11 luglio 2010

Sacerdotessa d’Apollo, oracolo dai responsi mai chiari

Fu il poeta mantovano autore dell’Eneide a riprendere il mito greco per legittimare - attraverso il viaggio di Enea agli inferi alla ricerca del padre Anchise - la figura di Ottaviano Augusto. Nella realtà, le Sibille erano giovani vergini e i loro vaticini avevano anche peso politico
di Aristide Malnati
Il mistero della Sibilla cumana porta con un balzo di millenni a raccontare uno dei miti più insoliti, eppure più radicati del vasto pantheon delle religioni del mon­do classico; e ci aggancia al cupo mondo degli inferi, popolato di figure demoniache e polimorfe, espressione concreta della fan­tasia creativa dei nostri antenati, che tan­to avrebbe influenzato anche le descri­zioni dell’oltretomba ad opera dei pen­satori cristiani della Patristica e della Scolastica. Colui che sicuramente ha fornito una descrizione chiara ed e­saustiva delle molte versioni par­cellizzate della Sibilla cumana, è Virgilio, insuperabile nel ripren­dere il mito greco e, conferendo­gli una patina di romanità, nell’u­tilizzarlo a motore legittimatore della figura di Ottaviano Augusto. Alla Sibilla Virgilio dedica la parte i­niziale del VI libro dell’Eneide, quando Enea, eroe troiano, sbar­cato in Italia e destinato a fonda­re Roma “caput mundi”, decide di entrare nel mondo degli inferi per incontrare il padre Anchise e gli e­roi del mondo omerico, defunti e simbolo di un’età dell’oro, la cui pu­rezza sarebbe stata di buon auspi­cio per l’importante compito, che il figlio di Anchise da Venere era de­stinato a portare a termine. La si­billa fungeva quindi quasi da viatico, da imprimatur iniziale di un percor­so voluto dagli dèi; già altre simili fi­gure profetiche, dallo stesso nome evocativo di etimo a noi ignoto, era­no presenti nella mitologia greca, punto di partenza per il dotto poeta mantovano; e dunque la presenza di una sibilla a Cuma (piccola frazione vicino a Pozzuoli) era un elemento cardine nel sottolineare l’operazione di sincresi, che portava l’articolato mondo olimpico elle­nico a completare le divinità avite, un po’ grezze per la verità, dei “patres” latini.
Il titolo di Sibilla era proprio di una figura religiosa di prestigio: la sacerdotessa di A­pollo e di Ecate, (quest’ultima una divinità notturna legata alla Luna e di provenienza mediorientale): simili caratteristiche ne ac­centuavano il legame con il mondo della notte, degli inferi e del mistero irrazionale, esaltato da riti evocativi, guidati da officianti del culto particolarmente ispirati, alterati da sostanze allucinogene e quasi divorati da una sorta di sacra follia, la “mania” o il sa­cro “furor”, alla base del mondo dell’al di là. La Sibilla cumana poi svolgeva la sua atti­vità oracolare, preparatoria a qualsiasi con­tatto (anche onirico) con l’oltretomba, in un contesto paesaggistico assai evocativo: nei pressi del Lago d’Averno, in un antro o­scuro e labirintico, in cui la sacerdotessa va­ticinava i suoi responsi, trascrivendoli in e­sametri su foglie di palma; responsi soven­te di difficile decriptazione, che lasciavano il richiedente nell’angoscia dell’incapacità interpretativa: si parla tutt’oggi di responsi sibillini e i libri sibillini, una 'summa' di messaggi criptici di varia natura sono dei testi leggendari, simbolici dell’impossibi­lità di conoscere e interpretare corretta­mente il fatum, la volontà degli dèi co­munque Al di fuori della valenza mitologica, che am­mantava la Sibilla di un velo impalpabile di mistero, le sacerdotesse cumane erano per­sonaggi reali, giovani vergini, che rimane­vano tali e svolgevano questo ruolo per tut­ta la vita, completamente devote ad Apollo ed Ecate, e in quanto tali insignite di venerazione particolare, anche perché i loro re­sponsi potevano avere determinante peso politico.
«Avvenire» dell'11 luglio 2010

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