26 agosto 2012

Islam, la paura del dialogo

Le chiusure derivano dal timore del contagio occidentale
di Vittorio Messori
Ma come? Invitano il sindaco e si lagnano perché, preso da un altro impegno, non viene e manda un'assessora a rappresentarlo? E poi, quando si consegna loro la lettera del cardinale - scritta per giunta, per cortesia, in arabo - il responsabile del raduno se la mette distrattamente in tasca, dice una parola di ringraziamento altrettanto distratta, ma non l'apre e neanche cita nel suo discorso introduttivo l'arcivescovo? Che logica c'è in quanto avvenuto all'Arena di Milano, tra i diecimila musulmani che festeggiavano la fine del Ramadan?
Beh, almeno nella prospettiva islamica una logica c'è e l'ha spiegata proprio quella sorta di «grande imam» che, nell'occasione, guidava l'assemblea: «Abbiamo invitato a dare un saluto solo le istituzioni pubbliche che rappresentano tutta la città e, dunque, anche noi che vi abitiamo e vi lavoriamo. Ma questa è una ricorrenza religiosa musulmana e dunque non è previsto che parlino i rappresentanti di altre confessioni religiose». E ha aggiunto: «Sarebbe come se noi volessimo salutare i cattolici che, in Duomo, si preparano a celebrare la messa di Natale».
Chi non conosce bene questa realtà, spesso si scandalizza, perché non mette in conto che l'Islam è un «blocco», è una unità impenetrabile che distingue, senza possibilità di relazione, tra un noi e un loro. C'è sì la distinzione tra una schiacciante maggioranza di sunniti e una minoranza (tra un 10 e un 15 per cento, a livello mondiale) di sciiti, una distinzione che tra l'altro non impedisce una sostanziale unità di credo. Ma, al di là di questo, non vi è traccia della pluralità cristiana, della sua diversità di confessioni e, all'interno di questa, di diversi carismi e di diversi impegni: dal cristiano fervente al praticante saltuario, dall'integrista al «cattolico adulto». Nell'Islam o si credono le stesse cose - e le si credono senza esitare, pronti sempre al martirio pur di non rinnegarle - o si è espulsi da una comunità che non accetta distinzioni nella dottrina e tiepidezze nella pratica. Il «blocco» è di tale compattezza che giunge a imporre come dovere religioso escludere, anche con reazioni violente, chi non ne faccia parte e cerchi di intrufolarsi: chi non fosse musulmano e fosse scoperto tra i pellegrini della Mecca passerebbe certamente guai pesanti. Ma avrebbe grossi problemi anche l'intruso in una qualunque moschea, alla preghiera del venerdì. Il mondo intero è distinto in due: la «terra dei credenti» e la «terra degli infedeli», e dovere di ogni credente è diminuire la superficie di quest'ultima.
Compattezza sociale e fermezza su una dottrina elementare (schematizzata in soli cinque precetti giuridici cui obbedire) sono state per più di mille anni la forza di questa religione, ma rischiano ora di costituirne la debolezza. Già verso la fine dell'Ottocento Ernest Renan, che conosceva l'arabo, che aveva soggiornato in Medio Oriente, che aveva letto e meditato ogni testo musulmano, non aveva dubbi: «L'islamismo può esistere solo come unica religione: e non come religione di Stato, bensì come Stato esso stesso. Quando l'Occidente lo costringerà a trasformarsi in religione libera, individuale, spirituale, vissuta famiglia per famiglia e non nel grande clan o nella folla della moschea, l'islamismo perirà».
Ovviamente, le previsioni degli «esperti» vanno prese non dimenticando mai che la Storia è l'imprevedibile per eccellenza. Ma è indubbio che la fede annunciata da Muhammad è chiamata proprio ora a raccogliere la sfida decisiva lanciata da Renan più di un secolo fa. L'attuale migrazione verso Occidente è rischiosa innanzitutto per «loro» e niente è più fallace dello scambiare come prova di forza e di vigore giovanile certa aggressività musulmana. È il timore, semmai, che spiega perché le folle forgiate dal Corano tendano a ritornare all'integrismo, all'intransigenza, in qualche caso al terrorismo. È l'inquietudine che spiega perché l'accusa di «modernismo», di «occidentalizzazione» costringa, come ora in Nord Africa e in Medio Oriente, intere caste politiche all'esilio, con l'avvento di maomettani puri e duri.
In fondo, anche la scortesia (o, in una lettura benevola, l'equivoco o la gaffe) di domenica all'Arena milanese si inquadra in questa preoccupazione di preservare la compattezza del «blocco», vivendo in una società che ne è l'esatto contrario, tanto da essere stata definita come «liquida». Come a dire: qui ci siamo «noi»; e noi non vogliamo voci di altri, ci basta che i politici ci confermino che in questa città possiamo stare e rafforzare tranquilli la nostra unità di fede e di costumi. Il dialogo? Che bisogno ce n'è, per noi che abbiamo l'ultima rivelazione, quella definitiva, quella che ha fatto di Mosè e di Gesù solo dei precursori e degli annunciatori di Muhammad, l'ultimo, insuperabile Profeta?

«Corriere della sera» di agosto 2012

I nuovi peccati contro la società

Crimine organizzato, frodi, danni all'ambiente: il male è una minaccia per la convivenza

di Vincenzo Paglia

Domenica scorsa su «la Lettura» del «Corriere della Sera» Armando Torno ha proposto una riflessione il cui titolo affermava: «La fine del peccato». La prima reazione che ho avuto è che una notizia come questa celasse una vera e propria tragedia. Purtroppo non sono finiti i peccati, ma quel che sembra estinguersi è la coscienza del peccato. Per questo ho sentito l'urgenza di una mia, seppure limitata, riflessione.
A volte non siamo consapevoli delle conseguenze drammatiche di situazioni che possono sembrarci normali. In verità, se si cancella la coscienza del peccato, si aboliscono i confini di bene e male. E non avremmo, per fare un esempio, quell'indimenticabile grido di Giovanni Paolo II ad Agrigento contro i mafiosi che dovranno rispondere a Dio del «peccato di mafia» (e, si badi bene, non è questione solo di legalità o illegalità!). Il peccato rimanda sempre al rapporto con Dio. Non si tratta infatti dell'infrazione a una legge, ma di una ferita - grave o meno grave - al disegno della creazione.
Il peccato è una questione d'amore e obbedienza. È emblematico quello di Adamo ed Eva, che non a caso chiamiamo «originale». Il «peccato della mela» non riguarda la sessualità come spesso si pensa, ma è l'orgoglio dell'«io» umano che vuole mettersi al posto di Dio. I due progenitori si lasciano incantare dalle suggestioni del serpente di turno e disobbediscono all'Altissimo e al suo disegno d'amore. L'agiografo biblico ne descrive le drammatiche conseguenze: Adamo ed Eva si ritrovano nudi, ossia senza più la compagnia di Dio, senza più la fiducia tra loro, senza più l'armonia con il creato. Insomma, il peccato è una cosa davvero seria. E vale la pena rifletterci anche nel cuore dell'estate.
Il peccato non è mai una questione puramente individuale (quante volte si pensa che facendo certe azioni peccaminose non si fa male a nessuno!), ha sempre una dimensione «sociale». Come l'amore. Per questo la «sede» del peccato non è mai esterna all'uomo ma è nel suo cuore. C'è un bellissimo cenno nel libro della Genesi (4,7): «Il peccato è sempre accovacciato alla tua porta». In questo senso il metro per giudicarlo non è, come dire, una sorta di «democrazia referendaria», come se il peccato fosse in balìa delle mentalità ricorrenti, perché trova il suo criterio nel confronto con l'amore di Dio. Questo appare nella Scrittura e, in termini semplificativi, nei Dieci Comandamenti. Certo, può accadere che a volte vengano sottolineati alcuni peccati mentre altri siano messi sullo sfondo. Per fare un esempio, c'è stato un periodo in cui quelli contro il Sesto Comandamento, ovvero di natura sessuale, sembravano avere invaso tutto il campo. Ricordo con simpatia un amico che mi diceva: «Se il Padre Eterno l'ha messo per sesto e non per primo, qualche ragione l'avrà avuta». Oggi, al contrario, il peccato contro il Sesto Comandamento l'abbiamo emarginato.
Credo sia importante ripartire dal Primo Comandamento, ossia il primato di Dio nella nostra vita. L'insidia più grave che vedo e della quale si ha poca consapevolezza, è il nuovo primato dell'«io», un egoismo strisciante ma onnipresente che sta avvelenando e sgretolando il «noi» della famiglia, della società e dei popoli e persino della medesima comunità ecclesiale. In questo senso è anche comprensibile il giusto scandalo che provocano tutti quei peccati che attentano al vivere comunitario. Ho già accennato al peccato di mafia, possiamo ricordare lo scandalo - purtroppo non denunciato con vigore - dell'oppressione dei più deboli in un mondo dove i poveri sono in aumento; inoltre i peccati contro la pace, che alimentano le guerre. Alcuni vescovi hanno ricordato che l'evasione delle tasse è peccato, perché è un ladrocinio contro i più bisognosi. E in un tempo di crisi è una grave omissione non sentire la responsabilità di impegnarsi per il bene di tutti, ripiegandosi a difendere solo il proprio. Finalmente ci si è accorti che il non rispetto della natura pregiudica la vita delle generazioni future e anche di molte presenti (l'inquinamento che causa malattie, la mancanza di acqua potabile per una parte della popolazione mondiale, eccetera). Ma attenzione! Non dovrebbe crescere di più la preoccupazione anche per l'inquinamento morale, per l'asfissia di orizzonti solidali, per la facilità con cui viene soppressa la vita al suo inizio e alla sua fine? E quante volte viene umiliata durante il suo corso? L'elenco potrebbe continuare e dovrebbe quindi essere chiaro che il peccato è sempre un'azione contro Dio, contro gli altri e contro se stessi.
Nel Credo noi affermiamo la «remissione dei peccati». Gesù li ha «presi su di sé», ovvero ha tolto il peso del peccato dalle nostre spalle: è questo quanto accade nella confessione. Anche se oggi tale sacramento è disatteso, complice a volte anche il managerismo pastorale di non pochi preti, resta tuttavia un'ancora straordinaria di salvezza. In una società ove il perdono è sempre più raro, la concretezza di un incontro in confessione mostra la realtà del perdono; inoltre insegna all'uomo che la debolezza non è una condanna senza appello e che è possibile gettare la maschera, quella che è indossata ogni giorno per difendersi. Ammettere le proprie debolezze è anche un grande atto di coraggio. Mi ha fatto sempre pensare quell'affermazione di Gesù: non sono venuto per chiamare i giusti ma i peccatori (Marco 2,17). Lo ha detto contro il bigottismo dei benpensanti e l'autosufficienza degli orgogliosi. Siamo tutti deboli. Tutti bisognosi di perdono.
Il confine tra bene e male è stabilito dall'amore. È in questa prospettiva che si può comprendere l'affermazione di Gesù rivolta alla peccatrice, «le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato» (Luca 7,47). Il cristianesimo ha sfidato e sfida il peccato con l'amore. Dove esso manca, prosperano i segni di divisione e di conflitto che rendono la società più amara e violenta. I peccati del futuro nasceranno da qui: si diventa complici della lacerazione della società di domani. Dostoevskij ha notato che «se non ci fosse Dio, tutto sarebbe permesso». In questa sua osservazione c'è la perfetta diagnosi del peccato di oggi, di una società che ha perso il senso di Dio e quindi non riconosce più il bene e il male. Non è un caso che Benedetto XVI, consapevole di questa drammatica situazione, abbia voluto scrivere la sua prima enciclica riproponendo agli uomini il primato di Dio come amore.

* Presidente del Pontificio consiglio della famiglia, vescovo emerito di Terni, consigliere spirituale della Comunità di Sant'Egidio


«Corriere della sera» - Suppl. La Lettura di agosto 2012

21 agosto 2012

Karl Popper sulla scuola


A vent'anni sognavo di poter un giorno fondare una scuola in cui si potesse apprendere senza annoiarsi, e si fosse stimolati a porre dei problemi e a discuterli: una scuola in cui non si dovessero sentire risposte non sollecitate a domande non poste.

Tratto da La politica La scienza La scuola, Armando, Roma 1997, p. 107
Postato il 21 agosto 2012

20 agosto 2012

La venerabile Maria Cristina di Savoia, regina oscurata dalla ragion di Stato

di Franco Cardini
Vogliamo cominciare, magari per scherzo, a tirare le fila e le somme del celebratissimo centocinquantenario dell’Unità d’Italia? Di retorica se n’è fatta molta; di ricerche storiche serie, forse, un po’ meno: ma questa è in casi del genere più la regola che l’eccezione. Quel ch’è stato triste, soprattutto, è l’aver perso un’occasione. L’Italietta uscita dall’Unità non riuscì a dominare la situazione ch’essa stessa aveva determinato: avrebbe dovuto procedere a una grande riforma agraria e invece provocò una valanga di quasi quindici milioni di emigranti; varò una scellerata politica coloniale fatta di sconfitte, di false partenze e di frustrazioni; fu causa non ultima, con la spedizione in Tripolitania e in Cirenaica, che si ripercosse sulla stabilità balcanica, della Prima guerra mondiale; frustrata per una falsa vittoria, produsse il prototipo delle grandi dittature del Novecento e generò la Seconda guerra mondiale; provò a ripartire, e i frutti furono gli Anni di piombo, la Seconda Repubblica che non si sa se è mai cominciata o già finita e la crisi attuale. Non sarebbe stato il caso di chiedersi serenamente che cosa non ha funzionato o che senso aveva avuto il passare dall’alleanza francese a quella inglese e quindi a quella tedesca, salvo poi il voltafaccia del 1915? Invece, il conformismo e la dissimulazione hanno vinto. Va tutto bene, bandiere al vento e patriottico zumpapà.
Eppure, fra 2009 e 2011 non eravamo partiti male. Per esempio, avevamo cominciato col chiederci se davvero la scelta unitaria era l’unica, se il federalismo di Gioberti e di Cattaneo erano poi strade così impraticabili. Qualcuno si era domandato se i governi dei vari Stati preunitari erano poi davvero così inetti o così feroci: a cominciare da quello del papa-re. Quelle voci sono state frettolosamente zittite. Si è preferita la strada della retorica conformista. E così, una volta data una risposta retorica e astratta ai problemi che il Risorgimento aveva lasciato aperti, si è dovuto tacere sulla domanda posta dai fallimenti successivi. E allora a bocce ferme, come si dice, bisognerebbe ripartire dall’esame di questi Stati italiani preunitari e dai loro protagonisti. E forse ci aspetterebbero delle sorprese. Anche sul piano dei personaggi minori. Come ad esempio Maria Cristina di Savoia, della quale il 14 novembre prossimo potremmo celebrare il secondo centenario della nascita: e almeno i piemontesi, i sardi, tutti i meridionali nonché in genere i cattolici dovrebbero farlo: perché questa ragazza immaturamente scomparsa a ventiquattro anni da regina delle Due Sicilie, spirata in odore di santità e a proposito della quale esiste una causa di beatificazione ancora aperta, è pur degna di essere ricordata più di tanti utopisti, politici spregiudicati e avventurieri che hanno fatto l’Italia. Perché mai per esempio tanto schiamazzo attorno a Virginia Oldoini contessa di Castiglione, meritevole soprattutto di aver accordato le sue giovani grazie a Napoleone III, e attorno a Maria Cristina invece tanto silenzio, rotto soltanto dal libro La reginella santa che gli dedicò nel 2000 Luciano Regolo?
Maria Cristina di Savoia era figlia secondogenita di Vittorio Emanuele I (1759-1824, re di Sardegna tra 1802 e 1821) e di Maria Teresa d’Asburgo-Este (1773-1832). Il re di Napoli Francesco I l’aveva presa in considerazione come possibile sposa per il proprio figlio Ferdinando (futuro Ferdinando II), insieme ad altre candidature. Sembra che già dal 1817 si fosse pensato a un’unione, quando Ferdinando aveva sette anni e lei cinque. Ferdinando si affezionò all’idea delle nozze, ancor prima di salire al trono nel 1830; ma vi erano perplessità da parte della madre di lei, sia per notizie poco rassicuranti sulla salute del principe napoletano (soffriva di epilessia) sia per oscuri e funesti presagi. Ferdinando poteva però contare sull’appoggio di Carlo Alberto, a sua volta re di Sardegna dal 1831. Alla fine, dopo tira-e-molla diplomatici di varia natura, ma soprattutto dopo la morte della madre, Maria Cristina (pressata da Carlo Alberto e dal confessore della defunta genitrice, padre Terzi) vinse gli scrupoli religiosi per il matrimonio e accettò. Aveva detto più volte di preferire alle gioie e alla pompe del mondo il ritiro nel chiostro e la pace del cuore, specie dopo la morte della madre. Finalmente, il 21 novembre 1832, avvenne a Genova il rito religioso. Per la verità, secondo Harold Acton, «Quando fu l’ora di vestirsi per la cerimonia (Maria Cristina) scoppiò in lacrime e le sue dame non sapevano in qual modo confortarla. Maria Cristina rispose che non poteva cacciare da sé il terrore del matrimonio, per il quale non aveva la minima inclinazione». Poi però, per tutta la cerimonia, tenne un contegno perfetto. Il suo riserbo e la sua misura meritarono l’elogio che il giovane conte Camillo di Cavour le dedicò in una lettera. Contrariamente a quanto in seguito si disse, soprattutto quando montò la leggenda nera contro Ferdinando, l’unione fu nel complesso piuttosto felice.
Certo, il carattere dei due era diverso: timida e riservata lei, esuberante e vitale lui; ma in un certo senso si completavano a vicenda. Grazie alla sua influenza, il re incrementò il suo impegno nella direzione delle opere di carità. Tranne i “liberali” più estremisti, il consenso e la simpatia nei confronti della giovane regina erano unanimi; ma gli scontenti l’accusavano di essere bigotta, superstiziosa, soggetta al controllo dei gesuiti, strumento della reazione clericale e monarchica in quanto pegno dell’alleanza tra Savoia, Borboni e Asburgo (sua sorella maggiore, Maria Anna, era andata sposa all’imperatore Ferdinando I d’Austria). Dopo tre anni di matrimonio, la mancanza di un figlio faceva soffrire Maria Cristina, che pregava senza posa per ottenere quella grazia. Finalmente, nel 1835, avvertì il sorgere della gravidanza. Passò gli ultimi mesi nella reggia di Portici ch’era luogo più sereno di Napoli: ma forse presagiva qualcosa. All’avvicinarsi del parto scriveva alla sorella: «Questa vecchia va a Napoli per partorire e morire». Purtroppo era vero: infatti l’erede al trono nacque il 16 gennaio e già il 29 Maria Cristina era morente per complicazioni sopravvenute dopo il parto. Prendendo in braccio il tanto atteso piccolo Francesco (futuro Francesco II) e porgendolo al re suo marito, disse: «Tu ne risponderai a Dio e al popolo… e quando sarà grande gli dirai che io muoio per lui». Il 31 gennaio 1836 in piena comunione con Dio, la sovrana si addormentò per sempre. I solenni funerali furono celebrati l’8 febbraio e il suo corpo fu tumulato nella basilica di Santa Chiara. Il dolore del re per la morte della sposa fu vivissimo e del tutto sincero.
La fama di pietas di Maria Cristina si consolidò nei decenni successivi: nota era, fra l’altro, la sua devozione alla Vergine Maria. Fu istruito un processo di canonizzazione: e sembra che tra i documenti vaticani raccolti per la circostanza vi siano anche tracce di qualche probabile miracolo. Ma, dopo l’Unità d’Italia, le circostanze politiche e le pressioni anticlericali non favorivano certo l’elevazione sugli altari di una regina. per giunta borbonica. Più tardi, nel 1937, Pio XI ne dichiarò eroico l’esercizio delle virtù cristiane autorizzandone il culto come “venerabile”. Poi tutto si fermò. C’è da chiedersi se, dopo tanti anni di silenzio, non sarebbe il caso di riprendere il discorso ora che la situazione è molto mutata e di riavviare la causa di beatificazione. Il bicentenario della nascita potrebbe essere una buona occasione.
«Avvenire» del 20 agosto 2012

Diritti umani sempre relazionali

La complementarietà uomo-donna
di Francesco D'Agostino
Ben due manifestazioni di donne si sono svolte a Tunisi, nei giorni scorsi, per protestare contro la proposta di introdurre nella nuova Costituzione tunisina, che potrebbe entrare in vigore subito dopo l’estate, un nuovo articolo – il 28 – che dopo aver ribadito che lo Stato si fa carico della protezione dei diritti delle donne, ne individuerebbe il fondamento «nel principio di complementarietà [della donna] con l’uomo in seno alla famiglia». Questo articolo, sostengono i suoi critici, farebbe fare un grosso passo indietro alla parità tra i sessi, perché non farebbe menzione del principio di eguaglianza e ricondurrebbe l’identità femminile a un esclusivo ruolo «familiare».
Sono fondate queste critiche? Forse sì, ma solo se riferite a un contesto islamico oscurantista (che non sembrerebbe essere quello tunisino). Sappiamo, infatti, che lo statuto giuridico della donna in diversi Paesi a maggioranza musulmana è gravato di molte ambiguità, peraltro per la maggior parte di natura non religiosa, ma storico–culturale. Parlare di complementarietà uomo–donna merita indubbiamente un’esplicita condanna, se attraverso questa espressione si vuole subdolamente veicolare l’idea che la donna, nel contesto sociale e in quello familiare, è e deve essere subordinata all’uomo: un’idea non solo storicamente superata, ma antropologicamente indifendibile. Se però prendiamo le distanze da questo contesto e riflettiamo sulla valenza antropologica generale di questa contestata espressione «complementarietà», vediamo come essa meriti una lettura più ariosa e molto più interessante. Basta infatti rilevare come la complementarietà, ogni complementarietà, sia sempre reciproca. Infatti, se la donna è complementare all’uomo, l’uomo non può che essere a sua volta complementare alla donna e ciò comporta che solo nel rapporto tra i due, e non nelle loro singole individualità sia pur coniugali, si rivela pienamente il significato e il valore della differenza sessuale.
Nella tradizione ebraico-cristiana e nell’antropologia che su questa tradizione si fonda su questo punto non è possibile aver alcun dubbio: nella Genesi, 2.24, si allude alla complementarietà come a un vero e proprio mistero, attraverso la famosissima espressione: «L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne», espressione che è ripresa con forza da Gesù (Mt19,6). Ma anche in una prospettiva di mera antropologia culturale l’unione coniugale uomo–donna appare imprescindibile, perché simbolicamente fondante l’ordine sociale, sia pure attraverso mille varianti. Il tentativo, tutto moderno, di ridurre ai minimi termini la valenza del rapporto coniugale (se non addirittura di rimuoverlo) è quindi un segnale antropologicamente preoccupante, perché è solo nella famiglia e grazie alla famiglia, in cui uomo e donna si realizzano come «complementari» (cioè alla famiglia fondata sul matrimonio), che si garantisce l’ordine delle generazioni, l’educazione e l’inserimento sociale dei giovani, la cura dei malati, l’assistenza agli anziani. Che l’uso dell’espressione «complementarietà» crei tanta irritazione nelle donne tunisine può quindi avere le sue ragioni, ma si tratta di ragioni per così dire “localizzate”, che non possono essere “esportate”. Meno che mai dovremmo prendere lo spunto dal dibattito tunisino sul ruolo della donna per rivendicare un’ottusa concezione individualistica dei suoi diritti e della sua dignità (e reciprocamente dei diritti e della dignità degli uomini).
Dovremmo ormai aver definitivamente capito che i diritti umani non vanno mai rivendicati come individuali, ma sempre come relazionali. Dovremmo quindi convincerci che soprattutto nelle società occidentali avanzate il tema della complementarietà uomo–donna va rivitalizzato e riproposto come la chiave essenziale per tornare a tematizzare in modo sensato gli equilibri interni dell’esperienza familiare. In un momento storico come quello attuale in cui, quando si parla di famiglia, sembra che non si sappia più esattamente di cosa si parla, l’idea di complementarietà potrebbe tornare a rivelarsi particolarmente preziosa.
«Avvenire» del 19 agosto 2012

15 agosto 2012

La scuola malata e i prof che resistono per passione

di Giorgio Paolucci e Anna Frigerio
Professione insegnante: se si lasciasse libero sfogo agli aspetti negativi o problematici, la lista non finirebbe mai. Pagati poco (stipendi inferiori del 40% rispetto alla media europea), costretti a fare i conti con una progressiva burocratizzazione del loro ruolo e con una mortificazione della libertà di insegnamento, spesso condannati a un precariato che non dà certezze per il futuro, inseriti in un contesto che non premia il merito, con un prestigio sociale in caduta. E alle prese con giovani sempre più difficili o che gettano la spugna: nel 2010 in 195mila (il 31 per cento del totale) hanno abbandonato le scuole superiori, la maggior parte nei primi due anni.
Per un insegnante, uno studente che lascia è sempre una sconfitta. Le percentuali degli abbandoni sono in calo ma comunque a livelli superiori alla media europea, e rivelano un disagio che non ha solo motivazioni economiche o sociali. Il 38% dei quindicenni italiani ritiene la scuola un luogo dove non si ha voglia di andare. Quando insorgono difficoltà di apprendimento, gli strumenti di recupero istituzionali risultano per lo più inefficaci, per cui le famiglie ricorrono in maniera massiccia alle ripetizioni private, con una spesa che si stima superi i 430 milioni di euro l’anno.
Il contesto, come si vede, è sconfortante, e fa nascere più di una domanda sulle reali possibilità di guarigione di questo “grande malato”. Eppure, nella stragrande maggioranza i “prof” non si arrendono e si cimentano in una sorta di rivincita personale e professionale più forte di tutte le difficoltà con cui si devono misurare ogni giorno. Secondo un recente sondaggio, il 78% sceglierebbe di nuovo l’insegnamento, con motivazioni che riguardano, nell’ordine, il rapporto con gli studenti, la passione per l’insegnamento, la possibilità di essere creativi, il rapporto con i colleghi. Come dire: gli ostacoli che nessuno può negare, non riescono ad avere la meglio sulla passione per l’educazione, sul desiderio di costruire.
C’è chi rimane convinto che questo sia uno dei mestieri più belli. Perché più di altri ha a che fare con l’umano, con ciò che abita le profondità della mente e del cuore, come confermano le testimonianze che pubblichiamo in questa pagina, alcune delle quali vengono presentate nella mostra centrale del Meeting di Rimini (19-25 agosto, “L’imprevedibile istante. Giovani per la crescita”, promossa dalla Fondazione per la sussidiarietà, e di cui Avvenire è mediapartner). E a dispetto di tutto il male che si può dire e si dice della scuola, sono migliaia i giovani che aspirano a entrarci, come dimostra la massiccia affluenza alle selezioni per l’accesso ai Tfa, i tirocini attivi, che tante polemiche ha generato nei giorni scorsi per la farraginosità dei test proposti dal ministero dell’Istruzione. Non sono (solo) giovani disoccupati in cerca di un posto purchessia, ma in molti casi persone animate da quella passione per l’educazione che è il cuore dell’insegnare. E che potrebbero svecchiare un corpo docente dove attualmente solo lo 0,2 per cento ha meno di trent’anni.
Che fare per curare il “grande malato”? In questi anni al suo capezzale si sono avvicendati in molti, spesso con ricette antitetiche, mentre per un ambito così strategico per il presente e il futuro del Paese sarebbe necessario un impegno trasversale e capace di uno sguardo lungo. Tra gli ingredienti irrinunciabili di qualsiasi riforma che abbia l’ambizione di produrre frutti duraturi ci devono essere l’impegno per una riduzione dell’abbandono scolastico, il rilancio di una reale autonomia degli istituti, l’attuazione di un sistema che sia paritario anche sotto il profilo economico per dare alle famiglie un’effettiva facoltà di scelta, una riformulazione delle carriere basate sul merito, una revisione radicale dell’abilitazione e del reclutamento… Ma soprattutto servono insegnanti motivati, che abbiano il coraggio e la passione necessari per cimentarsi con la difficile e affascinante sfida dell’educazione. Una sfida che può partire solo dalla consapevolezza dell’irriducibile positività dell’io, risorsa fondamentale per non farsi scoraggiare dagli acciacchi del “grande malato” e per accompagnare i giovani nell’avventura della conoscenza.

«PRECARIATO E STIPENDIO BASSO NON MI FERMANO»
Sono un neolaureato in Filosofia a Macerata. Non ho mai scartato l’ipotesi di intraprendere la professione di insegnante. All’inizio dell’università consideravo questa scelta come un ripiego alla carriera accademica. Poi le varie ripetizioni che ho svolto per pagarmi gli studi, gli incontri organizzati per aiutare gli studenti delle superiori per la maturità, mi hanno fatto capire che fare l’insegnante, oltre a essere interessante, fosse anche decisivo per la formazione delle coscienze dei ragazzi. Queste esperienze hanno confermato quello che già avevo intuito al Liceo. La filosofia non è astratta, separata della vita. Essa nasce dalla vita e cerca di chiarirla. Ciò è stato chiaro fin da quando ho conosciuto i primi filosofi naturalisti: come non meravigliarsi di chi per primo pone il problema dell’origine del cosmo? E, andando avanti con gli studi, come non rimanere stupiti da Agostino, dove l’asse portante del suo pensiero è la sua stessa esperienza? Ero divenuto problema a me stesso recita un passaggio della Confessioni: niente è più vicino all’inquietudine e alla baldanza che caratterizzano l’adolescenza. È stato grazie a queste letture che ho smesso di seguire strane compagnie che cercavano di farmi credere che il vuoto che uno ha dentro lo colma con delle sostanze. È con questa consapevolezza che ho deciso di intraprendere la strada tortuosa e kafkiana del Tfa. Ho chiaro tutte le difficoltà cui andrò incontro: precariato, stipendio da fame, un lavoro che non gode più del prestigio che aveva in passato. Eppure questo non mi basta, perché io non cerco e non chiedo questo alla vita. Vorrei far conoscere ai ragazzi quello stupore e voglia di vivere che ho incontrato attraverso la filosofia; stupore e meraviglia non acquisibili attraverso Wikipedia o tecniche pedagogiche, ma solamente nel rapporto tra discepolo e maestro di socratica memoria. (Gabriele Codoni, Macerata)

«IL DE BELLO CIVILI E L'IMPREVEDIBILE ISTANTE CHE HA COMMOSSO ME E I MIEI STUDENTI»
Insegno lettere al ginnasio in un liceo statale milanese da 15 an­ni e la mia esperienza di insegnamento, sempre in licei classici, conta ormai 25 anni. Molti sono i momenti in cui ho potuto gu­stare la bellezza di questo lavoro che amo e che non finisce di ap­passionarmi. Una bellezza alla quale non sono estranei difficoltà, fa­tiche e insuccessi, ma che permane come percezione ultima. Vi so­no poi circostanze in cui lo spettacolo di un «io» in azione si svela in tutta la sua imponenza nella quotidiana attività scolastica. Ecco un paio di episodi.
In una quinta ginnasio, dove insegno latino, quest’anno ho dedica­to un’ora settimanale a un’esercitazione di traduzione a prima vista, ovviamente senza il dizionario. Un giorno ho propo­sto una novità: tradurre un passo di Cesare dopo a­verlo sentito leggere da me, senza avere il testo sotto gli occhi. Hanno comprensibilmente opposto una cer­ta resistenza che è stata tuttavia vinta dalla fiducia che ho dimostrato di avere nella loro possibilità di farcela.
Così, in tre quarti d’ora traducono una quindicina di righe del De bello civili con una proprietà di linguag­gio impressionante. Grandissima la soddisfazione. E al­lora rilancio la sfida: ricostruire a memoria il testo la­tino con il libro chiuso, loro e io insieme. Per una de­cina di righe, grazie al contributo di tutti, l’operazione riesce. Ma poi la memoria ci abbandona e anch’io, che avevo il vantaggio di avere letto il testo, non ricordo, manca qualcosa... Dopo vari tentativi fac­cio il gesto di riprendere il libro per leggere ma vengo fermata da un coro di voci: «No prof, non si arrenda!». Mi sono commossa: quei ra­gazzi mi avevano superato e nel contempo mi chiedevano di non venire meno al fatto di essere più di loro: un maestro, appunto. Era un «imprevedibile istante» che ci aveva mosso.
Altro episodio, sempre in una quinta ginnasio dove insegno italia­no. Al suono della campanella dopo l’intervallo mi avvio verso la mia classe dove era in programma la lettura del terzo libro dell’E­neide. Vengo però invitata da alcuni studenti a rimanere fuori dalla classe per qualche minuto. Invitata poi a entrare, mi si presenta u­no scenario imprevedibile: una ragazza legge il secon­do libro (il bellissimo racconto che Enea fa alla reggia di Didone della notte in cui viene distrutta Troia) con l’accompagnamento musicale di due compagni alla chitarra e al violino. Nel silenzio compreso in cui tutti seguivano la lettura, mi sono commossa per il grado di immedesimazione di quei ragazzi. Ho poi chiesto chi fosse l’autore del brano musicale. Immaginatevi la sor­presa quando mi sono sentita rispondere dal chitarri­sta: «Prof, l’ho composto io!».
«Avvenire» del 13 agosto 2012

11 agosto 2012

E-reader. La tecnologia a inchiostro elettronico ora anche touch

di Luca Tremolada
Leggere con le dita o con gli occhi? Scegliere il negozio online dove si comprano i libri o privilegiare la versatilità tecnologica dello strumento che serve per leggerli? Ad archiviare l'annosa diatriba tra libri elettronici e libri di carta per fortuna ci ha pensato il mercato che ha sdoganato definitivamente l'ebook.
Secondo l'ultimo rapporto Aie (Associazione italiana editori), la crisi ha contribuito a mettere sotto pressione l'industria tradizionale spingendo le vendite di ereader, triplicando i lettori di ebook (nel vero senso della parola) e l'offerta di titoli. Addirittura, secondo l'Associazione degli editori statunitensi (Aap), nel 2012 il fatturato degli ebook ha superato quello legato alla vendita del corrispettivo cartaceo.
Per l'"affezionato" lettore di libri questa piccola rivoluzione pone però un dilemma tecnologico a cui il mercato non sa ancora rispondere. Scegliere un ereader classico, con inchiostro e-ink (si legge come sulla carta, non è retroilluminato e quindi non ha riflessi) o ci si affida a un tablet (iPad, Samsung Asus) e quindi a uno strumento nato non solo per la lettura ma per la fruizione di contenuti multimediali? Per dirla in altro modo, è meglio un prodotto leggero, ma poco versatile, come gli attuali ereader che con una spesa di 100-140 euro svolgono il loro mestiere ovunque, oppure adattarsi ai display illuminati, ma poter anche lavorare, guardare film o stare sui social network?
Gli amanti della lettura in spiaggia o all'aperto hanno ancora pochi dubbi. L'inchiostro elettronico con 16 toni di grigio è riposante come foglio di carta stampata. Per tutti gli altri, fino a pochi schermi fa non c'era gara. Ora però (si legga l'articolo in basso) qualche incertezza in più c'è. Anche perché gli stessi ereader stanno provando a convergere verso il tablet. Le quattro tavolette da lettura (tutte da sei pollici con display touch) che abbiamo scelto rappresentano proprio quattro direzioni diverse che stanno prendendo questi dispositivi. Il Kindle touch, per esempio, non è solo la concessione tattile di Amazon al suo pubblico di lettori, ma una macchina ben progettata con alle spalle il più grande negozio di libri online con ambizioni che vanno oltre all'e-commerce.
Ha una limitata compatibilità di formati, ma il progetto di Amazon – magari quando arriverà a produrre gli schermi e-ink a colori – guarda oltre il tablet per lettori. Il suo vero rivale arriverà in autunno. Il modello provato è stato acquistato in Usa. Si chiama Kobo Touch, all'estero è ritenuto il miglior ereader low cost (99 euro), sarà "accompagnato" da Mondadori con cui ha stretto una partnership con una dote di 4mila libri in italiano. Ad aspettarlo c'è anche Leggo di Ibs, che è il miglior esempio nazionale di lettore-prodotto nato da un negozio online (ora anche offline). Più degli altri ha una discreto servizio di sintesi vocale. Più tecnologico e meglio rifinito è invece il lettore di Sony. Da un annetto sul mercato è ancora quello meglio progettato.
«Il Sole 24 ore - Suppl. Nòva» del 29 luglio 2012

"Niente sconti? Ti rovino sul web". Quante cyber-recensioni fasulle

Il 60% dei turisti le consulta per scegliere dove mangiare e dormire ma un terzo è falso. E i siti che tutelano le "vittime" dai finti commenti sono davvero pochi
di Roberta Pasero
«Si può perdonare tutto tran­ne che una buona reputazione». Altri tempi. Oggi i frequentatori del web non la pensano come Oscar Wilde, tanto che una delle maggiori preoccupazioni dell’era internettiana è quella di avere una buona reputazione, almeno on line.
«Nell’era digitale la repu­tazione non è più soltanto un con­cetto filosofico, ma qualcosa che rimane scalfita nel web per sem­pre. Ognuno di noi ha una sua car­ta d’identità digitale che, magari senza saperlo, viene macchiata dai contenuti pubblicati da anoni­mi su motori di ricerca, Facebook, blog, su 30 miliardi di pagine web», spiega Andrea Barchiesi, amministratore delegato di Repu­tation manager, società che ana­lizza l’immagi­ne on line aiu­tando aziende e professioni­sti a non perde­re la cyber repu­tazione.
«Su in­ternet- raccon­ta l’ad- la verità non esiste, così come la riserva­tezza. Tutti pos­sono­cadere vit­time di un abu­so dei dati per­sonali. Per esempio chi cerca un posto e vede il pro­prio profilo sbattuto in rete e dunque visibi­le dai futuri da­tori di lavoro, oppure chi ha la sua reputazione distrutta per una foto o un video pubblicato per vendetta com’è ca­pitato a Belen con il suo filmato hot messo in rete da un ex fidanza­to ».E poi c’è chi ha mandato infu­mo la carriera per commenti inopportuni scritti su Facebook cre­dendosi invisibile, com’è capita­to alla dipendente della Danieli, società di forni industriali per l’ac­ciaio, che per aver scritto qualco­sa tipo “Che noia una giornata in Danieli” è stata licenziata.
Uno dei settori più in crisi di identità digitale è il turismo. Qui tutto può accadere, tra giudizi fal­si positivi e recensioni finte negati­ve pubblicate nei portali di viaggi, Com’è capitato in Gran Bretagna dove sono state sbugiardate le recensioni negative di Helen Griffi­ths, su TripAdvisor, una delle più influenti community di viaggio, e su molti altri siti gastronomici, che riguardavano il ristorante «The Good Life» aperto da una ri­vale in amore a Shrewsbury. È sta­ta la polizia postale a smascherar­la e a costringerla a pubblicare sul Times l’ammissione di colpa:«Ho scritto i miei giudizi negativi sen­za essere mai entrata in quel ristorante e dunque senza avervi mai mangiato». E pensare che proprio TripAdvisor ha come motto «Get the truth, then go» (trova la verità e poi va). «Purtroppo non è così. Ormai almeno il 60 per cento dei turisti consulta le opinioni lascia­te sui portali turistici da altri viag­giatori non sapendo però che un terzo delle recensioni sono false. Il danno è enorme: se tanti giudizi positivi scritti ad arte fanno scala­re a hotel e ristoranti posizioni im­portanti nelle pagine web dando loro visibilità e dunque maggiori probabilità di clienti, le recensio­ni negative possono screditare a tal punto una struttura turistica da portarla al fallimento» spiega Enrico Ferretti, titolare della Se­cret Key, società di web marketing specializzata nel turismo. «Ma a scrivere recensioni negative - con­tinua Ferretti - sono anche i clienti pronti a minacciare pessimi giudi­zi se non ottengono sconti adegua­ti, come capita spesso anche negli alberghi italiani».
Purtroppo sono pochi i siti che cercano di tutelare i ristoratori. Tra questi Booking.comche con­sente di scrivere commenti solo a chi ha acquistato la vacanza attra­verso il loro portale, mentre Tra­velPost spesso verifica che il clien­te abbia realmente soggiornato nella struttura che recensisce.
Ma se ormai la frittata è fatta co­me ci si può rifare una reputazio­ne in rete? «Leggi che tutelino le vittime del web non esistono» spiega Andrea Barchiesi. «Si cer­ca, perciò, di rimediare al danno, studiando il posizionamento dei contenuti lesivi o falsi nei motori di ricerca e anche la strategia mi­gliore per isolarli. Poi si richiede la rimozione al sito o la pubblicazio­ne di una rettifica quando si tratta di informazioni scorrette».Nel set­tore turistico, invece, è più compli­cato: «un esempio positivo arriva dalla Francia dove il tribunale ha condannato i siti turistici on line Expedia, TripAdvisor e Hotels. com a pagare 427mila euro al Synhorcat, il sindacato che rap­presenta operatori alberghieri e ristoratori, per pratiche sleali e in­gannevoli », dice Enrico Ferretti. Insomma a distanza di oltre quat­tro seco­li si deve ancora dar ragio­ne a Shakespeare quando afferma­va: «La reputazione? È una veste effimera e convenzionale, guada­gnata spesso senza merito e per­duta senza colpa».
«Il Giornale» dell'11 agosto 2012

Il guaio della società laica: obbedire alla religione del denaro

La crisi, economica e spirituale: a lezione da Edith Stein
di Pier Luigi Fornari
​Nei timori di guerra economica che affliggono questo nuovo agosto di crisi per l’economia e l’Europa, rischia di passare quasi inosservato agli occhi della stragrande parte della opinione pubblica il 70° anniversario della morte di Edith Stein, vittima del nazismo ad Auschwitz il 9 agosto del 1942, santa che Giovanni Paolo II volle compatrona del Vecchio Continente appena un anno dopo la sua canonizzazione. Eppure oggi questa ricorrenza, per il messaggio che reca con sé, si rivela davvero provvidenziale.
Edith, che sempre si è sentita profondamente tedesca, grazie anche alle sue origini ebraiche ci attualizza l’immagine di una "Germania grande" per cultura e civiltà, allontanando il fantasma della "grande Germania" che inopportunamente ha ricominciato a condizionare il tempo che viviamo e a turbare il nostro immaginario collettivo. La Germania di quelli che, come lei (e si può ricordare, tra l’altro, la sua straordinaria lettera a Pio XI) e come il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer, si opposero con coraggio al nazismo. La Germania che, mezzo secolo più tardi, con la caduta del muro di Berlino è diventata l’emblema della vittoria della libertà sul totalitarismo.
La volontà espressa di santa Edith Stein-Teresa Benedetta della Croce di offrire, come seguace di Gesù, la sua vita per il popolo delle sue origini, è un’ulteriore testimonianza di quanto profondamente la storia europea sia segnata dalla tradizione giudeo-cristiana. L’aver omesso questo riferimento nella Costituzione europea è dannoso, non solo per aver alimentato un egoismo interno (Stato membro contro Stato membro), ma soprattutto perché ha fatto smarrire il senso della missione universale dell’Europa. Si può parlare di grande filosofia nel caso di Stein, che fu allieva ed assistente di Edmund Husserl, non solo perché ella argomentò con vigore contro la psicologia senza anima del suo secolo, ma anche perché (facendo tesoro della lezione del suo maestro e amico Adolf Reinach) fece emergere vanità e rischiosità di un diritto e una teoria dello Stato incapaci di cogliere la dimensione spirituale presente nelle relazioni sociali. Oggi, infatti, dobbiamo ammettere che, se non siamo in grado di percepire lo spirito presente nel "noi" che costruiamo nelle relazioni con il nostro prossimo, non abbiamo scampo. Se non siamo capaci di vedere tale dimensione spirituale con la stessa evidenza dell’albero di ciliegie che sta nel mezzo del giardino, siamo inevitabilmente condannati ad appoggiarci su un fondamento che tale non è: il denaro. O per usare il gergo dei tecnici: la volatilità dei mercati finanziari.
Qualche mese fa, in un bell’editoriale su Repubblica il filosofo Giorgio Agamben poneva molto lucidamente in connessione la nostra «scarsa fede», la nostra «malafede», con la crisi del credito, e aggiungeva: «Finché dura questa situazione, finché la nostra società che si crede laica resterà asservita alla più oscura e irrazionale delle religioni, sarà bene che ciascuno si riprenda il suo credito e il suo futuro dalle mani di questi tetri, screditati pseudosacerdoti, banchieri professori e funzionari delle agenzie di rating». In positivo si può aggiungere, seguendo l’insegnamento di filosofi come la Stein e Reinach, che alla base del diritto c’è una fondamentale relazione umana: la promessa, e l’accoglienza di tale promessa. La crisi economica, che ha portato il credito a livelli sempre più distanti dalle relazioni umane, non nasce forse dalla progressiva svalutazione dell’importanza dell’impegno reciproco di tali soggetti fondamentali, singoli o collettivi che siano?
La promessa che un creditore fa a un debitore è relazione umana, non è una previsione, né una scommessa su un caotico gioco di bussolotti, sul quale magari influire violentemente con una cinica avidità di denaro, come avviene spesso con i futures. La tedesca Stein scriveva, citando lo spagnolo san Giovanni della Croce, che il più grave danno che si può recare all’anima è «porre il proprio cuore, con la sua essenza più interiore (mit seinem innersten Wesen), nel denaro, invece di porlo come si deve in Dio. Porre il proprio cuore nel denaro, come se non vi fosse altro Dio».
«Avvenire» del 9 agosto 2012

Dante, la prima recensione

di Alessandro Zaccuri
Il nome della donna amata lo rivela Dante, tutto il resto lo sappiamo dai suoi commentatori. Che Beatrice era figlia di Folco Portinari, per esempio, e che suo marito era Simone di Geri de’ Bardi. Un’informazione, quest’ultima, che affiora dalle chiose (annotazioni, potremmo semplificare) di Andrea Lancia, notaio fiorentino attivo nei primi decenni del Trecento e a lungo ritenuto autore dell’Ottimo, il commento che rappresenta una sorta di standard per le prime interpretazioni della Commedia a Firenze. Siamo, per capirci, nello stesso ambiente da cui scaturiranno gli scritti danteschi di Giovanni Boccaccio. «Finora la sua era considerata un’impresa in gran parte innovativa, ma in base alle conoscenze attuali dobbiamo ammettere che Boccaccio, in realtà, arriva quando ormai i giochi sono fatti ed eredita dunque una grande tradizione», spiega Luca Azzetta, lo studioso che ha appena curato una fondamentale edizione critica delle Chiose alla “Commedia" del Lancia (Salerno, 2 volumi di 1.300 pagine complessive, euro 140,00), da lui stesso recentemente scoperte. In questo modo un ulteriore tassello va a inserirsi nel progetto dell’Edizione nazionale dei Commenti danteschi diretto da Enrico Malato. Iniziativa erudita, certo. Ma non solo. «La possibilità di reperire notizie documentarie precise non è l’unico motivo di interesse offerto dai commenti dell’epoca – sottolinea Azzetta –. Attraverso le interpretazioni dei fiorentini, in particolare, siamo in grado di individuare l’orizzonte culturale di Dante, ricostruendo quella che si potrebbe definire la sua biblioteca ideale. Ed è proprio qui che il lavoro di scavo si fa più interessante».
Perché?
«Perché Dante, anche quando legge auctores già noti ai suoi contemporanei, lo fa con uno sguardo personalissimo e geniale. Al punto che, in alcuni casi, i commentatori riconoscono il passo citato nella Commedia, senza cogliere però la sfumatura suggerita dal poeta».
Un Dante più che medievale, dunque?
«L’Umanesimo così come lo intendiamo nasce con Petrarca: la riscoperta dell’antichità, la cura filologica del testo. Eppure è innegabile che, nel momento in cui si sono misurati con la Commedia, i primi commentatori hanno avvertito la necessità di rileggere i classici, praticando così una forma embrionale e diversa, ma efficacissima, di Umanesimo».
Anche se alcune opere antiche torneranno in circolazione solo più tardi?
«Certo, nella Firenze del Lancia l’attenzione non è rivolta alla ricerca di nuovi auctores, come accadrà più tardi; piuttosto va considerata l’importanza dei “volgarizzamenti”, e cioè le traduzioni in volgare di classici (o, spesso, compendi di classici) che ebbero molta fortuna tra Due e Trecento. È un genere letterario che viene incontro alle esigenze di una categoria di lettori che, pur non avendo le competenze necessarie per comprendere il latino, desiderano comunque conoscere le opere latine: Virgilio, Seneca, Ovidio, Cicerone, Boezio, eccetera. Molto spesso a Firenze i volgarizzatori sono notai, cioè persone bilingui, in grado di mediare tra l’ordinarietà della vita di tutti i giorni, che conosce solo il volgare, e la cultura giuridica affidata alla gramatica. Notaio infatti è anche il Lancia, ben noto per le sue versioni di Virgilio, Seneca, ma anche di Agostino e degli Statuti del Comune di Firenze».
In che cosa consiste l’originalità delle sue chiose?
«Andrea ha senza dubbio un orecchio straordinariamente sensibile, che gli permette per esempio di riconoscere nel Palinuro virgiliano il palinsesto su cui Dante costruisce l’episodio di Buonconte da Montefeltro, o di individuare il legame tra il Salve Regina e la celeberrima preghiera mariana di Bernardo nel XXXIII canto del Paradiso. A colpire è inoltre la sua capacità di cogliere il rapporto fra la Commedia e le opere dantesche che precedono la stesura del poema. Quando commenta gli ultimi canti del Purgatorio, infatti, non si smarrisce nella selva di simboli allestita da Dante e tiene a precisare che la Beatrice di cui si parla è la medesima figura storica delle Rime e della Vita nuova. Anche i suoi riferimenti al Convivio sono estremamente precisi e, per di più, condotti sulla base di un testo di qualità eccellente. Ci sono brani che, nelle citazioni del Lancia, risultano assai più corretti di quanto appaiano sulla base dei manoscritti del Convivio oggi conosciuti».
E la controversa “Epistola a Cangrande della Scala”?
«La maggior parte degli studiosi è ormai propensa a riconoscerne la paternità dantesca. Tanto più ora: grazie al Lancia, che la cita esplicitamente nella chiosa al primo canto del Paradiso, sappiamo che almeno dal 1341 a Firenze l’Epistola circolava tutta intera nella forma in cui anche noi oggi la conosciamo ed era attribuita senza esitazione a Dante. È una testimonianza da non trascurare, data la sua eccellente conoscenza delle opere di Dante, forse resa possibile anche dalla frequentazione (non provata, ma possibile e che ci piace immaginare) con i figli dell’Alighieri, Iacopo e Pietro, che furono anch’essi commentatori e interpreti del poema. Per questo credo che sia tempo di tornare a rileggere l’Epistola provando a darne una valutazione più adeguata e serena, alla luce di ciò che dice e dei problemi che pone».
«Avvenire» del 9 agosto 2012

Voler essere il Bene o il Male non è mettersi in ricerca (sul Web)

La presunzione di Google nel dettare un quadro di valori
di Giuseppe Romano
«Don’t be evil», non essere (o non fare) il male, stai dalla parte dei buoni: motto impegnativo da adottare in tutti i casi, tanto più se si sceglie di assumere il ruolo di Grande Fratello. È quanto ha fatto Google, il motore di ricerca americano che sa dirci tutto di tutti, compresi noi stessi, e che ai suoi albori ha coniato questa sentenza che fa pensare al giardino dell’Eden piuttosto che a palazzine di uffici, per quanto hi-tech. A simili, autoproclamati paladini del bene, nei giorni scorsi, il Wall Street Journal ha imputato un’operazione segreta per intrufolarsi nei telefonini e nei tablet di milioni di utenti. In realtà Goolge ha avuto gioco abbastanza facile nel ribattere che si è comportata scrupolosamente come sempre: accesso pieno alle informazioni, ma anonimato garantito. È questo il patto fondamentale che il motore di ricerca stringe con tutti coloro che lo utilizzano; per esempio chi possiede un account di posta Gmail, la mail di Google, accetta che tutto ciò che invia e riceve venga scrutinato e catalogato, con l’unica (ma non piccola) garanzia che le informazioni restino svincolate dai nomi dei soggetti da cui vengono tratte. È il prezzo da pagare, sostiene Google, quando si vogliono ottenere i migliori risultati per qualsiasi ricerca.
Ovviamente quella di "essere cattivi" a volte può essere una tentazione forte come schiacciare l’acceleratore se si possiede una Ferrari. Una delle più importanti caratteristiche di Google, alla base del suo successo, è stata fin dall’inizio aver distinto nettamente l’acquisizione delle informazioni dal loro sfruttamento commerciale. L’assioma era: lasciateci frugare nelle vostre cose, promettiamo di farlo per servirvi meglio, non per approfittarne. Tuttavia per i cittadini resta difficile convivere con la certezza che qualsiasi movimento e debolezza vengono registrati e catalogati perché qualcuno si è intrufolato nel nostro telefonino, e non è detto che consoli la frase «lo facciamo per il tuo bene, per tenerti informato». Quella di "non essere cattivi" è una promessa gravosa. I suoi funzionari saranno tutti e per sempre angelici? In fondo Google è un’impresa commerciale e, per dirla nuda e cruda, si fa gli affari suoi, che possiamo solo auspicare coincidano il più delle volte con i nostri. D’altra parte non sempre è facile mantenere il distacco se si possiedono valanghe di soldi e si ha il potere di intimidire governi e nazioni: sicché da una parte abbiamo la tristemente celeberrima adesione alla censura imposta dalla dittatura cinese pur di non rinunciare a quel mercato enorme, e dall’altro – storia di qualche giorno fa – la decisione di abolire le armi dagli oggetti che si possono vendere online. Lodevole iniziativa, ma perché proprio ora? I maligni la vedono connessa al desiderio di rabbonire l’antitrust che sta indagando Google per abuso di posizione dominante.
Altra "decisione sensibile" di questi giorni è compendiata nell’annuncio che Google lancerà (con l’immaginabile potenza di fuoco della sua forza economica e dell’onnipresenza nelle navigazioni di milioni di utenti) calibrate campagne di sensibilizzazione «contro l’omofobia», con lo slogan «Legalize Love». Lodevole iniziativa in senso generale (la dignità di tutti va indiscutibilmente tutelata), un po’ meno se si spinge a sostenere come un «dovere culturale» l’equivalenza civile fra tutti i tipi di unione, svilendo di fatto il matrimonio e la famiglia. Un altro mattone – e certamente non il più piccolo – all’edificio della cultura "politicamente corretta". L’aforisma «non essere il Male» può rivelarsi autolesionista, quando si connette alla presunzione di decidere in proprio che cosa è bene e cosa è male, con la pretesa di rimpiazzare altre istanze ben più autorevoli e certe. La storia insegna che addentare questa mela della conoscenza in genere è foriero di guai ...
«Avvenire» dell'11 agosto 2012

08 agosto 2012

Sono i partiti la vera piovra

La dura condanna di Simone Weil
di Arturo Colombo
Sui partiti politici, anzi contro i partiti politici, da un po’ di tempo se ne dicono e scrivono di tutti i colori.
Ecco un motivo in più per leggere un piccolo, ma straordinario libretto uscito recentemente: si tratta del Manifesto per la soppressione dei partiti politici di Simone Weil (editore Castelvecchi, pp. 60, € 6). La Weil è stata una singolare personalità, che ha bruciato giovanissima la sua esistenza nell’arco di poco più di trent’anni (nacque nel 1909 a Parigi e morì nel 1943 nel sanatorio di Ashford), lasciandoci però alcune pagine sui vizi e le magagne connaturate ai sistemi politici che ancor oggi sono da considerare meritevoli di essere lette.
Com’è il caso di questo Manifesto per la soppressione dei partiti politici, apparso postumo sulle pagine della rivista francese «La Table Ronde», «La Tavola Rotonda», del febbraio 1950. Il filosofo Alain, che ha conosciuto molto bene Simone Weil, sostiene che si tratta «di un articolo pieno di fuoco, che sembra scritto con il piccone dello sterratore, di superba disinvoltura». E in effetti, la drastica condanna contenuta nel titolo del libretto non riguarda, secondo Simone Weil, soltanto un singolo partito, se poi di destra o di sinistra non importa.
Un partito, ogni partito «è una macchina per fabbricare passione collettiva» sostiene caustica la Weil; e quindi non si pone affatto la ricerca del «bene pubblico», ma piuttosto cerca (e pretende) — soprattutto attraverso l’arma della propaganda — l’asservimento di ogni suo iscritto, che finisce così per confondere la ricerca «del bene pubblico e della giustizia», essendo costretto a rinunciare a pensare con la propria testa.
Le conseguenze, sempre a giudizio della Weil, sono decisamente traumatiche: «Se l’appartenenza a un partito obbliga sempre, in ogni caso, alla menzogna, l’esistenza dei partiti è assolutamente, incondizionatamente, un male».
Che fare, allora? La Weil — costretta a vivere in un periodo storico dominato in prevalenza da partiti totalitari (a destra quelli di matrice nazifascista, a sinistra quelli di stampo comunista stalinista) — si guarda bene dall’avanzare la proposta di semplici ritocchi migliorativi. No, la sua è una ricetta molto più perentoria: una volta definite le «macchine per fabbricare passione collettiva», e dopo averle identificate con «un male senza mezze misure», diventa indispensabile «la soppressione dei partiti politici», così da costituire — è pronta ad aggiungere subito — «un bene quasi allo stato puro».
Mentre un suo contemporaneo, Bertolt Brecht, scriveva addirittura una «Lode del partito», dove affermava che «il singolo ha due occhi, / il partito ha mille occhi», la Weil insiste a pretendere, anzi a esigere che un vero «risanamento, ben al di là degli affari pubblici» non si realizzerà, finché domineranno i tentacoli oppressivi dei partiti. Non c’è bisogno di discutere, molti decenni dopo l’uscita dei rispettivi scritti, su quale dei due, ragionando alla luce del senno di poi, si possa considerare aver avuto ragione.
«Corriere della sera» del 7 agosto 2012

Stop leggi ingiuste

Attacco alla libertà religiosa in Occidente
di Carlo Cardia
​Tra le notizie degli ultimi giorni merita rilievo quella diffusa e approfondita da Avvenire, per la quale negli Stati Uniti si moltiplicano le iniziative legali per contrastare la normativa che impone l’obbligo anche a organizzazioni religiose di finanziare pratiche contrarie ai princìpi della propria fede, con grave violazione della libertà religiosa, come non avveniva in un Paese occidentale da tanto tempo. È un buon segno che i cittadini si organizzino per far cambiare una legge ingiusta. Ma è un cattivo segno che leggi ingiuste siano approvate dopo decenni dalla proclamazione dei diritti umani, proprio nei Paesi che sono stati la culla e la patria della libertà religiosa e nei quali si susseguono le mortificazioni per i credenti, i cristiani, le rispettive Chiese. Sembra quasi di tornare indietro nella storia, si vede riemergere qualcosa del principio della pace di Westfalia del 1648 per il quale la religione dello Stato era quella del principe (cuius regio eius et religio) mentre i cittadini potevano esercitare altri culti solo in privato: non si potevano vantare altri diritti, non vi era spazio pubblico per tutte le fedi.
La situazione di oggi è molto diversa rispetto a Westfalia, ma dobbiamo constatare che si va estendendo in Occidente il tentativo di restringere spazi essenziali della libertà religiosa, garantiti dalle Carte internazionali dei diritti umani. A volte la restrizione riguarda semplici manifestazioni del proprio credo mediante simboli religiosi d’uso quotidiano, vietati oggi in Francia, osteggiati in Gran Bretagna con effetti discriminatori verso chi li indossa. In modo assai più grave, negli Usa si impone alle Chiese e alle loro strutture di finanziare pratiche abortive e contraccettive per i propri dipendenti, mentre in Inghilterra si obbligano le strutture di sostegno dell’infanzia abbandonata ad affidare i minori a coppie omosex che ne chiedano l’adozione. Neanche v’è traccia del diritto di obiezione di coscienza, per la prima volta disconosciuto, contrastato esplicitamente. La strategia ha effetti perversi, perché genera una sorta di timore di manifestare la propria fede, viola l’identità religiosa delle Chiese, giunge a provocare la chiusura di strutture assistenziali che non vogliano assoggettarsi alle imposizioni di una legge ingiusta.
Questa lenta erosione dei diritti delle Chiese si sta realizzando mediante la formazione e la stratificazione di una nuova ideologia di Stato che deforma alcuni diritti umani, ne inventa altri mai codificati da norme internazionali, trasforma l’aborto e la contraccezione in pretese che devono essere soddisfatte anche da chi non le condivide. Questa stratificazione assurge a valore di legge generale, e chi segue altri princìpi o pratiche è lentamente emarginato, chiuso nel privato, costretto a violare i dettami della propria fede. Si realizza così la previsione di Giovanni Paolo II, il quale ha parlato a lungo di una visione nichilista che mira a combattere il diritto alla vita ed esercita violenza sui più deboli. Mentre si diffonde quel male sottile del relativismo individualista denunciato da Benedetto XVI, che ha più volte messo in guardia gli Stati contro il progressivo svuotamento di una delle più grandi conquiste della modernità, i diritti inalienabili riconosciuti a ogni persona.
Di fronte alle tragedie del totalitarismo, Hannah Arendt dichiarò che «la dignità umana ha bisogno di una nuova garanzia, che si può trovare soltanto in una nuova legge sulla terra per l’intera umanità». Questo nuovo decalogo, che può identificarsi nelle Carte dei diritti universali, rischia oggi di scolorarsi, stemperarsi, veder compromessi i suoi presupposti teorici. Siamo di fronte a una svolta regressiva, occorre riflettere e interrogarsi su come fare per riaffermare quel diritto di libertà che è alla base dell’intera costruzione dei diritti umani. Le iniziative avviate negli Stati Uniti in difesa dell’identità delle Chiese (come la lettera inviata lunedì dai vescovi Usa al Congresso contro gli obblighi sulla contraccezione e l’aborto previsti dalla riforma sanitaria) sono importanti. Ma forse è necessario pensare a una più vasta azione che, a livello nazionale e internazionale, operi in difesa della libertà religiosa in ogni sua dimensione, perché i credenti – cristiani e uomini di ogni religione – non si sentano emarginati, quasi sopportati dallo Stato, e possano manifestare con piena dignità la fede, vivendo in coerenza con le proprie convinzioni.
«Avvenire» dell'8 agosto 2012

05 agosto 2012

Lo Stato orfano di «fraternità»

di Antonio Airò
​Il termine "fraternità" non figura esplicitamente nel testo della Costituzione italiana. È presente invece nella coeva Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata a New York nel 1948 dall’Onu. «Tutti gli essere umani nascono liberi e eguali in dignità e diritti. Essi sono dotato di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza». Ma entrambi i testi riflettono una concezione personalistica del nostro Stato e della comunità internazionale che ha necessità di essere recuperata nella sua essenzialità con l’apporto del diritto coinvolgendo le varie "fraternità" esistenti (familiare, comunitaria, nazionale e universale) sia nelle istituzioni territoriali, dai Comuni al governo centrale, sia nelle tante aggregazioni sociali ed economiche nelle quali si esprime la dignità della persona. La fraternità si manifesta giuridicamente nel principio di solidarietà completato da quello di sussidiarietà ed è condizione essenziale per una architettura diversa dello Stato, spesso considerato come semplice erogatore di servizi. Ciò diventa necessario in questa stagione di crisi globale (crisi economica e sociale con la perdita crescente di posti di lavoro e l’accentuarsi delle disparità tra i pochi ricchi e i tanti poveri, e crisi di un Welfare state incapace di rispondere alle nuove domande di una società sempre più esigente) che porta al superamento sia dello Stato liberista, sia di quello interventista e che impedisce (come dimostra l’antipolitica dilagante in diversi Paesi a cominciare dal nostro) la partecipazione di tutti i portatori di interessi al raggiungimento di un bene comune che leghi in una concezione solidarista le diverse generazioni.

Il principio di fraternità deve tradursi in uno Stato "comunità" per così dire plurale in grado di realizzare «una convergenza significativa di approcci ideologici molto distanti e apparentemente inconciliabili». Questo è in parte avvenuto scorrendo non pochi articoli della nostra Costituzione, come gli articoli 2 e 3 che riconoscono i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali e la pari dignità sociale di tutti i cittadini o l’articolo 5 sull’articolazione territorio dell’Italia con il dibattito sul federalismo in corso da anni. Guardando proprio alla nostra Carta fondamentale, lo studioso Filippo Pizzolato, docente di Istituzioni di diritto pubblico a Milano Bicocca e di Dottrina dello Stato alla Cattolica, ha avviato un complesso itinerario di ricerca non ancora concluso (Il principio costituzionale di fraternità, Città nuova, pagine 194, euro 18), che si presenta pieno di riferimenti a contributi filosofici e giuridici e a sentenze della Corte costituzionale, di analisi sul ruolo del volontariato e del terzo settore e di approfondimenti sui diritti doveri delle istituzioni territoriali e non (con significative indicazioni sulle Camere di commercio e sul Cnel).

L’approccio, se da un lato conferma l’attenzione crescente dei giuristi al principio di fraternità-solidarietà anche nella sua tensione universale (propria dell’Onu) che riguarda la ricerca della pace e della giustizia tra le nazioni e gli uomini, conduce Pizzolato a prefigurare uno Stato che è insieme «comunità e formazione sociale prima di essere apparato burocratico e autoritario» nel quale istituzioni, non solo territoriali, ma anche le articolazioni sociali di ogni genere svolgono un ruolo politico. In quest’ottica si collocano alcune indicazioni e intuizioni di giuristi cattolici che sia con il Codice di Camaldoli, che supera lo Stato etico del fascismo, sia nei lavori della Costituente, come si esprime Costantino Mortati, auspicavano oltre alla Camera dei deputati «rappresentativa delle tendenze politiche generali, collegate ai partiti» una seconda Camera da non leggere in senso corporativo «espressione di gruppi di interessi organizzati in modo autonomo, di istituzioni… connesse con determinati nuclei sociali». Più recentemente Giuseppe De Rita, riferendosi al dibattito sul federalismo non solo territoriale, ha ipotizzato una seconda Camera che costituisca «un più complesso sistema di rappresentanza: con una struttura centrale composta dai rappresentanti delle forze sociali, delle autonomie locali ai vari livelli, delle autonomie funzionali». Pizzolato si ferma sul limite di queste proposte Ma in un certo senso le fa sue nel sollecitare la riscoperta di quella dimensione «così a lungo dimenticata, del legame solidaristico comunitario in cui prende corpo il principio di fraternità».
«Avvenire» del 4 agosto 2012