26 aprile 2013

Il sospetto universale

Se ogni accordo è un inciucio
di Ernesto Galli della Loggia
«L'inciucio!». Molti italiani si stanno ormai abituando a giudicare la politica nell'ottica di quest'unica categoria demonizzante, e quindi a vedere le cose e gli uomini della scena pubblica del loro Paese in una sola luce: quella del sospetto universale.
La prima caratteristica della categoria dell' inciucio , quella che la rende così facilmente utilizzabile, è la sua indeterminatezza. L' inciucio , infatti, come insegnano i suoi denunciatori di professione, si annida dovunque. Potenzialmente esso riguarda tutto e tutti. Può consistere nella sentenza di un tribunale, in un articolo di giornale, nella decisione di qualunque autorità, in una trasmissione televisiva, in tutto. Ma soprattutto è inciucio la trattativa, l'accordo, il compromesso espliciti, così come pure - anzi in special modo! - l'intesa tacita che su una determinata questione si stabilisce per così dire spontaneamente tra gli attori politici di parti diverse. Tanto più che perché di inciucio si possa accusare qualcuno non c'è bisogno di alcuna prova. Per definizione, infatti, l' inciucio si svolge nell'ombra, al riparo da occhi indiscreti. E dunque, paradossalmente, proprio la circostanza che di esso non si abbiano tracce visibili diviene la massima prova della sua esistenza. In questo senso la categoria d' inciucio , nella sua indeterminatezza e nella sua indimostrabilità, costituisce una sorta di versione in tono minore di un'altra ben nota categoria, da decenni ai vertici dei gusti del grande pubblico: la categoria dei «misteri d'Italia» con la connessa tematica del «grande complotto». Ogni vero inciucio , infatti, contiene inevitabilmente un elemento di «mistero», e d'altra parte ogni «mistero» non implica forse chissà quanti inciuci?
Un ulteriore vantaggio che offre poi l' inciucio in termini polemico-propagandistici è che esso, di nuovo, può sottintendere tutto, il fare ma anche il non fare. Agli occhi dei suoi teorici esso è anzi soprattutto questo: è il non fare, il disertare, l'abbandono della posizione di fronte al nemico. Un aspetto, questo, che indica assai bene quale sia l'idea della democrazia che hanno i denunciatori di professione dell' anti inciucio . È un'idea per così dire bellica della democrazia, radicalmente fondata sul concetto di ostilità. Per non essere l'anticamera dell' inciucio (sempre in agguato!), la democrazia deve essere scontro permanente, continua denuncia dell'avversario e dei suoi disegni, illustrazione delle sue indegnità morali, smascheramento; ogni discorso deve sbugiardare, denudare, indicare al pubblico ludibrio.
La massima virtù civica non è la probità, è l'indignazione. Chi non si adegua, chi invece guarda alla democrazia come a quel sistema che si fonda, sì, sulle «parti» e sulla loro contrapposizione, ma anche, specialmente nei tempi difficili, sulla ricerca dell'accordo, sulla tessitura di compromessi, sulla moderazione di toni, sul riconoscimento dell'opinabilità di tutti i punti di vista (compreso il proprio, naturalmente) e della buona fede altrui, ebbene costui è già un potenziale «inciucista», un «traditore», un «venduto», degno di essere consegnato ai dileggi parasquadristici di cui per esempio sono stati vittime gli onorevoli Franceschini e Fassina nei giorni scorsi. Poiché in una tale ottica la mediazione non è il momento inevitabile di ogni prassi democratica; al contrario: ne diviene la più indegna negazione. Naturalmente ordita con i più torbidi scopi.
Inutile dire quanto abbia aiutato a radicare l'idea e la categoria d' inciucio la scoperta della spartizione, concordata per anni dietro le quinte, a opera dell'intera classe politica, di privilegi e benefici di ogni tipo e misura. Cioè la scoperta della «casta». Una realtà verissima e certo scandalosa: se si può muovere un rimprovero all'uso pubblico della quale, però, è di non avere sottolineato abbastanza che l'intera società borghese italiana è in verità una società di caste. Che la radice del male, dunque, non sta tanto nella politica quanto nella cultura, nella mentalità profonda delle classi dirigenti (e non solo) del Paese. Per cui in Italia tendono a essere una «casta» i giornalisti, i giudici, gli avvocati, gli alti burocrati, i professori, i manager, i funzionari dei gabinetti ministeriali, e così via: in vario modo tutti impegnati accanitamente a sistemare i propri figli possibilmente nello stesso mestiere, a impedire l'accesso ai nuovi venuti, ad accumulare privilegi, retribuzioni, eccezioni di varia natura, auto blu, simboli di status, diarie, cumuli pensionistici, trattamenti speciali, ope legis , e chi più ne ha più ne metta. Viceversa, declinata unilateralmente la categoria di «casta» porta a conseguenze strabilianti. Per esempio a quella di proclamare «un uomo al di fuori della politica» (Beppe Grillo) una persona certo degnissima come Stefano Rodotà, ma che comunque nei suoi ottant'anni è stato deputato dal 1976 al 1994, deputato europeo per un altro periodo, presidente del gruppo parlamentare della Sinistra indipendente, vicepresidente della Camera, ministro nel governo ombra Occhetto, presidente del Pds, e infine presidente di un'Authority, carica notoriamente di strettissima nomina politica. Qual è insomma, viene da chiedersi, il criterio d'inclusione nella «casta»? Forse non essere nelle grazie degli «anticasta»?
Ma il punto decisivo - lo sappiamo benissimo, senza che ce lo ricordino i professionisti dell' anti inciucio - è che nella politica italiana c'è Berlusconi. Vale a dire il bersaglio di un'indignazione obbligatoria - del quale, a dire di costoro, bisogna a ogni occasione chiedere l'ineleggibilità, la revoca dell'immunità, l'incriminazione, e quant'altro - mentre il solo evitare di farlo, non parliamo dell'avere un qualsivoglia rapporto con lui o con la sua parte, significherebbe, sempre e comunque, l' inciucio più vergognoso. Quando si discute di Berlusconi o con Berlusconi, infatti, se non si vuole passare per collusi il sistema è semplice: ogni sede pubblica deve divenire l'anticamera di una Corte d'assise. Il fatto che da vent'anni egli abbia un seguito di parecchi milioni di elettori (spesso la maggioranza) appare ai custodi della democrazia eticista un dettaglio irrilevante. Non già l'espressione di un problema della storia italiana, di suoi nodi antichi che solo l'iniziativa, le risorse e le capacità della politica, se ci sono, possono sciogliere. No: solo un problema di codice penale o poco più. E in ogni caso, male che vada, un'occasione d'oro per lucrare un po' di consenso mettendo sotto accusa chi si trovasse a pensare che le cose, come spesso capita, sono invece un po' più complicate.
«Corriere della Sera» del 24 aprile 2013

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