01 settembre 2010

La letteratura italiana ha perso la potenza

Bilanci Indicazioni e prospettive dalla stagione che si è chiusa con lo Strega a Pennacchi
Di Franco Cordelli
Stile o contenuto: l’ondata (discutibile) degli under 40. Dagli anni 80 gli scrittori hanno rinunciato ad essere ciò che sono sempre stati: letterati
Riflettendo sulla nuova narrativa italiana, impossibile non considerare la critica che l’accompagna. Ma sto parlando in qualità di lettore, né di scrittore più anziano, né di critico, ciò che non sono. Mi immagino che il critico di una qualche disciplina sia colui che la pone non già episodicamente, ma quotidianamente, alla prova. È una figura, quella del critico, in via di sparizione. Per mille e un motivo. Principali, il dispotismo del valore mercantile, la (conseguente) diffidenza dei giornali a istituire un ruolo altamente riconoscibile, la difficoltà degli eventuali candidati ad accettare: si scrive tanto, si pubblica troppo, la qualità media cresce e diminuisce la possibilità di imbattersi in opere o in persone per le quali valga la fatica di fare la cernita e di organizzare un discorso. Insomma, le valutazioni che negli ultimi mesi hanno mostrato vera energia sono: malinconica quella di Giulio Ferroni, nel suo libro Scritture a perdere; e sarcastica quella di Luca Archibugi e Andrea Cortellessa, nel loro documentario Senza scrittori. Ma né l’uno né gli altri sembrano disponibili a illimitati atti di fede. In un’inchiesta del «Sole 24 ore» di domenica scorsa sugli scrittori più promettenti, circoscritti ai meno che quarantenni, si rimaneva colpiti dai numeri. Quanti sono questi promettenti scrittori? Una cifra impressionante, cinquanta. Come non chiedersi se i sei critici che ne hanno proposto i nomi avessero, tutti e sei, letto i cinquanta autori nominati? In quanto ai responsi, si va dall’inaspettatamente euforico Goffredo Fofi, che deteneva un record di severità, al cautissimo Ermanno Paccagnini, consapevole che le «promesse sono spesso fatte per non essere mantenute». Ma dovendo entrare nel merito dei criteri di valutazione dei sei, ciò che sconcerta non è la loro difformità, ma la loro impalpabilità, se non l’arbitrio. Marco Belpoliti segnala Paolo Zanotti e Andrea Tarabbia perché «sono apocalittici, visionari, capaci di dare una lettura esasperata della nostra realtà». Ci si chiede: che merito speciale è essere apocalittici? E poi: che cosa significa essere visionari? La Porta sostiene che quarant’anni è un limite già alto: quanti capolavori si sono scritti prima di questa età? Ha ragione. Ma un capolavoro è un capolavoro, né una promessa, né un’opera. Inoltre, come non accorgersi che oggi si matura più lentamente, che per trovare una propria originale voce bisogna farsi largo in una quantità di materiali, eccelsi o abietti, di gran lunga superiore a quella dei vecchi tempi? Infine gli scrittori, le promesse, ovvero la situazione attuale. Per rimanere ancora un attimo tra i lettori, anzi tra i lettori lieti, come non sorridere di fronte all’entusiasmo di Antonio Franchini, suo editore, e di Andrea Zanzotto, suo concittadino astrale, per Antonio Pennacchi, in quanto autore di un grande libro epico? Fino a un mese fa, prima della vittoria allo Strega, queste esplosioni di gioia per un autore (comunque sessantenne) non s’erano percepite. Sono venute ora, a giochi fatti. Giochi naturalmente di mercato, assenti valutazioni critiche in senso stretto. Ma per quanto ne so, volendo a queste, se possibile, rimanere fedeli, la difficoltà di indicare nomi nuovi, o magari meno nuovi (penso che cinquant’anni, per le nostre capacità di crescita e di percezione, siano un limite più ragionevole) nasce dalla sottovalutazione dell’elemento cruciale: come scrive chi scrive? O, detto in altri termini, quali sono le sue proprietà di stile? Nicola Lagioia, il nome più ricorrente, è tutt’altro che uno stilista. Se Lagioia ha un limite è di accumulare, di non tagliare, di non rifinire. Questo non gli impedisce di essere lo scrittore che è, così capace di vedere e di raccontare. Ma la sua inclinazione è largamente condivisa. Effetto del computer? Che non si scrive più a macchina, tanto meno a mano? Se si scrive a mano si fatica di più, e si è istintivamente più sorvegliati. Tra gli scrittori promettenti, che però sembrano debitori del dio dell’abbondanza, citerei Antonio Scurati e Giuseppe Genna, ma anche Alessandro Piperno. Stranamente, Scurati sul «Sole» non è stato rammentato da nessuno. Dico stranamente perché si è citato Giorgio Falco che ha 43 anni e non Scurati, che ne ha 41, ma che rispetto a Falco è una figura, nel nostro panorama letterario, riconoscibile e autorevole. Un altro scrittore quarantunenne, anzi una scrittrice, che non è stata nominata, è Silvia Ballestra. Perché ha cominciato a pubblicare da tanti anni? Perché ha al suo attivo molti libri? Può darsi, ma è tra i pochi che possono vantare almeno un romanzo, Nina, che sarà letto in futuro: chi ha mai raccontato, come lei, la condizione della madre in attesa di un figlio? Ciò che ho appena detto implica, si capisce, che lo stile non è tutto. L’argomento (il contenuto, e poi il tema) è altrettanto decisivo per cogliere il punto sanguinoso di un immaginario collettivo. È la ragione che ha fatto di Saviano ciò che Saviano è, con tutti i suoi difetti di controllo stilistico, con tutte le sue intemperanze. Nella sua sfera d’influenza o di evidenza (in ragione, appunto, degli argomenti) mi sembrano sopravvalutatissimi Ammaniti, Melania Mazzucco, Helena Janeczek e anche, per ragioni lievemente diverse, Valeria Parrella e Giorgio Vasta. Viceversa, valori già accreditati, ossia autori con un profilo letterario indubbio, sono i prossimi ai cinquanta Canobbio, Cornia, Covacich, Nori, Nove, Pavolini, Pincio, Scarpa e Trevisan. Ma per tornare ai più giovani: l’unico trentenne che abbia scritto un libro bellissimo, ricco della memoria culturale che più ci manca, è Andrea Bajani con Se consideri le colpe; un altro è Gabriele Pedullà: nel suo Lo spagnolo senza sforzo, un vero stilista; ma a Pedullà fa da ostacolo ciò con cui si è affermato, la sua qualità di critico. È la questione di fondo: dagli anni Ottanta gli scrittori hanno rinunciato ad essere ciò che sono sempre stati nei secoli dei secoli, dei letterati, sia pure dei letterati in maschera, travestiti da canaglie alla Villon o Rimbaud; da dandy alla Max Beerbohm o alla Horacio Quiroga; da rivoluzionari alla Voltaire o alla Brecht; da contestatori alla Kerouac o alla Cabrera Infante. Vi hanno rinunciato per la paura d’essere puniti (dal mercato, nel gioco dei ruoli) manovrando due distinte attività, lo scrittore e il professore, o il giornalista, o il critico. Così, insisto, si è diluita la memoria letteraria. Quante volte ho detto a Scurati: la tua opinione su Bush o su Obama è facile, dunque irrilevante; perché non ci parli dei tuoi padri o fratelli? Ma lui è come non ne avesse, né padri né fratelli. In generale, la diminuzione di memoria è causa o forse conseguenza di un’altra diminuzione, più imponderabile, ma che è ciò che tutto determina: quella di potenza. Alla cultura, ovvero alla letteratura italiana, ciò che essenzialmente manca (lo sostiene un critico come Raffaele Manica) è la potenza. È la stessa che da tempo manca al nostro Paese, l’Italia. Non si tratta di imitare chi ne ha, l’America o, partendo da identità regionali e locali, Paesi più o meno sviluppati o in via di sviluppo, India, Irlanda, Israele. Si tratta, proprio e ahimé, del fatto che la Storia segue il suo corso e non ci sono rimedi se non surrettizi o, al contrario, individuali, cioè geniali.
«Corriere della Sera» del 7 agosto 2010

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