07 maggio 2010

L'anti-donazione irrompe in sala parto

Si paga per custodire le cellule del cordone
di Francesco Ognibene
Non si capisce il perché, ma succede. E quando succede, non sembrano più scattare quegli automatismi culturali di difesa verso ogni insulto ai princìpi e al buon senso. Alludiamo al ribaltamento della realtà su delicatissime questioni bioetiche, per le quali esiste un intero campionario di paradossi.
Gli esempi si sprecano. Le staminali adulte garantiscono terapie già funzionanti? E allora si scatenano campagne per reclamizzare le virtù delle cellule embrionali, che sinora hanno guarito zero malati. I progressi della neonatologia rendono possibile la sopravvivenza di bambini nati prematuri a 22 settimane? Ecco pensosi documenti sostenere che prima delle 25 settimane non vale la pena prendersi cura di quelle creature. La selezione preimpianto degli embrioni moltiplica le giacenze nei freezer delle cliniche? Si insiste per avere ancor più mano libera nel selezionare e congelare vite umane. E ancora: la pillola abortiva crea problemi, anche letali, ma si dimettono dall’ospedale le donne che l’hanno appena ingerita. E via così, rimbalzando da un controsenso all’altro.
Fino a incontrarne uno nuovo, forse il più plateale, nascosto tra le pieghe di quella che comunque è un’ottima notizia. Diffondendo i dati sulla raccolta dei cordoni ombelicali nel 2009, il Gruppo italiano trapianti di midollo osseo (Gitmo) ha fatto sapere che le unità messe al sicuro subito dopo il parto hanno conosciuto un incremento superiore al 55% in un solo anno, oltre quota 14mila. Ancora un’inezia rispetto ai parti in Italia (ben oltre il mezzo milione), ma questa crescita improvvisa è forse il segno che le mamme italiane stanno arrivando a comprendere quanto sia semplice e prezioso il gesto di donare e far conservare il sangue cordonale del proprio figlio, del quale la ricerca biomedica ci sta mostrando la straordinaria efficacia per curare leucemie, mielomi multipli, anemie mediterranee, immunodeficienze e linfomi. Una vera panacea, che occorre raccogliere in modo appropriato, custodire in "banche" pubbliche, mappare e rendere disponibile per chiunque ne abbia bisogno e sia geneticamente compatibile. Le cellule cordonali sono un tesoro terapeutico da far mettere al sicuro senza alcuna spesa, sapendo che se domani ci si trovasse nella necessità di utilizzarne le virtù cliniche ci sarebbe quasi certamente un altro donatore compatibile col proprio profilo. Invece si scopre che per la maggior parte i cordoni "salvati" l’anno scorso (il 70%) non sono stati donati ma "riservati" in vista di un beneficio futuro per il proprio figlio che però la scienza ha escluso categoricamente.
Per guarire da malattie genetiche – dicono gli esperti, pressoché inascoltati – è molto meglio ricevere cellule da donatori che usare le proprie, nelle quali è scolpito il medesimo difetto dal quale si vuole guarire. E allora, perché quella larga maggioranza di "mancati donatori"? Perché esiste un fiorente mercato di biobanche private che custodiscono i cordoni a pagamento, utilizzando come testimonial personaggi dello spettacolo per fargli decantare le meraviglie del tenere gelosamente per sé un simile scrigno di possibili guarigioni altrui. E visto che in Italia questo bazar delle cellule è ancora vietato, ecco il lamento (radicali in testa, al solito) per il fatto di costringere gli italiani a rivolgersi oltre frontiera anziché legalizzare anche da noi questa ingannevole forma di concorrenza alla donazione. Un capolavoro di contro-realtà, e di autolesionismo. La donazione infatti innesca un intreccio di generosità, tesse quella trama altruista che sostiene la nostra società. Non ne possiamo fare a meno: si vive (e ci si cura) solo grazie agli altri. Non "donare" significa semplicemente negare ciò che siamo. Perché mentire a noi stessi?
«Avvenire» del 7 maggio 2010

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