01 settembre 2010

Troppi romanzi uccidono la critica

Oggi la narrativa dura al massimo una stagione, quando appaiono le liste dei candidati ai premi
di Alfonso Berardinelli
La sovrapproduzione rende impossibile la riflessione e vanifica il giudizio
Se solo potessero, gli editori darebbero il nome di romanzo a tutti i libri che pubblicano. Sembra ormai che ogni tipo di libro spaventi il lettore: il romanzo no. I libri di storia li leggono gli storici. I libri di filosofia li sfogliano i filosofi. I poeti non si leggono neppure fra loro. Le scienze sociali interessano poco: di società si parla sui giornali e la prosa sterilizzata dei sociologi respinge il «lettore comune». Dunque le librerie traboccano di nuova narrativa, ma i recensori, anche i più solerti, riescono a digerirne solo una parte. I teorici della letteratura e i narratologi sono ammutoliti da tempo. Gli storiografi sono soffocati dall’«angoscia della quantità», formula ripetutamente usata da Giulio Ferroni (si veda il suo pamphlet Scritture a perdere). Sta di fatto che il romanzo, genere oggi più editoriale e merceologico che letterario, monopolizza un’opinione pubblica letteraria certo più estesa, ma anche meno colta. Il romanzo, così, trionfa, ma per poco. Quale critico saprebbe fare a memoria l’elenco dei libri di narrativa migliori usciti tre o cinque anni fa? Dopo la stagione dei premi, la nuova narrativa circola al massimo fino alla stagione seguente, quando nuove liste di candidati allo Strega e al Campiello cominciano a comparire sulle pagine dei giornali. Che il romanzo è un genere di consumo e di intrattenimento «per tutti», lo si è sempre saputo (il romanzo d’avanguardia è stato un episodio, o un controsenso). Ma il consumo è diventato più veloce e distratto e l’intrattenimento lo si trova in abbondanza altrove. Quanto a qualità artistica, valore conoscitivo e documentario, la maggior parte dei romanzi che si pubblicano non sembrano nascere da nessuna memoria letteraria; anche quando funzionano non provocano riflessioni e interpretazioni critiche, «non fanno storia». Se si eccettuano gli autori già in attività negli anni Ottanta, mi pare che recentemente sia emerso un solo narratore pienamente consapevole della tradizione del romanzo: Walter Siti. Ma Siti è (o era) un intellettuale e un critico. Come trappola acchiappa-lettori, comunque, il romanzo resta la forma più efficace anche per diffondere informazioni e idee. L’ultimo esempio è Gomorra di Saviano. Non è un romanzo, ma «si legge come un romanzo». Quando l’inchiesta si allea con una serie di immagini forti e con il mito di un personaggio (che può essere anche l’autore) allora succede qualcosa che un libro di sole idee non riesce più a provocare. La lotta alla camorra e alla criminalità organizzata ha oggi il volto di Roberto Saviano. Del resto, Raffaele La Capria notò che se la nostra letteratura non ha saputo inventare molti personaggi memorabili, sono gli scrittori stessi i personaggi più riusciti: da Cellini e Casanova fino a Malaparte e Pasolini. Nel 1983, quando si chiudeva l’epoca della «politica al primo posto», Goffredo Fofi fondò una rivista, «Linea d’ombra», che si proponeva di accompagnare la giovane generazione dall’ideologia alla narrativa. «Ciò che soprattutto vogliamo - si diceva nella prima pagina del primo numero - è uno spazio nel quale la giovane narrativa italiana possa conoscersi e farsi conoscere». Ma già dieci anni dopo, all’inizio degli anni Novanta, ricordo che un protagonista dell’editoria italiana come Giulio Bollati constatava sconsolatamente che, «da quando gli italiani si sono messi a leggere romanzi», la storia delle idee, la storia sociale e la migliore saggistica non riuscivano più a trovare un pubblico. Così, però, anche il romanzo entrava in mutazione. Si impoveriva culturalmente, perdeva consistenza intellettuale. L’attuale sovrapproduzione di narrativa credo che sia un segno di patologia piuttosto che di salute. Non ho fatto calcoli precisi, ma come eventuale recensore ho l’impressione di ricevere in omaggio uno o due nuovi romanzi al giorno. Eppure qualche calcolo bisogna farlo. Secondo i sei critici (solo sei) consultati da Stefano Salis sul «Sole 24 Ore», i narratori promettenti sotto i quarant’anni sono ben cinquanta. Se a questo numero se ne aggiungono altri venti (dimenticati) e almeno altri cinquanta fra i quaranta e i settant’anni, arriviamo a centoventi romanzieri. Dopo questa aritmetica, mi chiedo chi riuscirà a conquistarsi la qualifica di esperto in narrativa italiana contemporanea. Conosco bene diversi divoratori instancabili di romanzi italiani appena usciti. Leggono tutto e recensiscono brillantemente. Non so come facciano. Calcolando che per leggere un romanzo bisogna prevedere mediamente un giorno, chi segue la produzione di centoventi autori ha bisogno di altrettanti giorni, un terzo dell’anno. Vogliamo prevedere un altro giorno per recensirne uno a settimana? Siamo a centosettanta giorni. Difficile calcolare i tempi della riflessione e del giudizio. Ma dobbiamo ipotizzare che il recensore-divoratore legga i giornali, legga sia romanzi stranieri sia non romanzi, nonché qualche autore del passato: e soprattutto che ogni tanto pensi ad altro. Cosa dedurne? Che nessuno ne sa abbastanza. La quantità è soverchiante. Siamo a un bivio: la critica «giornaliera» come la concepiva Geno Pampaloni, è o impossibile o inattendibile. La democrazia letteraria di massa, potenziata dall’uso del computer, vanifica l’autorità della critica e crea una letteratura senza forma e confini, che nel suo insieme si sottrae a ogni definizione. Smettiamo perciò di processare i critici e di stilare piccoli canoni. Legga chi vuole quello che vuole. Un’altra epoca si chiude: l’epoca dei giudizi. Ma sto anch’io per pubblicare un libro sulla narrativa. Il suo titolo sarà: Non incoraggiate il romanzo.

L’articolo di Alfonso Berardinelli prosegue il dibattito sui nuovi autori italiani in cui sono intervenuti vari critici interpellati dal «Sole 24 Ore» e Franco Cordelli, in un articolo sul «Corriere della Sera» del 7 agosto. Ieri ne hanno scritto Maurizio Cucchi su «La Stampa» e Gabriele Pedullà su «Il Sole 24 Ore»
«Corriere della Sera» dell’11 agosto 2010

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