11 luglio 2010

Nella finitudine della poesia la «mania dell'eterno»

di Maurizio Cucchi
Ricorderò sempre il giorno del mio primo incontro con il grande Mario Luzi, e ricorderò sempre un gesto e una sua frase che spesso mi è capitato di citare, parlando di questo maestro della poesia e del pensiero, e del pensiero nella poesia.
Mi disse, chinandosi e facendo il movimento con la mano di chi cerca qualcosa in basso: «Il poeta deve pescare in profondo». Ho sempre conservato dentro di me questo messaggio, queste parole, come un insegnamento. Nel senso, soprattutto, che il sondare le profondità deve costituire il gesto verticale al quale, specularmente e necessariamente, corrisponderà quello di muoversi, nello spazio, verso altezze che potrebbero anche porsi come estreme, assolute, irraggiungibili. La parola poetica deve avere, deve garantirsi, questa duplice possibilità di spinta, questa capacità di inoltrarsi, di scandagliare e ascendere al tempo stesso. Ambizioni estreme, si dirà; eccessive, o addirittura enfatiche. No, non credo, anche perché, insieme a queste due direzioni ideali di spinta, il poeta deve ricordarsi che ogni vera avventura della mente dovrà confrontarsi, umilmente, con gli strumenti umani (per citare un altro grande come Vittorio Sereni) che ha a sua disposizione. Deve cioè ricordarsi che la sua è un’arte, e come tale un esercizio umano attraverso i materiali che l’umano ha a disposizione, nella pochezza e nella grandezza della sua particolare condizione. Non si realizza nessuna Cappella Sistina senza prima essersi umilmente mossi con passione nella bottega, e dunque nel rispetto pieno di quanto abbiamo in dotazione. Penso anche alla grandezza di Hopkins, lirico innovatore ed espressivamente originalissimo, capace di cogliere nella bellezza delle cose la luce di un’essenza superiore.
Solo così si potrà iniziare un percorso che dovrà essere quello di una immersione consapevole in una vastissima dimensione spaziale, dentro la quale costituiamo, nella nostra finitudine, la meraviglia e l’angoscia dell’esistente in cerca di un’armonia di verità, di adesione persuasa all’universo e alla sua infinità di cui ogni vera parola poetica è come un dettaglio essenziale di svelamento.
Nella consapevolezza, inoltre, che da più parti, da più voci poetiche – e dunque in una sorta di opera collettiva – si viene esprimendo l’impegno, quotidianamente, in questa direzione. Oggi la poesia non gode di attenzioni sufficienti, lo sappiamo. E questo avviene, paradossalmente, proprio per la sua vocazione alla verità, per il suo porsi come avventura intellettuale al più alto livello realizzata nel corpo della parola.
Proprio per questa sua tensione all’oltre, preserva il suo valore insostituibile di testimonianza e itinerario, tra lo scandaglio nel profondo e l’inesausto cammino verso l’altrove di una meta superiore. Nella costruzione, peraltro, di un percorso conoscitivo che rimane sostanzialmente aperto e cangiante, libero: nell’idea di un progressivo avvicinamento, che non avrà mai fine, al vertice estremo della parola, al suo valore teologico, assoluto quanto irraggiungibile. Ed è proprio in questo spazio aperto, in quella che per Rebora era «mania dell’eterno», che si concretizza l’alto e umanissimo lavoro della poesia, il suo accettare la sfida, nella parola, della bellezza e della grandezza dell’essere minima parte e mirabile cosa, vita che torna vita attraverso la morte, pensiero che si rastrema nella sintesi potente della pronuncia poetica. Una parola che assume svariatissime forme, che assorbe in sé tutta l’emozione del percorso compiuto, tutto il dolore e la gioia della ricerca.
«Avvenire» dell'11 luglio 2010

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