04 luglio 2010

Unioni di fatto? Le parole non bastano

di Pier Giorgio Liverani
«Poeti e filosofi lo dicono da millenni […] che l’amore è un vincolo». Così Elena Loewenthal, scrittrice e traduttrice dall’ebraico, parla («La Stampa», 30 giugno) delle «ragioni dell’amore» come fondamento delle «unioni di fatto» di ogni tipo. Per cui «il vincolo affettivo» semplicemente dichiarato allo stato civile sarebbe sufficiente al riconoscimento di questo similmatrimonio di serie C.
La Loewenthal non ha scoperto nulla. Per amore - almeno oggi lo si afferma - ci si sposa. Tralascio, per questa volta, tutte le altre serie ragioni (quelle razionali) che, invece, si oppongono a queste unioni. Il problema è che cosa significhino le parole amore, vincolo e affettivo. Perché, per esempio, si dice 'fare l’amore' per indicare anche il più frivolo dei rapporti; perché affettivo ha un senso quanto mai ampio e vago; e perché anche il vincolo, senza gli aggettivi opportuni che indichino età, tipo, durata, impegno, bi o monosessualità, programmi ecc. dice insieme poco e troppo. Anche quello occasionale o passeggero è un rapporto affettivo, anche quello pedofilo. Nel matrimonio sacramento amore vuol dire dono di sé reciproco, totale, responsabile e perenne. In quello civile significa impegno pubblico duraturo e assunzione di responsabilità. Per dirla in modo banale: che importa allo Stato se tra due persone esiste un vincolo affettivo così generico e vago? E perché, se il vincolo è serio e c’è tutto il resto, non si chiede un matrimonio?
«Avvenire» del 4 luglio 2010
___________________________________
Unioni di fatto: le ragioni dell'amore
Di Elena Loewenthal
Poeti e filosofi lo dicono da millenni. In fondo, non ci dicono altro, da che mondo è mondo. Eppure ci sono volute duemilacinquecento firme (raccolte da associazioni radicali e laiche) e relativa delibera di iniziativa popolare, per far sì che se ne accorgesse anche la politica: che l'amore è un vincolo. Non un capriccio né un passatempo, prima ancora che passione.
E così, finalmente, attraverso una buona politica - che soddisfazione poter ogni tanto usare questo binomio di parole - approda all'anagrafe di Torino la dicitura «vincolo affettivo» come riconoscimento di unione civile. La delibera è stata approvata a larga maggioranza e con la consapevolezza che si tratta di un passo d'inizio verso una tutela più ampia e sostanziale. D'ora in poi, a Torino gli impiegati dell'anagrafe saranno autorizzati a rilasciare un attestato di famiglia anagrafica basato su una storia vecchia come il mondo: il vincolo affettivo. Sembra paradossale che tutto ciò costituisca, oltre a un'evidenza - l'amore lega! - anche un traguardo. Ma è soprattutto un punto di partenza verso un sistema di organizzazione civile meno astratto e più vicino alla realtà della vita.
Perché questa storia a lieto inizio riguarda, certo, le circa cinquecento coppie omosessuali che con questa delibera possono trovare una prima forma di ufficializzazione. Ed è un passo non da poco. Ma riguarda anche le trentamila coppie eterosessuali che per tante e diverse ragioni non vogliono o non possono ricorrere al matrimonio. E soprattutto, riguarda la nostra idea di famiglia: che non è affatto scomparsa, come vorrebbero sociologi apocalittici e catastrofisti dell'etica. È solo cambiata.
Come da sempre l'amore è un vincolo, così da che mondo è mondo la buona politica si fa sul terreno delle cose, più che delle parole. La versione nostrana dei Pacs è tramontata molto in fretta sotto il peso di nomi tanto pomposi quanto buffi: i Dico e i Didorè (da non confondersi con la madama delle filastrocche) sentenziavano di «diritti e doveri delle coppie di fatto» ma hanno fatto un bel buco nell’acqua. Le solite storie all'italiana, la prevedibile inconcludenza di una politica che parla per codici ermetici. «Vincolo affettivo» invece non è l'abbreviazione di niente: ci dice come stanno le cose dentro migliaia di case, nella vita quotidiana e nei grandi momenti. Stabilisce che questo vincolo esige un riconoscimento, da parte della società, non offende nessuno e non limita la libertà di chi crede che l’unione tra un uomo e una donna debba essere sigillata dal matrimonio.
Presuppone, senza tante formule vuote e assordanti discussioni parlamentari, che esso tiene insieme le vite e, mattone su mattone, giorno per giorno, costruisce una famiglia. Anzi, la famiglia in senso lato: quella vera, della vita, e quella astratta, dei principi. Prevede, con una formula - per una volta tanto in politica - niente affatto oscura, ma anzi chiarissima a tutti (senza distinzioni di età, sesso, cultura, travagli amorosi), che un'unione fondata sul vincolo affettivo è una cosa civile. Non un’eccezione, né una scappatoia, non un vicolo cieco e nemmeno un chiaro segno di dissolutezza. Sembra quasi impossibile, ma ogni tanto anche la politica è progresso.

«La Stampa» del 30 giugno 2010

Nessun commento:

Posta un commento