di Edoardo Castagna
Porzûs resta una piaga della nostra storiografia, da decenni in imbarazzo nel fare i conti con questo episodio della Resistenza. Nelle valli tra Torre e Natisone, nel febbraio del 1945 una ventina di partigiani della brigata Osoppo furono uccisi dai compagni delle brigate Garibaldi. Sul piano nazionale tra i partigiani comunisti e quelli “autonomi” (cattolici, azionisti, monarchici, ecc.) vigeva l’unità d’azione, sia pure nella distinzione dei ruoli, ma lungo il confine orientale le cose andavano diversamente. Il Pci era costretto dalla sua matrice ideologica a una posizione ambivalente: da un lato, si presentava come un partito nazionale italiano; dall’altro, si riconosceva parte della rivoluzione comunista mondiale. Declinata in Friuli-Venezia Giulia, questa ambivalenza investiva in pieno il rapporto con i partigiani jugoslavi di Tito, per i quali invece ideologia e nazionalismo andavano perfettamente d’accordo, incluse le mire annessioniste verso i territori italiani. E i partigiani rossi dell’area riconoscevano di fatto la supremazia titina, fino ad avallarne implicitamente quelle rivendicazioni territoriali fortemente contrastate, al contrario, dagli altri partigiani italiani. Come quelli della Osoppo.
Finita la guerra delle armi, un’altra ne iniziò entro il dibattito storiografico. Gli studiosi della Resistenza di ispirazione comunista – cioè, per un lungo periodo, quasi tutti – tesero da un lato a minimizzare l’episodio, dall’altro a squalificare i partigiani della Osoppo come nazionalisti esaltati, se non addirittura filo-fascisti. I saggi raccolti nel volume curato da Tommaso Piffer Porzûs. Violenza e Resistenza sul confine orientale (Il Mulino, pagine 154, euro 15,00) – dei quali anticipiamo qui accanto due estratti – cercano di ripercorrere quel contesto politico e intellettuale. Piffer si concentra sulle strategie politiche del Pci durante la guerra partigiana, strette tra contesto politico internazionale ed esigenze militari contingenti: «I partiti comunisti europei imponevano una radicale semplificazione del quadro ideologico intorno al binomio fascismo-antifascismo, e avevano così gioco facile a tacciare di fascismo tutti coloro che non accettavano di seguirli». Un’impostazione che non esaurì i suoi effetti con la guerra, anzi: gran parte della ricostruzione storiografica «è rimasta per lo più relegata a una serie di giudizi sorti già durante il conflitto». Che su Porzûs non potevano che dar torto alla Osoppo “non allineata”. Tanta durezza rientrava d’altra parte perfettamente nella logica di Tito che, come illustra il contributo di Orietta Moscarda Oblak, «aveva trovato la sua affermazione attraverso l’uso disinvolto della violenza politica». Infatti, conferma il saggio di Raoul Pupo, «nella Venezia Giulia accadde quel che successe non nel resto d’Italia, ma nel resto della Jugoslavia». Il discorso si allarga così alla comprensione di quel fenomeno di pulizia etnica che furono le foibe, delle quali Pupo è tra i massimi studiosi.
Mentre Patrick Karlsen approfondisce i punti di contatto tra il partito di Togliatti e quello jugoslavo e Paolo Pezzino indaga altri conflitti interni alla Resistenza, quelli accaduti in Toscana, è il saggio di Elena Aga-Rossi che s’incarica di ricapitolare sistematicamente la parabola ambigua della storiografia su Porzûs. Spiega dunque l’apparentemente insensata euforia con la quale i vertici del Pci, Togliatti incluso, accolsero la condanna dei partigiani comunisti per i fatti di Porzûs: nel 1952 la loro colpevolezza fu riconosciuta, ma limitata al solo omicidio. Rimanendo fedeli alla linea dettata dal partito, il partigiano Giacca e gli altri non avevano quindi tradito la nazione – ed era questo il vero nocciolo della questione, per i comunisti.
Porzûs attraversò tutta la storia della Repubblica italiana; deflagrò nel 1990, quando si scoprì che l’organizzazione paramilitare clandestina Gladio – legittima, ma all’epoca presentata a tinte fosche come sovversiva e fascistoide – aveva reclutato parecchi suoi membri proprio nella Osoppo. Ancora, nel 1997 il film di Renzo Martinelli Porzûs tornò a lacerare, tanto che molte voci si levarono a chiederne il ritiro dalle sale per lesa Resistenza. Nel 2001, finalmente, uno spiraglio: Giovanni Padoan delle Garibaldi e don Redento Bello, cappellano della Osoppo, si incontrarono alle Malghe di Porzûs per una pubblica riconciliazione. «Ma il gesto – annota mestamente la Aga-Rossi – non ebbe seguito».
Finita la guerra delle armi, un’altra ne iniziò entro il dibattito storiografico. Gli studiosi della Resistenza di ispirazione comunista – cioè, per un lungo periodo, quasi tutti – tesero da un lato a minimizzare l’episodio, dall’altro a squalificare i partigiani della Osoppo come nazionalisti esaltati, se non addirittura filo-fascisti. I saggi raccolti nel volume curato da Tommaso Piffer Porzûs. Violenza e Resistenza sul confine orientale (Il Mulino, pagine 154, euro 15,00) – dei quali anticipiamo qui accanto due estratti – cercano di ripercorrere quel contesto politico e intellettuale. Piffer si concentra sulle strategie politiche del Pci durante la guerra partigiana, strette tra contesto politico internazionale ed esigenze militari contingenti: «I partiti comunisti europei imponevano una radicale semplificazione del quadro ideologico intorno al binomio fascismo-antifascismo, e avevano così gioco facile a tacciare di fascismo tutti coloro che non accettavano di seguirli». Un’impostazione che non esaurì i suoi effetti con la guerra, anzi: gran parte della ricostruzione storiografica «è rimasta per lo più relegata a una serie di giudizi sorti già durante il conflitto». Che su Porzûs non potevano che dar torto alla Osoppo “non allineata”. Tanta durezza rientrava d’altra parte perfettamente nella logica di Tito che, come illustra il contributo di Orietta Moscarda Oblak, «aveva trovato la sua affermazione attraverso l’uso disinvolto della violenza politica». Infatti, conferma il saggio di Raoul Pupo, «nella Venezia Giulia accadde quel che successe non nel resto d’Italia, ma nel resto della Jugoslavia». Il discorso si allarga così alla comprensione di quel fenomeno di pulizia etnica che furono le foibe, delle quali Pupo è tra i massimi studiosi.
Mentre Patrick Karlsen approfondisce i punti di contatto tra il partito di Togliatti e quello jugoslavo e Paolo Pezzino indaga altri conflitti interni alla Resistenza, quelli accaduti in Toscana, è il saggio di Elena Aga-Rossi che s’incarica di ricapitolare sistematicamente la parabola ambigua della storiografia su Porzûs. Spiega dunque l’apparentemente insensata euforia con la quale i vertici del Pci, Togliatti incluso, accolsero la condanna dei partigiani comunisti per i fatti di Porzûs: nel 1952 la loro colpevolezza fu riconosciuta, ma limitata al solo omicidio. Rimanendo fedeli alla linea dettata dal partito, il partigiano Giacca e gli altri non avevano quindi tradito la nazione – ed era questo il vero nocciolo della questione, per i comunisti.
Porzûs attraversò tutta la storia della Repubblica italiana; deflagrò nel 1990, quando si scoprì che l’organizzazione paramilitare clandestina Gladio – legittima, ma all’epoca presentata a tinte fosche come sovversiva e fascistoide – aveva reclutato parecchi suoi membri proprio nella Osoppo. Ancora, nel 1997 il film di Renzo Martinelli Porzûs tornò a lacerare, tanto che molte voci si levarono a chiederne il ritiro dalle sale per lesa Resistenza. Nel 2001, finalmente, uno spiraglio: Giovanni Padoan delle Garibaldi e don Redento Bello, cappellano della Osoppo, si incontrarono alle Malghe di Porzûs per una pubblica riconciliazione. «Ma il gesto – annota mestamente la Aga-Rossi – non ebbe seguito».
«Avvenire» del 1 febbraio 2012
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