anime e che i ribelli di oggi non sanno chi sia.
Ma la tenuta e la sagacia di un uomo politico non si possono ridurre all’arte di indignare e divertire on line. Lo stesso Grillo non è certo un prodotto dei computer, che un tempo distruggeva in scena così come dileggiava Rodotà per la sua pensione. Il capo - con Casaleggio - dei Cinque Stelle deve la sua popolarità alla tv, e la sua presa sulle folle alla lunga pratica dell’Italia maturata nelle discoteche. Fin dai primi Anni Ottanta Grillo non arrivava sul palco all’ultimo momento, come fanno quasi tutti gli artisti. Passava volentieri un po’ di tempo con la gente del posto. Si faceva raccontare curiosità, proverbi dialettali, tic linguistici. Chiedeva: «Come si dice qui “vaffa”? Come fate per mandar qualcuno a quel paese?». Poi impostava il primo quarto d’ora di spettacolo su quel che aveva imparato, davanti a un pubblico estasiato dalla star televisiva che parlava la loro lingua, si metteva al loro livello. Nei decenni successivi Grillo ha affrontato a teatro i temi che ora ha portato in politica, dalla corruzione ai beni comuni, e cominciava lo show facendo l’appello di coloro che avevano ottenuto biglietti omaggio: «Dov’è l’onorevole? Si vergogni! Lei è l’assessore? Almeno si alzi in piedi per ringraziare!». Stava già mettendo a punto i meccanismi del suo successo, di cui i (vergognosi) privilegi castali rappresentano il detonatore ma la cui essenza è la rivolta contro le élite, e il retrotesto è: i vostri guai non dipendono da voi, dai ritardi italiani nel mondo globale, ma da loro; tagliati i loro vitalizi, estirpate le loro tangenti, ci saranno banda larga e decrescita felice per tutti.
È lo stesso Casaleggio a sostenere che la Rete vada orientata, per non dire manipolata. Siti, blog, profili degli agitatori diventano discariche di odio e frustrazione, in cui ogni intervento comincia con un insulto. Questo deturpa un’opportunità meravigliosa, e trasforma Internet in una piazza elettronica dove tutti parlano, molti gridano, qualcuno inveisce, e nessuno ascolta. Non c’è da stupirsi se si cerca di sfuggire al vuoto ancorandosi ad approdi saldi, rivolgendosi a uomini davvero autorevoli perché giunti al vertice dopo un lungo e tormentato percorso. Si spiega anche così l’innamoramento collettivo per papa Francesco, e la credibilità che Giorgio Napolitano si è guadagnato non solo nell’establishment internazionale ma anche tra la gente. Anche la sua rielezione è stata criticata on line. Ma è davvero questa l’attitudine prevalente nell’opinione pubblica? Non c’è anche il sollievo per la fine di una vicenda così distruttiva? Gli italiani desiderano cambiamenti perché sono indignati dagli scandali, offesi dai privilegi, angosciati dal futuro. Paradossalmente, il presidente rieletto avrà più forza di qualsiasi altro candidato per fare le riforme rinviate da troppo tempo. Tra le quali ci potrebbero essere il ritorno ai collegi uninominali e l’elezione diretta del capo dello Stato. Per riportare la «democrazia on line» al suo ruolo naturale di stimolo e di controllo. E restituire la parola a tutti i cittadini che non sanno cosa sia What’s App, ma hanno comunque a cuore il bene comune.
«Corriere della Sera» del 22 aprile 2013
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