Il cinema di fantascienza e i social network danno nuova vita alle grammatiche di fantasia. Ricordando J.R.R.Tolkien
di Serena Danna
Professione «conlanger», il creatore di idiomi
«Nessuno mi crede quando dico che il mio lungo libro è un tentativo di creare un mondo in cui una forma di linguaggio accettabile dal mio personale senso estetico possa sembrare reale. Ma è vero». La dichiarazione d’amore linguistico è firmata J.R.R. Tolkien, l’autore britannico che ha appassionato intere generazioni con idiomi fantastici creati appositamente per i personaggi delle sue storie. Lo scrittore del Signore degli anelli è il simbolo di un approccio letterario/artistico alla creazione linguistica, che dal famigerato infernale dantesco «Pape Satàn, pape Satàn aleppe» alla neolingua di 1984 di George Orwell, arriva fino ai testi degli islandesi Sigur Rós, che utilizzano l’hopelandic inventato da Jónsi, leader del gruppo musicale, e all’europanto dello scrittore Diego Marani.
Oggi che i «conlanger», così vengono chiamati gli inventori di lingue artificiali, sono diventati professionisti strapagati dalle major hollywoodiane, fa sorridere pensare alle fasi attraversate da questa strana passione per letterati e idealisti, diventata mestiere nell’era della fantascienza 2.0. Chissà cosa penserebbe il glottoteta polacco Ludwik Lejzer Zamenhof — l’inventore dell’Esperanto che dedicò buona parte della sua vita a sognare una lingua comune per tutti i popoli del mondo — del professor Paul Frommer, ingaggiato con compensi da capogiro dal regista James Cameron per studiare l’idioma na’vi per il suo Avatar. Oppure la femminista Suzette Haden Elgin (una delle prime blogger della storia), che ha lottato affinché il suo láadan diventasse la lingua delle donne, del modernissimo istituto del «Language Creation Society», un’organizzazione (tra i suoi fondatori c’è David J Peterson, il «papà» del dothraki della serie tv «Il trono di spade») che offre servizio di conlanging alle aziende.
Intervistata dal «New York Times», Arika Okrent, autrice di In the Land of Invented Languages, ha detto: «Nessuna delle centinaia di lingue create per “ragioni sociali” ha avuto la popolarità di quelle inventate per film, televisioni e libri: per anni le persone hanno cercato il linguaggio perfetto ma la sfida non ha mai avuto tanto successo come nell’era dell’intrattenimento».
La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea di Umberto Eco aveva bisogno del cinema e di Internet per trovare un approdo. Certo, gli appassionati obietteranno che quello dei «conlanger» è un fenomeno esploso con la saga di Star Trek, quando il linguista Marc Okrand inventò per la Paramount Pictures la lingua klingon. Eppure, nonostante le schiere di fan, la versione klingon del Monopoli, e la nascita di un Istituto della lingua klingon, l’idioma non ha avuto effettiva diffusione, parlato com’è solo da venti persone (e tra di esse non c’è neanche Okrand). In fondo il problema del linguista americano è simile a quello del futurista russo Krucenych, autore della poesia: «dyr bul šcil ubešcur skum vy so burlèz» (che non significa nulla se non poesia in sé): una elevata difficoltà sonora e linguistica che ostacola l’apprendimento e la condivisione.
Le nuove lingue create per i colossi della fantascienza hanno invece una grammatica e una varietà lessicale (il Dothraki ha 10 mila parole) che non le rende diverse dall’italiano o dal giapponese. Spiega Arika Okrent nel suo libro che «un grande vocabolario è più difficile da imparare ma richiede meno sforzi per la costruzione di significato. Al contrario, un lessico povero richiederà un aiuto da parte del contesto e delle convenzioni sociali per diffondersi».
La speranza di sopravvivenza di una lingua inventata dipende dalla diffusione che troverà in un gruppo di persone che comincerà a usarla e a distruggerla. «Se l’Esperanto non si è estinto — spiega Okrent — è perché si è emancipato sempre di più dalle intenzioni e dalle dure regole del suo creatore». Per la studiosa, imparare una lingua, anche naturale, è più una decisione emozionale che pratica: c’entra con la voglia di appartenere a un gruppo.
Ecco perché Internet con le sue comunità digitali da un lato e la capacità di giocare con la lingua dall’altro, rappresenta la piattaforma di lancio definitivo per i «conlanger». Oggi è uno studente ventitreenne della Saarland University a gestire il sito Dothraki.com, dove si trova un dizionario inglese-dothraki e una grammatica. Per imparare la lingua del pianeta Pandora, i social network (con gli account Twitter @learnna’vi e @nnavilessons e i migliaia di gruppi su Facebook) sono ormai gli strumenti più utili e immediati.
Nonostante gli addetti ai lavori lamentino ancora la chiusura di Langmaker.com, il sito che catalogava le lingue inventate nel mondo (circa 2.000 fino al 2007), essere passati dai tristi forum anni novanta alle riunioni dei Na’vi speakers in Sonoma County comunicate via Twitter è una bella conquista per la «democrazia linguistica» sognata da Zamenhof.
E se fino a qualche anno fa l’unico modo per diventare «conlanger» era consultare il Kit di Costruzione di Linguaggi elaborato da Mark Rosenfelder (l’autore del seguitissimo verduriano) sul sito zompist.com; oggi basta digitare la parola langmaker su Google o Bing per trovare centinaia di semplici decaloghi.
Peterson e Frommer immaginano un futuro in cui le università insegneranno thhtmaa e dothraki come oggi insegnano swahili e arabo, e i linguaggi inventati avranno finalmente dei «native speakers». Un privilegio che, scrive Okrent, oggi tocca solamente ai bambini di qualche coppia di «esperantisti»: «Quando poi si rendono conto che i genitori parlano anche un altro linguaggio, idioma condiviso dalla loro comunità di riferimento, abbandonano in fretta l’esperanto». Illusi o visionari, i «conlangers» sono gli ultimi testimoni della meraviglia del linguaggio.
Oggi che i «conlanger», così vengono chiamati gli inventori di lingue artificiali, sono diventati professionisti strapagati dalle major hollywoodiane, fa sorridere pensare alle fasi attraversate da questa strana passione per letterati e idealisti, diventata mestiere nell’era della fantascienza 2.0. Chissà cosa penserebbe il glottoteta polacco Ludwik Lejzer Zamenhof — l’inventore dell’Esperanto che dedicò buona parte della sua vita a sognare una lingua comune per tutti i popoli del mondo — del professor Paul Frommer, ingaggiato con compensi da capogiro dal regista James Cameron per studiare l’idioma na’vi per il suo Avatar. Oppure la femminista Suzette Haden Elgin (una delle prime blogger della storia), che ha lottato affinché il suo láadan diventasse la lingua delle donne, del modernissimo istituto del «Language Creation Society», un’organizzazione (tra i suoi fondatori c’è David J Peterson, il «papà» del dothraki della serie tv «Il trono di spade») che offre servizio di conlanging alle aziende.
Intervistata dal «New York Times», Arika Okrent, autrice di In the Land of Invented Languages, ha detto: «Nessuna delle centinaia di lingue create per “ragioni sociali” ha avuto la popolarità di quelle inventate per film, televisioni e libri: per anni le persone hanno cercato il linguaggio perfetto ma la sfida non ha mai avuto tanto successo come nell’era dell’intrattenimento».
La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea di Umberto Eco aveva bisogno del cinema e di Internet per trovare un approdo. Certo, gli appassionati obietteranno che quello dei «conlanger» è un fenomeno esploso con la saga di Star Trek, quando il linguista Marc Okrand inventò per la Paramount Pictures la lingua klingon. Eppure, nonostante le schiere di fan, la versione klingon del Monopoli, e la nascita di un Istituto della lingua klingon, l’idioma non ha avuto effettiva diffusione, parlato com’è solo da venti persone (e tra di esse non c’è neanche Okrand). In fondo il problema del linguista americano è simile a quello del futurista russo Krucenych, autore della poesia: «dyr bul šcil ubešcur skum vy so burlèz» (che non significa nulla se non poesia in sé): una elevata difficoltà sonora e linguistica che ostacola l’apprendimento e la condivisione.
Le nuove lingue create per i colossi della fantascienza hanno invece una grammatica e una varietà lessicale (il Dothraki ha 10 mila parole) che non le rende diverse dall’italiano o dal giapponese. Spiega Arika Okrent nel suo libro che «un grande vocabolario è più difficile da imparare ma richiede meno sforzi per la costruzione di significato. Al contrario, un lessico povero richiederà un aiuto da parte del contesto e delle convenzioni sociali per diffondersi».
La speranza di sopravvivenza di una lingua inventata dipende dalla diffusione che troverà in un gruppo di persone che comincerà a usarla e a distruggerla. «Se l’Esperanto non si è estinto — spiega Okrent — è perché si è emancipato sempre di più dalle intenzioni e dalle dure regole del suo creatore». Per la studiosa, imparare una lingua, anche naturale, è più una decisione emozionale che pratica: c’entra con la voglia di appartenere a un gruppo.
Ecco perché Internet con le sue comunità digitali da un lato e la capacità di giocare con la lingua dall’altro, rappresenta la piattaforma di lancio definitivo per i «conlanger». Oggi è uno studente ventitreenne della Saarland University a gestire il sito Dothraki.com, dove si trova un dizionario inglese-dothraki e una grammatica. Per imparare la lingua del pianeta Pandora, i social network (con gli account Twitter @learnna’vi e @nnavilessons e i migliaia di gruppi su Facebook) sono ormai gli strumenti più utili e immediati.
Nonostante gli addetti ai lavori lamentino ancora la chiusura di Langmaker.com, il sito che catalogava le lingue inventate nel mondo (circa 2.000 fino al 2007), essere passati dai tristi forum anni novanta alle riunioni dei Na’vi speakers in Sonoma County comunicate via Twitter è una bella conquista per la «democrazia linguistica» sognata da Zamenhof.
E se fino a qualche anno fa l’unico modo per diventare «conlanger» era consultare il Kit di Costruzione di Linguaggi elaborato da Mark Rosenfelder (l’autore del seguitissimo verduriano) sul sito zompist.com; oggi basta digitare la parola langmaker su Google o Bing per trovare centinaia di semplici decaloghi.
Peterson e Frommer immaginano un futuro in cui le università insegneranno thhtmaa e dothraki come oggi insegnano swahili e arabo, e i linguaggi inventati avranno finalmente dei «native speakers». Un privilegio che, scrive Okrent, oggi tocca solamente ai bambini di qualche coppia di «esperantisti»: «Quando poi si rendono conto che i genitori parlano anche un altro linguaggio, idioma condiviso dalla loro comunità di riferimento, abbandonano in fretta l’esperanto». Illusi o visionari, i «conlangers» sono gli ultimi testimoni della meraviglia del linguaggio.
«Corriere della Sera» - Supplemento "La lettura" del febbraio 2012
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