03 settembre 2010

Perché il buon libro è indigesto al cinema

di Cesare Cavalleri
Una gentile lettrice mi ha chiesto di precisare meglio che cosa intendevo con la frase conclusiva della ru­brica della scorsa settimana, dedicata al libro di Pierre Boulle, La faccia, pubblicato da Liberilibri. La frase è questa: «Dal romanzo di Pierre Boulle è praticamente impossibile trarre un film, giocato com’è sulle sottigliezze psicologiche di una vicenda con molte sfaccettature. È dunque un caso di letteratura autentica».
Perché, sosteneva garbatamente la lettrice, da un romanzo non trarre un film? Raggiungerebbe molta più gente. Non poterne ricavare un film, sembrerebbe piuttosto un limite, non un pregio di autenticità per un romanzo.
Tocchiamo qui un proble­ma molto interessante, che è quello della specifi­cità dei generi artistici. Dallo stesso soggetto, per esempio un paesaggio, si può ottenere un bel quadro, o una poesia, o anche una musica, ma pittura, poesia e musica hanno ciascuna un linguaggio proprio, non intercambiabile.
Un film tratto da un romanzo è un film, non più un romanzo, anche perché il passaggio dal ro­manzo alla sceneggiatura cinematografica richiede rimaneggiamenti talora cervellotici. Per esempio, anni fa la Lux Vide acqui­stò i diritti cinematografici del romanzo Il cavallo rosso di Eugenio Corti, e ne parlò con Sandro Bolchi, il grande regista dei teleromanzi, dal Mulino del Po ai Promessi sposi, ai Fratelli Karamazov. Ebbene, Sandro Bolchi disse che il romanzo era molto interessante, ma il film sarebbe stato meglio ambientarlo in Romagna, anziché in Brianza. Ma come, se Corti ha scritto proprio l’epopea della Brianza, e i personaggi non si capirebbero sradicati dal proprio humus? Per fortuna non se ne fece niente, e chissà che il progetto un giorno o l’altro venga affidato a un più coerente regista. In ogni caso, altro sarebbe Il cavallo rosso letterario, altro sarebbe l’eventuale film.
Analogamente, un film visto in televisione, non è più cinema, è televisione. A parte la dimensione dello schermo (anche se oggi vengono offerti schermi televisivi giganteschi, comunque sempre inferiori allo schermo delle sale cinematografiche), diversa è la fruizione da parte dello spettatore: andare al cinema richiede un certo rituale di abbigliamento, di compagnia, di cena fuori casa, e comunque è sempre un 'andar fuori'; il film in televisione, magari interrotto dalla pubblicità, lo si vede rilassati sul divano, ogni tanto allontanandosi per prendere qualcosa da bere o per andare in bagno, si fanno commenti ad alta voce con i famigliari... insomma, è un programma televisivo. E qual è, dunque, la specificità del romanzo autenticamente letterario? La competizione con altri generi ha imposto nuovi modi di scrittura. Per esempio, sono obsolete le lunghe descrizioni, soppiantate dalla fotografia e dal cinema: non si può più descrivere il salotto della contessa, perché il lettore è abituato al colpo d’occhio dell’immagine cinematografica. Al più, il romanziere darà qualche tocco con valore più simbolico che descrittivo.
Oggigiorno, al romanzo sono aperte fondamentalmente due strade: il romanzo storico, perché offre un’interpretazione della storia, appunto come Il cavallo rosso che non per caso è stato paragonato a Guerra e pace dalla critica francese. Oppure il romanzo che descrive situazioni, stati d’animo, psicologie talmente complicate che non possono essere rese in immagini. Appunto come il romanzo di Pierre Boulle, «giocato sulle sottigliezze psicologiche di una vicenda con molte sfaccettature». La letteratura 'autentica' non è trasferibile.
Quanto al cinema, esso sta tornando alle origini, quando era un fenomeno da baraccone come gli esperimenti dei fratelli Lu­mière che facevano sobbalzare gli spettatori nelle fiere con L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat, quando sembrava che la locomotiva uscisse dallo schermo e travolgesse la platea. Non diversi, nella sostanza, sono gli effetti speciali ipertecnologici di un film come Avatar, sprovvisto di una minimamente plausibile trama.
«Avvenire» del 18 agosto 2010

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