01 settembre 2010

Wall Street corre. Ai botteghini

Il mondo della finanza mai così inviso all’opinione pubblica eppure mai come oggi in cima ai pensieri degli sceneggiatori. Non solo le saghe di Facebook e Google, anche i pignoramenti vanno su pellicola
di Ugo Bertone
Non sono tempi facili, si sa, per l’economia americana. Ma la riscossa, come già negli anni Trenta, potrebbe partire da Hollywood. E così, alla ricerca del nuovo Frank Capra, l’industria del cinema si rivolge all’ultima frontiera del sogno americano: le storie di successo dei ragazzi terribili che hanno dato vita a Google o, soprattutto, a Facebook. Già, potrebbe essere “The Social Network”, la storia del sito che contende a Google l’Oscar dell’indirizzo virtuale più frequentato al mondo, la pellicola destinata a segnare la prossima stagione del box office. O anche di più, visto che il produttore Scott Rudin giura che il film girato da David Fincher (il regista di “Seven”) è destinato a diventare un simbolo di un’epoca, al pari di “Wall Street” o, addirittura, de “Il grande freddo”. Di sicuro la storia di Mark Zuckerberg, il ragazzo che nel 2004 diede vita tra i recinti di Harvard a Facebook, ha tutte le premesse per ispirare buoni sentimenti a un pubblico che cerca di consolarsi al cinema. Perché è vero che dopo lunghe discussioni la produzione ha deciso di inserire nel film la scena in cui Sean Parker, uno dei pionieri di Facebook, offre cocaina alle ragazze di Harvard (come se si trovasse all’Hollywood, quello di Milano). Ma anche qui la morale trionfa: Parker venne allontanato dalla squadra per quel vizietto.
Più difficile, senz’altro, il compito degli sceneggiatori di “Googled”, ricostruzione cinematografica dell’avventura di Sergey Brin e Larry Page, i due geni (sì, per loro l’appellativo vale) che hanno sviluppato l’algoritmo del motore di ricerca più cliccato al mondo. “Difficile infilarci del sesso, se vogliono essere fedeli alla storia – commenta Marissa Mayer, ingegnere, la prima donna che fu reclutata dalla coppia a Stanford – a quei tempi proprio non c’erano né la voglia né il tempo”. Ma la strana coppia, il genio in arrivo dall’Urss e il figlio dello scienziato della Nasa, offre altri spunti: la resistenza al mondo del business, la voglia di mantenersi duri e puri all’insegna del “don’t be evil”, fino alle concessioni sempre più dolorose, compreso il cedimento alla censura di Pechino.
Com’è naturale, la situazione non ispira solo storie con “happy end”. Dopo il ritorno di Gordon Gekko, convertito ai buoni sentimenti, Hollywood ha già in incubazione il kolossal della Grande crisi: Time Warner ha comprato i diritti di “Too Big to Fail”, cronaca dei disastri delle grandi banche, con l’epilogo tragico del crac di Lehman Brothers: si accettano scommesse sull’attore che interpreterà il ruolo di Dick Fuld, detto “gorilla”, il banchiere ex marine che guidò Lehman al collasso grazie anche all’attiva ostilità dei vertici di Goldman Sachs, sempre più impopolari nell’America che non si è ancora lasciata del tutto alle spalle il collasso dell’immobiliare.
Ma il film verità sui subprime è già stato girato, non a Hollywood, ma da uno svizzero, Jean-Stéphane Bron, che ha trasformato in cinema-verità il tentativo, vero, della città di Cleveland di trascinare in una class action le banche che hanno venduto i mutui subprime nelle periferie di una delle città più povere del Midwest, provocando una catastrofe degna dei tempi di “Furore”: quattro contratti su cinque (a loro volta la grande maggioranza dei mutui firmati tra il 2000 e il 2005) non sono stati rispettati, con il risultato che decine di migliaia di famiglie hanno subìto lo sfratto. Il giudice di Cleveland ha ritenuto la class action non ammissibile (“troppo labile la relazione causa-effetto”), ma il processo è andato in scena nell’aula virtuale allestita da Bron. Ma attenzione: “Cleveland vs. Wall Street”, già in programmazione in Francia, non è un pamphlet a tesi che stabilisce in partenza chi sono i buoni e i cattivi. Il legale delle banche, Keith Fisher, può mettere in campo buoni argomenti contro le pressioni politiche intese a trasformare tutti i cittadini in proprietari – come voleva George Bush, ma anche i democratici –, compresi i contribuenti più poveri, senza badare alle conseguenze: il finale, mentre la crisi torna a mordere, dev’essere ancora scritto.
«Il Foglio» del 30 agosto 2010

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