11 luglio 2010

Poesia: una via teologica?

Se in tutte le grandi culture il canto poetico è stato visto come il mezzo più potente per indagare ed esprimere le realtà profonde e invisibili, la Rivelazione cristiana ha segnato anche da questo punto di vista uno spartiacque. Aprendo prospettive inedite per i grandi versificatori
di Gianfranco Ravasi
«In uno scritto biblico composto alle soglie dell’era cristiana forse ad Alessandria d’Egitto si legge: 'Dalla grandezza e dalla bellezza delle realtà create si contempla per analogia il loro artefice'. La frase, che sarà ripresa in modo più speculativo da san Paolo, delinea quella che tradizionalmente verrà definita come la «via pulchritudinis», l’itinerario conoscitivo che ascende di grado in grado, quasi in una sorta di scala paradisiaca, dalla terra al cielo». «Il linguaggio simbolico permette di annodare contingente e assoluto, temporale ed eterno. Ma come in teologia esiste la tentazione 'dia-bolica' di infrangere l’Incarnazione attraverso lo spiritualismo gnostico o il fenomenismo storicistico, così nell’esegesi c’è il rischio di spezzare la simbolicità della Parola. Emblematica in questo senso è stata l’ermeneutica tradizionale del Cantico dei Cantici»
Il tema che vorremmo solo abbozzare – considerata l’immensità degli orizzonti che evoca – potrebbe avere come sua ideale sintesi e sorgente una frase del libro della Sapienza, uno scritto biblico deuterocanonico, sorto alle soglie dell’era cristiana forse ad Alessandria d’Egitto e aperto alle istanze della cultura ellenistica.
In 13,5 si legge: «Dalla grandezza e dalla bellezza delle realtà create si contempla (theoreitai) per analogia (analògos) il loro artefice». La frase, che sarà ripresa in modo più «speculativo» da san Paolo in Romani 1, 20, delinea con una terminologia attenta al linguaggio filosofico greco quella che tradizionalmente verrà definita come la via pulchritudinis, l’itinerario conoscitivo teologico che «dalla grandezza e bellezza» (ek mégethous kai kallonès) creaturale ascende di grado in grado quasi in una sorta di scala paradisiaca (Genesi 28, 12) dalla terra al cielo, dall’umano al divino, dall’effetto creato alla causa creante. È appunto quell’«analogia» (analògos) che tanto spazio avrà nella filosofia e nella teologia scolastica, a partire dalle celebri cinque vie tomistiche idealmente e icasticamente condensabili nel dantesco «a l’etterno dal tempo» (Paradiso XXXI, 38).
Il nostro viaggio ascendente «analogico» avrà come sentiero quello delle parole nella loro forma più alta e simbolica: attraverso esse tenteremo di ascendere alla Parola primordiale divina, fonte di ogni parola, alimento e sostegno di ogni loro «grandezza e bellezza». Naturalmente, considerati i limiti di un approccio così essenziale com’è quello che ora possiamo effettuare, ci accontenteremo di indicare solo due tappe, due ideali gradini di questa scala ascendente. Per ragioni argomentative procederemo in modo discendente, partendo dall’alto, anche perché tale è il percorso seguito dalle Scritture Sacre che costituiscono il «grande codice» di riferimento per la nostra analisi che è da situare in un ambito teologico.
Ebbene, per la Rivelazione ebraico-cristiana la parola è la radice della creazione ove espleta una funzione «ontologica». Infatti, si può quasi affermare che entrambi i Testamenti si aprono con la Parola divina che squarcia il silenzio del nulla. Bereshit... wajjomer ’elohim: jehi ’or. Wajjehi ’or, «In principio... Dio disse: Sia la luce! E la luce fu» ( Genesi 1 , 1 .3 ). Così si schiude la prima pagina dell’Antico Testamento. Nel Nuovo Testamento l’ideale apertura potrebbe essere quella del celebre inno che funge da prologo al Vangelo di Giovanni: En archè en ho Logos, «In principio c’era la Parola» (1, 1). L’essere creato non nasce perciò da una lotta teogonica, come insegnava la mitologia babilonese (pensiamo all’Enuma Elish), bensì da un evento sonoro efficace, una Parola che vince il nulla e crea l’essere. Canta il Salmista: «Dalla Parola del Signore furono creati i cieli, dal soffio della sua bocca tutto il loro esercito... perché egli ha parlato e tutto fu, ha ordinato e tutto esistette» (Salmo 33, 6. 9 ).
La Parola divina è, però, anche alla radice della storia, come sorgente di vita e di morte: «Mandò la sua Parola e li guarì, li scampò dalla fossa... Egli invia la sua Parola e li fa perire... Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte era a metà del suo corso, la tua onnipotente Parola dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si slanciò... portando, come spada affilata, il tuo ordine inesorabile» (Salmi 107, 20; 147, 18; Sapienza 18, 14 -15 ). La Parola divina sostiene e giudica, quindi, anche la trama storica col suo tessuto di vicende ed eventi perché «retta è la Parola del Signore e fedele ogni sua opera» (Salmo 33, 4 ). Ma questa stessa Parola interpreta il senso ultimo della storia: è, quindi, la radice della Rivelazione.
Ma la Parola si cristallizza anche nel Libro per eccellenza, la Bibbia. È così che il Nuovo Testamento ama l’espressione graphè/graphaì per indicare la Parola di Dio. Si ha qui una puntualizzazione del complesso rapporto tra infinito e contingente, tra Logos e sarx. La Parola, infatti, deve comprimersi nello stampo freddo e limitato dei vocaboli, delle regole grammaticali e sintattiche, deve adattarsi alla redazione di autori umani. È l’esperienza che tutti i poeti vivono nella sua drammaticità e tensione. Goethe nel Faust confessa che «das Wort erstirbt schon in der Feder», sì, la parola muore già sotto la penna. E nel suo Flauto di vertebre Majakowski ribadisce: «Sulla carta sono crocifisso coi chiodi delle parole», mentre Borges più generalmente riconosce che «el universo es fluido y cambiante, el lenguaje rigido».
Eppure questa rigidità non riesce a raggelare e a spegnere l’incandescenza della Parola. Esemplare è il caso del profeta Geremia che «prende un rotolo per scrivere e scrive» su ordine divino gli oracoli del Signore (36, 2). Ma dopo che il re Ioiakim, leggendo quel rotolo, ne «aveva lacerato col temperino da scriba e aveva gettato nel fuoco» le colonne di quel testo (36, 23), il profeta non avrà esitazione su comando divino a far rinascere gli stessi oracoli mostrando così che – come dichiarava Isaia (40, 8) – «secca l’erba, appassisce il fiore, ma la Parola del nostro Dio dura in eterno». È anche questa un’esperienza che il poeta analogamente vive, convinto com’è che, una volta detta, la parola autentica non muore ma proprio allora comincia a vivere: «A word is dead/when it is said,/ some say./ I say it just/ begins to live/ that day» (E. Dickinson). È la forza «performativa» e non meramente «informativa» della Parola che ovviamente nella poesia celebra il suo trionfo e che ha il suo apice nella Scrittura Sacra.
Come accade per l’Incarnazione, anche la Parola rivela due volti, quello della «carne», del limite, della finitudine, e quello del divino, dell’efficacia creatrice, della teofania. A questi due volti, che in pratica continuano il discorso sopra abbozzato, dedicheremo ora la nostra attenzione. La Parola di Dio – come anche la poesia – si avvale di un mezzo «kenotico», quello di una lingua, di un lessico, di regole e fonemi. È la prigione necessaria della Parola ineffabile per rendersi effabile. È qualcosa di analogo alla kénosis del Verbo di Dio così come è descritta nell’inno paolino di Filippesi 2, 6 -11 : «Cristo Gesù, pur essendo di natura divina ... svuotò (ekénosen) se stesso, assumendo la condizione di servo...». La debolezza della parola umana è stupendamente illustrata da Isaia che, in una personificazione di Gerusalemme vinta, così canta: «Prostrata parlerai da terra e dalla polvere saliranno fioche le tue parole, sembrerà di un fantasma la tua voce dalla terra e dalla polvere la tua parola risuonerà come un bisbiglio» (29, 4).
La Bibbia si affida alla povertà espressiva di una lingua pietrosa come il deserto, scarna e scabra: è l’ebraico classico che può ricorrere, tra l’altro, soltanto a un arsenale lessicale limitato, composto di soli 5750 vocaboli. Oppure si basa sul greco koinè, ben più modesto della lingua della classicità ellenica. Anzi, la kénosis procede fino al punto che il nome più importante, quello divino, si contiene in quattro consonanti, JHWH, che rimangono mute, impronunziabili. Al vertice di questo assottigliarsi della Parola, nella miseria umana abbiamo l’esperienza straordinaria del profeta Elia al monte Horeb-Sinai. Dio non appare nel «vento impetuoso e gagliardo da spaccare le rocce», né si configura nel terremoto o nel fulmine di una tempesta assordante. Ma, come dice l’originale ebraico, il Signore si nasconde in una qol demamah daqqah, cioè in «una voce di sottile silenzio» (I Re 19, 11 -12 ). È quasi il punto zero dell’annientamento della Parola, eppure quel silenzio è «bianco», cioè racchiude in sé tutti i suoni, le lettere, le sillabe, le parole. È il «mistero», termine che nella sua radicale greca (myein) suppone il tacere, il chiudere le labbra, non per un’assenza di significati ma per una presenza di vita e di persona. È così che la Parola divina – come per analogia anche la parola poetica – rivela la sua potenza. Si manifesta come un mezzo sontuoso e, per usare un’espressione di Teilhard de Chardin, si fa «diafanica», cioè diafana e trasparente alla Rivelazione divina. È questa la potenza riconosciuta al Logos del prologo giovanneo, già evocato, secondo la semantica semitica sottesa. In ebraico, infatti, dabar, «parola», significa contemporaneamente anche «atto, evento». Dire e fare s’intrecciano. E sono, perciò, da assumere cumulativamente e non disgiuntamente o alternativamente, come suppone il poeta, i quattro significati che Goethe nel Faust attribuisce al Logos giovanneo: «das Wort», Parola, «der Sinn», Significato, «die Kraft», Potenza, «die Tat», Atto.
Questa efficacia che rende la parola (debole ed esile) capace di manifestare in diafania la Parola che «è stabile come il cielo» (Salmo 119, 89) si attua soprattutto attraverso il simbolo, nel senso genuino del termine (syn-ballein, «mettere insieme») e non nell’accezione popolare che lo fa sconfinare nella metafora meramente allusiva. Il linguaggio simbolico permette di annodare finito e infinito, contingente e assoluto, temporale ed eterno, umano e divino. Cristo è il grande Simbolo perfetto perché fonde in sé Logos e sarx, come si diceva, divinità e umanità, pienezza e debolezza. E come c’è in teologia la tentazione «dia­bolica» (dià-ballein, «gettare via», «disperdere») di infrangere l’Incarnazione attraverso lo spiritualismo gnostico o il fenomenismo storicistico, così anche nell’esegesi della parola c’è il rischio di spezzare la simbolicità della Parola o riducendola a mera larva spirituale o a cava da cui estrarre teoremi teologici oppure a una raccolta di testi storiografici o letterari.
Emblematica in questo senso è stata l’ermeneutica tradizionale del Cantico dei Cantici. Da un lato, l’amore dei due protagonisti è stato fatto evaporare in un misticismo allegorico (Dio-Israele, Cristo-Chiesa, Cristo-Maria, Cristo-anima): decollando dalla realtà, si infrangeva ogni legame con la concretezza dell’esistenza per rincorrere rarefatte geometrie metaforiche e spirituali. D’altro lato, la cosiddetta «école voluptueuse», cioè la scuola interpretativa letteralista, considerava il poema una semplice raccolta di liriche erotiche, modulate su analoghi modelli dell’antico Vicino Oriente, testi carichi talora di torrida sensualità, altre volte affidati ai topoi del linguaggio amoroso. In realtà il Cantico è contemporaneamente eros e amore, è celebrazione dell’abbraccio pieno umano che riflette e rivela quello divino nei confronti della sua creatura. Ed è solo la lettura simbolica a conservare compatti i due valori senza penalizzare uno per salvare l’altro. Come scriveva René Char, poeta surrealista e simbolista francese, «gli dèi abitano il simbolo;/ ghermita dal brusco balzo,/ la poesia s’accresce/ di un oltre senza protezione». È qui che teologia e poesia si trovano a muoversi nella stessa maniera, entrambe radicate nel presente e nel reale per ascendere a un Altro e a un Oltre trascendenti.
Concludiamo questa breve e semplificata riflessione sulla Parola sacra e su quella poetica, colte nella loro sonorità, ritornando al motto dantesco che ben riassume il nostro percorso. Questa ascensione dalla realtà contingente all’infinito divino che è comune a entrambe le Parole – la sacra e la poetica – può essere raffigurato attraverso un segno e un testo. Intendiamo alludere al genere shir hamma’alot, «cantico delle ascensioni» che è rappresentato da quindici composizioni del Salterio (Salmi 120-134). Proprio in questo titolo e nello spirito di questa raccolta, che forse era una specie di «libro del pellegrinaggio a Sion», riusciamo a ritrovare il percorso simbolico della fede e della poesia.
Infatti, da un lato, l’«ascensione» a cui questi Salmi fanno riferimento è una realtà concreta, spaziale, fenomenica: è la salita che conduce il pellegrino a Gerusalemme che è posta a 800 metri d’altezza o forse, come già faceva intuire lo storico Giuseppe Flavio, è l’ascesa processionale sui quindici gradini (donde la versione latina della Vulgata di Cantica graduum) che conducevano al cortile degli Israeliti, cioè al luogo dell’assemblea liturgica degli Ebrei maschi nel tempio erodiano. O forse – e questo sarebbe letterariamente suggestivo, anche se meno probabile storicamente – si tratta dell’«ascendere» particolare che molti dei quindici carmi rivelano, quello dell’anadìplosis, cioè di quella figura stilistica per cui il Salmo sale a spirale attraverso la ripresa stilistica in crescendo delle locuzioni: «Non lascerà vacillare il tuo piede,/ non si addormenterà il tuo custode,/ non si addormenterà, non prenderà sonno/ il custode d’Israele./ Il Signore è il tuo custode...» (Salmo 121, 3 -5
).
Ma alla sarx fisica o letteraria, cioè alla componente sperimentale dell’ascensione, ’aljiah, alla «salita» che è come una scalata verso l’alto s’intreccia e dà sapore l’ascensione del Logos, cioè dello spirito, la salita mistica sul modello di quella che Giovanni della Croce modulava sul monte Carmelo. Si sale verso l’alto di Sion pregando e quindi si ascende verso l’Alto, anzi verso l’Altissimo (el-’eljon), il Dio d’Israele trascendente. Non per nulla la prima espressione dei Salmi delle ascensioni è ’el-JHWH, «verso il Signore». Il canto, allora, è la celebrazione della ricerca dell’Infinito divino: «O Dio, tu sei il mio Dio,/ all’aurora ti cerco,/ di te ha sete la mia gola-anima,/ a te anela la mia carne,/ come terra deserta, arida, senz’acqua» (Salmo 63, 2; cf. Salmi 42 ; 84). La «gola-anima» (nefesh in ebraico ha questi due valori semantici), cioè la vita fisica, la «carne» tendono verso il mistero di Dio in una fusione «sim-bolica» piena.
Così è per la poesia autentica. Nella vicenda poetica e in quella «ispirata» le parole «salgono» sulla pagina ma anche «ascendono» nell’infinito. Sono parole che diventano «sacramento» perché uniscono la realtà storica con quella trascendente, la finitudine con l’infinito, il fonema con la voce, nelle parole che si spengono si annida «la Parola che dura in eterno». E allora la grande domanda che serpeggia nel lettore della Parola nelle parole è quella che Nelly Sachs, poetessa tedesca di matrice ebraica, Nobel 1966, ha evocato nella sua poesia dedicata alla profezia: «Se i profeti irrompessero per le porte della notte,/ incidendo ferite nei campi della consuetudine,/ se i profeti irrompessero per le porte della notte,/ cercando un orecchio come patria,/ orecchio degli uomini, ostruito di ortiche/ sapresti tu ascoltare?».
«Avvenire» dell'11 luglio 2010

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