04 luglio 2010

Il pensiero «forte» del filosofo «debole»

Disabile dalla nascita, lo svizzero Alexandre Jollien ha vissuto 17 anni in un centro di riabilitazione Quindi si è laureato a Friburgo, ora pubblica saggi tradotti all’estero e si dedica a tempo pieno alle sue tre «vocazioni» scoperte grazie a sant’Ignazio ed Etty Hillesum: il pensiero, la famiglia e l’handicap
di Anne Ricou
Sulle rive del lago Lemano, a Losanna, vive Alexandre Jollien. Dal 2002, anno di uscita del suo primo libro, quest’«uomo, scrittore e filosofo», colpito dall’handicap fin dalla nascita, racconta le pene e le gioie della sua esistenza. Al centro della sua testimonianza, la battaglia quotidiana per vivere. Ma oggi questo padre di due bambini scopre altri cammini.
Seguendo il suo itinerario spirituale, attinge una gioia profonda dagli incontri di ogni giorno. E quando ci riceve lo fa con la stessa semplicità disarmante. Una naturalezza che mette a proprio agio e un’attenzione per l’altro che non è solo educazione.
Come presentarla? Lei testimonia il suo handicap, ma è conosciuto anche come filosofo, conferenziere… «Presentarsi vuol dire spesso definirsi; e definirsi vuol dire ridursi. Tuttavia oriento la mia vita attorno a tre vocazioni: padre di famiglia, persona che testimonia il proprio handicap e filosofo».

Com’è che la sua nascita l’ha fatta precipitare nell’universo dell’handicap?
«Se parlo con lentezza, se ho difficoltà a coordinare i movimenti, se il mio passo è esitante è perché al momento della nascita il cordone ombelicale mi si è attorcigliato tre volte attorno al collo. Quell’incidente ha provocato un’asfissia e soprattutto conseguenze neurologiche. Disabile dalla nascita, sono cresciuto in un istituto per persone con infermità motorie cerebrali. Fin dall’età di 3 anni, i miei genitori mi hanno messo in un istituto specializzato a Sierre, in Svizzera, perché lì erano possibili trattamenti che mi consentivano di sviluppare la motricità: fisioterapia, ergoterapia e ortofonia. Vi ho trascorso 17 anni della mia vita».

Quali ricordi conserva di quei 17 anni in istituto?
«Non ho molti ricordi, perché tutti i giorni si assomigliavano. Generalmente la vita è segnata dagli avvenimenti, ma all’istituto si era presi dalla routine: la mattina si scendeva al pianoterra per la scuola e la sera si risaliva al dormitorio al primo o al secondo piano. Ho soprattutto ricordi tristi, legati alla separazione dai miei genitori la domenica sera.
Guardandomi indietro, sono stato effettivamente segnato dall’esperienza della separazione, che è un’autentica ferita nella mia vita. La separazione dai miei genitori, da mio fratello Franck, dalla mia famiglia ogni domenica sera. Non voglio fare psicoanalisi da bar, ma ritengo che il carattere ansioso che ancora in parte mi ritrovo derivi da quell’angoscia della separazione».

Ma lei dice anche che in istituto la quotidianità era segnata da una grande solidarietà tra voi?
«Sì, è assolutamente vero. I miei ricordi gioiosi sono legati ai miei compagni di sventura, poiché si condivideva tutto. Tra noi c’era una solidarietà che sento ancora oggi. Un rispetto dell’altro e forse la sensazione che abbiamo bisogno dell’altro per esistere. Un bisogno che non è alienazione. Al contrario: grazie all’altro costruisco la mia libertà e i miei progressi».

Ossia…
«Tra noi la collaborazione era vitale. L’amicizia ci univa e ci rendeva più forti. Ci permetteva di addolcire un po’ la solitudine. E poi, soprattutto, tra noi non c’era rivalità, come quella che più tardi ho scoperto nel mondo delle 'persone normali'. I progressi di uno erano condivisi da tutti. Così, dopo aver camminato a quattro mani, ho deciso di mettermi in piedi e di imparare a camminare sulle gambe. A 9 anni mi hanno messo un casco in testa e ho cominciato a cercare di percorrere avanti e indietro i corridoi dell’istituto appoggiandomi a una specie di carretto per mantenere l’equilibrio. Ricordo un giorno in cui provavo a tenermi in piedi. Un amico, Jean, mi osservava: era allettato, non poteva né camminare né parlare, e nemmeno stare seduto da sé. Non gli sfuggiva nessuno dei miei gesti maldestri e rideva come un matto. Ciò mi offendeva molto. Ma a poco a poco mi accorsi che più i miei passi diventavano sicuri, più rideva. In realtà mi sosteneva e le sue risa celebravano la mia vittoria, il mio ingresso nel mondo dei bipedi.
Al Centro il progresso di uno diventava quello di ciascuno. Finalmente a 11 anni ho camminato».

Dove ha trovato la forza, la volontà di superare le diagnosi più cupe che i medici facevano alla sua nascita?
«Credo che al centro della mia battaglia ci siano gli altri e l’umorismo. Ci sono innanzitutto i miei genitori, la prima 'fonte' della mia vita: mia madre, che è ancora viva, e mio padre che oggi non c’è più. Venivano entrambi da un ambiente operaio molto semplice. Senza volerlo, mi hanno mostrato una forma di umorismo che mi impregna ancora oggi. L’umorismo delle piccole cose e dell’autoironia. Ridere di me stesso è uno strumento che mi aiuta enormemente».

Da qui il suo percorso che lei definisce di «battaglia gioiosa» nel mestiere di uomo!
«Sì, è vero. Scrivo anche che l’esistenza procede dalla lotta. Lo so fin troppo bene! Ma oggi rivedrei il senso che do alla parola 'battaglia'. Mi spiego: all’epoca dovevo battermi tutti i giorni e combattere l’handicap.
La mia fortuna è stata che non mi sono mai sentito solo. Ero circondato dai genitori, dai compagni di classe ed era una battaglia per tre motivi. Sul piano fisico, l’urgenza: tutti eravamo 'lì per questo'. Ma anche sul piano della vita in comunità si imparava ad accettare l’altro e a progredire con lui. Infine, nell’adolescenza, la mia battaglia si è trasformata, ha invaso anche il campo spirituale. Obiettivo: cercare di diventare qualcuno di buono…».

Qualcuno di «buono»… Perché questa parola?
«Perché la sentivo a messa da padre Morand, il prete del Centro, e ho avvertito una vocazione a cercare di essere buono e generoso. Ho frequentato a lungo il catechismo, ma non mi ha fatto una grande impressione. Invece l’incontro con quel prete mi ha segnato profondamente. In lui si manifestava tutta un’umanità, predicava con l’esempio. Un giorno sono andato a trovarlo per parlargli di filosofia, di cui aveva una grande conoscenza. Mi ha colpito. Avevo sentito molti discorsi di educatori, ma lui era un vero esempio di bontà, a partire dal sapere. Negli ultimi anni che ho trascorso al Centro mi ha dato strumenti di riflessione per forgiarmi uno spirito critico, mi ha anche insegnato la prudenza nel giudizio sull’altro, soprattutto a non dire sugli altri qualunque cosa. Questa disciplina interiore la percepivo come una gioia perché partecipava davvero alla costruzione del sé».

Il grande pubblico la conosce soprattutto come filosofo, ma lei cammina anche sotto lo sguardo di Dio …
«Sì, certo, sono stato sempre credente ma a intermittenza. Quando faccio il mio lavoro di scrittore cerco di non ricorrere alla fede perché ciò mi chiuderebbe in una casella, in una categoria, come l’handicap. Due anni fa ho seguito un ritiro ignaziano che mi ha dato una base, con la volontà di approfondire la mia fede e di cercare di viverla tutti i giorni, con maggiore o minore intensità. È stato in Svizzera, al centro protestante di Crêt-Bérard, dove ho scoperto gli esercizi spirituali durante due ritiri di dieci giorni. L’esperienza del ritiro mi è rimasta dentro tutto l’anno. All’inizio il silenzio e la solitudine erano troppo duri per me. In precedenza avevo partecipato a sessioni d’ispirazione orientale, ma il ritiro ignaziano mi ha colpito perché mi ha dato delle risorse».

Quali?
«Ho preso coscienza del concetto di vocazione. È bella, la vocazione, perché non è un sogno a lungo termine o uno scopo, ma è porsi la seguente domanda: 'A che cosa mi chiama oggi Dio?'. Così ho capito di avere tre vocazioni: di scrittore, padre di famiglia e persona disabile. L’ultima non l’ho davvero scelta, ma oggi mi chiedo piuttosto cosa posso vivere 'grazie' a queste tre vocazioni».

Com’è cambiata la sua vita quotidiana?
«Tre volte al giorno mi concedo momenti di meditazione, di preghiera, allo scopo di ritornare all’essenziale e di integrare alla mia giornata le mie tre vocazioni. Per preparare la giornata, al mattino, comincio rivolgendomi direttamente a Dio. All’ora del riposo pomeridiano mi prendo un altro momento di meditazione, per non lasciarmi travolgere dalle attività, e poi la sera rileggo la mia giornata e preghiamo, mia moglie e io, insieme con i bambini. Non c’è nulla di eccezionale in questo, però è una guida».

L’abbandono è una forma di accettazione dell’handicap?
«È stata Etty Hillesum a riconciliarmi con 'l’accettazione', dopo aver letto il suo libro Una vita sconvolta. L’accettazione, e lei lo dimostra, non è una capitolazione. Oggi sono me stesso in una logica di progresso. 'Che cosa posso mettere in atto?'. Ecco l’interrogativo che nasce quando subisco un duro colpo. Nella sofferenza, senza indurirsi, l’uomo non sceglie una postura rigida, ma sente il comandamento della vita: fare di tutto per salvaguardare la gioia e condividerla. Per Etty Hillesum l’abbandono non è rassegnazione, è invece diventare più vivi. Più di ogni cosa, voglio alimentare la mia gratitudine d’avere la temibile fortuna di vivere. Quello che resta duro da accettare è che il mio handicap resterà una difficoltà che mi seguirà per tutta la vita, con fatica, certi giorni con dolore… Ma soprattutto non potrò mai dire 'è passato', no…, l’handicap richiede perseveranza. Se si conta troppo sulla propria volontà, sulla ragione, su se stessi, si diventa esausti. Non ci si può far carico dell’handicap una volta per tutte, bisogna assumerlo ora per ora, giorno per giorno».

Che cosa le ha fatto deporre le armi?
«La nascita di mia figlia Victorine, quasi 5 anni fa. Lei è stata la prima cosa che mi è stata data senza combattere. Imparare la felicità gratuita per me è stato davvero uno shock. Anche se resta una felicità fragile perché l’idea di perdere i figli è un’angoscia assoluta per ogni genitore. L’amore e la dolcezza… C’è qualcosa di inaudito che non rientrava nei miei riferimenti abituali. Mi sono trovato impreparato di fronte a tutta questa sensibilità da sviluppare. Per me era quasi dolorosa, quest’assenza brutale di battaglia, ma a poco a poco ho compreso che non era rassegnazione.
In realtà, se si educano i figli o una persona sofferente alla battaglia, questa diventa il centro della vita ed è molto pericoloso. Perché la battaglia dev’essere per la vita! Il centro della vita è la vita!».

(traduzione di Anna Maria Brogi)
«Avvenire» del 4 luglio 2010

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